PREFAZIONE

Sovente i grandi innovatori traggono lo spunto iniziale della loro opera dalla riflessione sul passato. La scintilla che ha innescato la speculazione poetica di Veniero Scarselli proviene dal cogito ergo sum di René Descartes, che a sua volta stravolge in modo definitivo il si fallor sum di Agostino. Per Agostino, l’uomo può conoscere il dubbio proprio perché vi è una verità superiore che lo sovrasta. Per Descartes, invece, l’unica verità che può conoscere l’uomo è quella che nasce come conseguenza del dubbio. A poco serve che Descartes elabori, per buona pace dei credenti, le tre prove ontologiche dell’esistenza di Dio, perché ormai la nave ha perduto il suo albero maestro e quindi non ha più alcuna possibilità di controllo. Infatti, se la verità nasce dal dubbio, l’uomo e non Dio è l’unico creatore del vero. È definitivamente indicata la strada che conduce al solipsismo, all’ateismo, al nichilismo, alla morte di Dio. La verità diviene figlia del dubbio e quindi diviene figlia dell’uomo. In altre parole, la verità diviene una condizione caduca ed effimera, cioè il vero diviene la contraddizione di sé. Veniero Scarselli avverte che il cogito ergo sum è l’autentico buco nero che inghiotte la civiltà umana, la scienza, la filosofia, l’amore per la conoscenza. Da lì non si esce più: lì, tutto scompare e tutto implode in sé. Tuttavia, per il semplice fatto che si sia potuto formulare il cogito ergo sum, significa che tale ipotesi di pensiero esiste, e che pertanto non la si può ignorare, e quindi, non si può sfuggire al diabolico buco nero capace di fagocitare la storia umana di amore della conoscenza, e di trasformarla in amore della falsità e del dubbio. Tanto vale, allora, buttarsi dentro a tale buco nero, con gioiosa ironia, con rabbia, con nostalgia di Dio e del suo amore per la verità, con pietà per la storia dell’umanità, per i suoi miti, i suoi sogni, le fiducie e le speranze in un mondo migliore, che sia altra cosa, collocata al di fuori del buco nero, da cui non potremo mai più uscire. Ma allora, agli occhi di Veniero Scarselli, si apre proprio il gioioso tormento di divenire l’apprendista stregone prospettato da Wolfgang Goethe: sarà proprio lui, uomo e poeta e novello Prometeo, l’unico creatore del vero, che ovviamente – come insegna Descartes – sarà un falso-vero, o se si preferisce sarà un “pensiero debole” moderno. Da cosa sarà costituito il vero prodotto dagli uomini, e rivelato dai poeti? Sarà esattamente costituito dall’immenso magazzino della memoria dei grandi miti del passato, le storie, le favole, le dicerie, le equazioni matematiche, le ricerche scientifiche, le proiezioni futuristiche, le scoperte più recenti della scienza. Il falso-vero è l’immenso computer dell’umanità, fatto girare ancora una volta da quell’amore che dantescamente ha fatto muovere il sole e le altre stelle. Attenzione, stiamo parlando dell’eros, che in Veniero Scarselli è l’estasi mistica che coincide all’unisono con il deliquio sessuale, dicasi l’orgasmo. Anche questa teoria del sesso come strada aperta verso la verità è una forma di religione; anche questa teoria proviene dagli immensi magazzini della memoria e dell’esperienza dell’umanità, basti pensare in tempi recenti alla religione della setta induista dei neo-sanniasi, anche noti come gli Arancioni, dal colore preferito delle loro vesti. Ma dall’Oriente Veniero Scarselli deriva anche molte teorie sulla metempsicosi e in particolare modo attinge dal Libro tibetano dei morti e sulle informazioni che vanno sussurrate alle orecchie del defunto per aiutarlo ad orizzontarsi nella reincarnazione. Similmente, dall’antichità ellenica e prima ancora dai riti e miti dell’intero bacino mediterraneo, Scarselli attinge il culto della Grande Madre, che viene trasfigurato nella visione poetica della Grande Vagina, l’immensa fonte della vita valida per l’intero cosmo. Anche le modernissime teorie scientifiche di Fred Hoyle e di Robert Jastrow, nonché le attualissime concezioni metafisiche di Teilhard De Chardin sulla noosfera si collocano al centro della grande invenzione poetica di Scarselli. Nel caso di De Chardin, poi, non è da escludere che Veniero Scarselli si compiaccia in modo particolare di celebrarne l’indiscusso genio e la riconosciuta capacità di anticipatore e di preveggente proprio per marcare il clamoroso infortunio in cui cadde Eugenio Montale che, quasi a digiuno delle opere del grande gesuita, si permise di beffardamente villaneggiarlo nella nota poesia A un gesuita moderno, del 1968. Scarselli, che si professa sempre ignaro delle opere dei poeti a lui contemporanei (o quasi), raramente si lascia scappare l’occasione di pizzicarli in castagna, per altro rinverdendo il vezzo al dileggio delle sciocchezze pronunciate dai poeti che fu già di Dante e di tanti grandi dopo di lui. Da buon toscano, Scarselli non è tenero neppure con Mario Luzi, suo conterraneo. Ma sarebbe troppo lungo fare il resoconto dei missili, delle frombole e delle frecciate lanciate da Scarselli agli altri poeti, non certo per invidia, ma invece per una questione di stile e di dignità, addirittura per una faccenda di etica professionale: il poeta non deve strisciare davanti ai più grandi per ottenerne l’appoggio, ma al contrario deve sempre sapere gridare al “re nudo” per smascherarne il ridicolo. Si pagano dei salatissimi prezzi, questo è ovvio, e Veniero Scarselli ha chiaramente pagato il massimo che un poeta della sua capacità e levatura avrebbe potuto pagare: ha pagato e sta pagando il sussiego con cui la grande critica letteraria commenta la sua opera.
