Prefazione

Tra rispecchiamento e rimozione.
La struttura dell’immagine nella psicoestetica di Carlo Di Lieto

“Per me scrivere è sprofondare dentro me stessa sempre sul filo della memoria individuale e collettiva”.
Annie Ernaux, “Corriere della Sera”, 17.09.2023.

L’opinione largamente condivisibile che l’opera d’arte sia – nella sua conchiusa strutturazione segnica – la rappresentazione del mondo interiore dell’artista, rispecchiato in tutte le sue molteplici stratificazioni di istinto, ragione, memoria e rimozione, non ha affatto giovato, soprattutto in Italia, alla diffusione della psicoestetica.
Le diffidenze, ricondotte da Mario Puppo all’egemonia – tra gli anni ’20 e ’60 del secolo scorso – dell’idealismo crociano e gentiliano, dello storicismo marxista e dell’integralismo cattolico, erano motivate dal fatto che gli ambiti e le modalità di decodificazione dell’universo mentale dell’artista e del suo formale e oggettivo porsi come reale attraverso il linguaggio, non apparivano nettamente definite a livello teoretico e metodologico.
A generare dubbi e perplessità aveva contribuito lo stesso Freud quando, nel saggio Il Mosè di Michelangelo, nota che il contenuto di un’opera d’arte esercitava su di lui “un’attrazione più forte che non le sue qualità formali e tecniche alle quali invece l’artista attribuiva un valore primario”.
Ulteriori perplessità in ordine all’incidenza dell’inconscio nella elaborazione formale del linguaggio artistico erano generate dalle devianti ambiguità semantiche di una terminologia mutuata, nell’ermeneutica freudiana e junghiana, dalle mitologie indoeuropee, per definire le pulsioni emozionali e le immagini simboliche codificate nella memoria onirica.
A fissare i corretti ambiti di applicazione di un metodo di analisi che consenta di intercettare nel testo “i segnali linguistici atti a rivelare e comunicare le intenzioni espressive, anche inconsce dell’autore”, fu – in Italia – Giovanni Amoretti che, citando in una nota i testi psicanalitici cui “costantemente” si riferiva (Freud, Abraham, Klein), precisa che “L’analisi psicologica integra, senza escludere, i risultati offerti da altre metodologie di lettura (analisi storica, sociologica, stilistica, strutturale, …), che conservano, nel loro rispettivo momento, pienezza di funzione [e] rendono possibile una conoscenza integralmente storicizzata della personalità dell’autore e della sua espressione”.
Siffatto concetto comincia ad essere condiviso, sin dagli anni ’30, da alcuni dei più autorevoli esponenti europei della critica stilistica.
Nella Lettera ad Alfonso Reyes sulla stilistica (1927), Amado Alonso riconosce che “nell’analisi dell’opera d’arte non tutto termina con il piacere estetico e che ci sono valori culturali, sociali, ideologici, morali, valori storici insomma, che [la stilistica] non può né vuole trascurare”. E aggiunge che anch’egli, nei suoi studi, si occupa “di aspetti dell’opera che non sono proprio linguistici […] e lo stesso avviene negli studi di Dámaso Alonso, di Karl Vossler, di Oscar Walzel, di Leo Spitzer…”.
Tornando nel 1957 sui metodi e i limiti della critica stilistica, premesso che “tutti i poeti trasformano la propria esperienza vitale in poesia”, Dámaso Alonso ribadisce che nell’analisi testuale si debba “partire a volte da dati tra loro molto lontani: quelli che possediamo sulla personalità del poeta, sulla sua educazione scientifica e letteraria, sulla sua vita, sulle sue relazioni psicologiche di fronte all’ambiente”, al fine di determinare “grazie appunto al significante […] come si sono composti tutti quegli elementi nel significato dell’opera”.
La struttura dell’immagine onirica è, infatti, sempre generata dalla memoria, che è memoria di luoghi (la casa del nespolo), di persone (Dora Markus), di sensazioni (la pioggia nel pineto), di eventi storici e vicende personali (“le morte stagioni e la presente”). A François Villon che nella celebre Ballata delle dame di una volta si domandava dove fossero “les neiges d’antan” (le nevi dell’altr’anno)”, Freud avrebbe risposto che esse sussistono nella memoria di chi le aveva viste.
Nell’analisi del testo bisogna inoltre distinguere le immagini e i personaggi creati dalla fantasia (l’ippogrifo, Polifemo, Gulliver, il Barone di Münchhausen, il Visconte dimezzato) da quelle restituite dalla memoria del vissuto percepito e introiettato: la rana che gracida col muso fuor de l’acqua o i cani che vengono a morsi con aspri ringhi e ribuffati dossi.
