RUOLO MARGINALE DELLA POESIA NEL MONDO ODIERNO

1. Ruolo marginale della poesia nel mondo odierno

Ormai sono almeno due secoli che la poesia ha perso l’aura. Il poeta non ha più – soprattutto nella civiltà occidentale – un ruolo sociale definito, ma è ritenuto un di più, un gadget, forse uno scarto del sistema socioeconomico. Una volta i poeti erano gli aedi delle società, gli storici delle grandi imprese eroiche. Poi divennero il vezzo di signori e castellani, quindi – nell’Ottocento – persero le ali. Come angeli decaduti cominciarono ad aggirarsi in un deserto dell’anima, fra macerie nostalgie frammenti. Rifiutati dal mondo, si rifugiarono nel mondo interiore, nel lirismo sempre più soffuso e poi – via via – verso uno sperimentalismo per rade cerchie di lettori. Pasolini già avvertì che la poesia non ha spazio nell’universo economico moderno (non si vende, non entra nei circuiti) anche se questa – disse lungimirante – è forse la sua forza.
Il poeta, essere isolato e inutile, diviene clown (Curtius), fa di tutto per essere visibile.
Ha sempre meno lettori, a meno che la sua umanità intrighi la gente: il poeta diviene noto (riconosciuto) se fa altro. E così D’Annunzio deve sorvolare il Quarnaro e darsi ad una vita dissoluta; Rimbaud e Verlaine vivere una scandalosa esperienza omosessuale; lo stesso Rimbaud optare per il gesto estremo di abbandonare la poesia; Ungaretti farsi prefare da Mussolini; Neruda divenire simbolo del comunismo universale; Lorca farsi fucilare nella guerra di Spagna; Heaney accettare di essere portavoce dei movimenti politici indipendentisti irlandesi; sino ad Alda Merini, alla cui poesia si è giunti tramite la sua riconosciuta (quella sì) follia. Si diviene poeti se si brilla di altra luce, di qualsiasi genere, possibilmente di luce torbida, trasgressiva, fastidiosa. Facilmente è un emarginato che diviene (nel senso pubblico) poeta: vedi Dario Bellezza, vedi Sandro Penna. E il poderoso Van Gogh sarebbe passato alla storia dell’arte, senza i suoi squilibri psichici? E Ligabue?
D’altra parte la strategia sta contagiando anche la narrativa: Saviano è più uno scrittore o un testimone anti-camorra? Se pensate a Busi, vi vengono in mente i suoi libri o il suo turpiloquio?
Ma la poesia in sé interessa a pochi. Alla ristretta cerchia degli accademici. A qualche sparuto appassionato di parole diverse.
Provate a organizzare degli incontri con poeti in qualsiasi centro culturale (peggio ancora nelle scuole o all’Università): il pubblico sarà risicato. Dove sono i professori di lettere, i critici, i lettori onnivori, gli altri poeti? Se c’è pubblico, provate allora a togliere:

a) I parenti del poeta in questione
b) Gli amici, che non possono rifiutare l’invito
c) Nel caso dell’Università, gli studenti obbligati (a pena di non superare l’esame) a partecipare.

Giungerete – per eliminazione – a contare meno di dieci persone che stanno lì perché sono interessate ad ascoltare poesia. È un metodo infallibile. Eppure molti scrivono poesie. Solo che leggono (se pure) solo se stessi. La poesia esiste soltanto nei gruppi di poesia. In tutte quelle organizzazioni (semiclandestine, minuscole) che radunano pochi, testardi, irremovibili cultori della poesia (poeti e no). Da trent’anni a Bari avvengono i ‘Lunedì letterari’ presso la libreria ‘Roma’: c’è un gruppo di aficionados che frequentano – proprio come una scuola, un laboratorio, un’officina, un rito – in ogni caso. Qualsiasi poeta ci sia, noto o no, alle prime armi o di lungo percorso. A Roma il salotto letterario di Maria Racioppi fa qualcosa di simile. E così altri gruppi a Firenze (vedi Paola Lucarini Poggi, Mariella Bettarini), il gruppo di Giuseppe Napolitano a Formia, eccetera). La poesia non cambia il mondo, come volevamo noi generazione del Sessantotto. La poesia non va al potere. Al potere ci vanno i politici corrotti, le star pronte a tutto, gli imprenditori che sfruttano il lavoro altrui.
La poesia non cambia il mondo. E non perché non abbia l’energia per farlo. Semplicemente perché non ci sono i ‘credenti’ in quest’arte. I partecipanti al rito. Il popolo è preso da ben altro. Incombono problemi planetari, dall’ecologia ai sistemi finanziari. Tra breve piogge acide invaderanno il mondo. Eserciti si contenderanno l’acqua. Sempre meno saranno i cultori disinteressati della poesia. Si penserà più volgarmente al posto di lavoro. Ad una nuova e difficile sopravvivenza.
La poesia non cambia il mondo. Per questo è (quasi) inesistente. Per questo i media la ignorano.
Chi volete che legga i libri di poesia? Cento lettori, ad andar bene. Anche perché la poesia richiede una forma di impegno (riflessione, concentrazione, sforzo ermeneutico) che è in controtendenza ai nostri tempi: scialbi, disimpegnati, superficiali, rapidi. La poesia richiede lentezza. Pausa. Non è produttiva. Non è immediatamente utile.
Esiste solo in rade enclavi, gruppuscoli che si riuniscono dove capita. Nei sottoscala, in qualche rara libreria accogliente. Addirittura in casa. Abbiamo inventato persino la home-poetry, poesia che si legge in casa, tra un tè e un biscotto, tra un sofà e il gatto che scivola silenzioso e sornione fra i libri.
Se la situazione reale è questa, che cosa ne traiamo? Dobbiamo attendere lo scadimento ulteriore della poesia o una sua futile rinascita via facebook, dove ognuno piazza il suo scritto, non v’è selezione, analisi critica, studio? La poesia non è – come pensano torme di autori virtuali – semplicemente espressione dei sentimenti, sennò dovremmo considerare il neonato che piange disperatamente perché ha fame uno straordinario poeta (esprime appieno i suoi sentimenti) e grande vate un gatto che fa le fusa. La poesia è altro: riflessione sulla parola, confronto con la storia letteraria, oltre che illuminazione e ispirazione. No, se abbiamo un’opinione alta della poesia (non quella, appunto, di un libero scambio informatico, tra il new-age e il ‘giovanilismo’) occorre ripensare al suo ruolo. Ad una diversa modalità di esistere. Una sua nuova essenzialità. La poesia deve tornare ad essere – rilkianamente – necessaria.
Già, ma come?

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