Al centro dell’opera scarselliana vi è, dunque, la divina visione dantesca, cioè l’invenzione poetica della divinità. Così come Dante descrive la visione di Dio, Scarselli immagina che ogni poeta debba porsi il compito di riuscire a fare altrettanto. Correggo l’espressione: non ogni poeta, ma solo il “vate”, cioè etimologicamente colui che procede “a vi mentis”, dalla forza della mente. Ecco, il nocciolo della formula: tutto risiede nella forza della mente, che è memoria, confronto, comprensione, invenzione, fantasia. Specie la fantasia, da buon seguace di Dante, in Scarselli ha un’importanza primaria. Non bisogna credere che esista realmente una Suprema Macchina Elettrostatica, per il semplice motivo che non siamo neppure in grado di sostenere che esista davvero la realtà. Ma quello che è assolutamente certo è che esiste un poema scritto da Veniero Scarselli che dà conto minutamente della Suprema Macchina Elettrostatica e di Super-Gemma. Il poeta, dunque, inventa il modo e il mondo della vita: questo ci insegna Scarselli, e non è poco. L’opera scarselliana è ovviamente ricca di addentellati, corollari, conseguenze, discendenze, implicazioni, che si innervano nella cultura del nostro tempo, nelle nostre gabbie, piccole e grandi prigioni, deboli o efficaci credenze. A quest’uopo è mirabile la lettura in chiave psicanalitica che il bravissimo Rossano Onano ha curato dell’opera e della personalità dello scrittore di Pratovecchio, il quale non è stato insensibile a tanta attenzione resagli dall’amico e, a sua volta, gli ha dedicato altrettanto studio critico e letterario, per cui ne è venuto fuori un libretto a lettura incrociata e a quattro mani, di Onano e di Scarselli, che si chiama Diafonie poetiche a contrasto, e che è sicuramente uno dei più validi (e divertenti) contributi di indagine sull’attualità della ricerca poetica, con specifico riferimento alle opere dei due scrittori presi in esame. Andrebbero, tra i critici più sensibili e più consapevoli del valore poetico di Scarselli, anche ricordati per lo meno la compianta Maria Grazia Lenisa e l’avveduto Federico Batini, quest’ultimo ha avuto il merito di svelare per primo il gemellaggio – si dice “inconsapevole” – tra Caproni e Scarselli sul tema della “caccia a Dio”. Ma di gemellaggi nell’opera scarselliana ve ne sono molti altri, si pensi per esempio, per citarne uno dal carattere trionfale, al racconto in chiave di ballata medievale che Scarselli fa di tutti i suoi poemi e che è gemello allo stile di racconto adottato da Coleridge nella Ballata del vecchio marinaio: non sorprende, del resto, che tra i poemi di Scarselli, ve ne sia uno intitolato Ballata del vecchio capitano, ove si parla di un naufragio in mare, con la nave che cozza contro le rocce, proprio come è descritto in Coleridge.
Il poema è la dimensione e la misura del discorso poetico scarselliano. Si tratta di un racconto epico intorno all’Io, eroe unico della poesia, e che diviene espressione di tutto ciò che esiste: non una valenza autobiografica personalistica, ma l’Io è invece la visione dell’essere, forse, andrebbe scritto con la maiuscola, ma mi limiterò ad indicarlo come “ciò che è” ossia “ciò che il poeta nomina nel suo linguaggio”. Il verbo si fa cosa e diviene creatura, diviene realtà: si è già letto nella Bibbia, ed è esattamente quanto Scarselli ripete con palmare semplicità e convinzione. L’innovazione, dunque, consiste nella nostalgia del passato. Jean Starobinski sostiene che l’uomo moderno è incurabilmente malato di melanconia e che la sua condizione di inguaribile nostalgico gli deriva dalla lontananza da Dio, che è divenuto assente nel mondo moderno, perché ingoiato da quel tale buco nero cartesiano di cui si diceva poco prima. Veniero Scarselli, con coraggio, con ironia, con sdegno, con pietà, con paura, con immenso amore vive l’incurabile nostalgia di Dio chiamando a testimonianza tutto l’amore per la conoscenza di cui dispone per offrire una visione suprema del divino, da godere per sé e per tutta l’umanità, cui appartiene in modo irrinunciabile la forza di concepire un mondo migliore di quello in cui si è condannati a vivere.

Sandro Gros-Pietro

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