In tale ottica, le interconnessioni tra memoria e flussi di coscienza, nell’emergere della creatività come prodotto dell’attività neuronale sulla corteccia cerebrale, hanno dato origine, nel 2002, agli studi di Semir Zeki sulla neuroestetica.
La straordinaria validità di un metodo di analisi fondato sulla decodificazione del testo secondo gli ambiti e le finalità definite dall’Amoretti, è dimostrata dagli studi condotti da oltre venti anni da Carlo Di Lieto, uno dei più autorevoli esponenti della critica psicanalitica.
Mutuando da Wilhelm Reich, Ronald Laing, Matte Blanco, la terminologia clinica con cui, nella psichiatria contemporanea, vengono definiti i disturbi della personalità e le patologie neurotiche e psicotiche, già diagnosticati da Binet nel 1892, Carlo Di Lieto fa emergere, sia dal testo che da fonti collaterali (diari, lettere, vicende autobiografiche) le dinamiche emozionali attraverso le quali l’io diviso dell’autore si estrinseca, adottando o facendo adottare ai personaggi una maschera (il falso io), l’altro da sé, il doppio per conformarsi o fingere di conformarsi a modelli di normalità sociale.
L’analisi dei disturbi, in cui fermentano i germi di alienazione e straniamento che determinano la fuga dalla realtà e lo sdoppiamento dell’io, non è, quindi, circoscritta ai grandi “dissociati” del romanticismo estremo o del decadentismo (Dostoevskij, Baudelaire, Proust), nelle cui opere possono essere colti come connotazioni costitutive e tipiche, ma si estende, con risultati sorprendenti, anche ad autori del passato (Tasso, Cervantes, Francesco d’Assisi, Dante e gli stilnovisti) e alle loro poetiche.
Lo studio rigoroso e comparato di testi, fonti e dati biografici mostra che certe forme tipiche (in chiave lukacsiana) di disagio esistenziale dei personaggi (il bovarismo, l’oblomovismo, il prassedismo), oltre a rispecchiare, in via mediata, il contesto socioculturale in cui l’artista opera – l’implosione della morale borghese nell’urto tra rêverie e realtà nella provincia francese del Secondo Impero, l’arretratezza della Russia zarista di fine Ottocento, la dissimulazione onesta nell’Italia della Controriforma – riflettono con estrema immediatezza i disturbi della personalità multipla dell’autore.
La questione delle interconnessioni fra arte e vita (l’arte che “accompagna l’intera esperienza dell’uomo, inseparabile dalle manifestazioni della vita morale, politica, religiosa, che riflette sempre la situazione storica in cui si svolge”) è stata posta più volte, sin dagli anni ’60 (Pareyson, Hauser), ma mai compiutamente definita nelle sue implicazioni teoretiche, anche se si è sempre riconosciuto “che il vero scopo di chi ricostruisce la biografia di un artista è di ottenere in tal modo una maggiore comprensione delle sue opere”.
Sapere che Dante “dovette soffrire accessi epilettici seguiti da incoscienza come provano le frequenti descrizioni di cadute con assenze psichiche e con incoscienze che si trovano nel suo poema”, illumina di nuovi significati l’icastico verso con cui si chiude il Canto v dell’Inferno “E caddi come corpo morto cade” facendo cogliere, nella genesi dell’immagine, le tracce mnestiche delle percezioni sensoriali introiettate dall’inconscio.
Disvelando attraverso un imponente apparato di citazioni testuali l’intricata rete di interconnessioni tra i flussi di coscienza dei personaggi e le pulsioni nevrotiche degli autori, Carlo Di Lieto integra il discorso sulla mitografia dei personaggi emblematici della letteratura occidentale condotto, tra gli anni ’30 e ’60 del Novecento da Rocco Montano, Luigi Russo, Erich Auerbach, Joseph Warren Beach e dal suo maestro Salvatore Battaglia, mostrando le sorprendenti potenzialità ermeneutiche date, nella destrutturazione dell’immagine artistica, dalla intersezione della critica psicoanalitica con quella stilistica.
L’apatia di Oblòmov (il suo “starsene sdraiato in veste da camera” nella sua stanza) rispecchia appieno quella di Gončaròv che, com’egli stesso racconta nelle sue note di viaggio in Giappone, “invitato più volte a salire in coperta della fregata Pallade per guardare la spettacolare tempesta nell’oceano Indiano per poi descriverla”, preferì restarsene seduto tutta la notte in cabina.
Nella psicoestetica di Carlo Di Lieto – e qui si misura la straordinaria efficacia dell’intersezione dei metodi di approccio al testo – i personaggi letterari si configurano sempre, nella mentalità, nei comportamenti, nella gestualità e, soprattutto, nella esibita antinomia psicofisica (Don Chisciotte e Sancho Panza, Lucia e la Monaca di Monza, Dr. Jekyll e Mr. Hyde) come la proiezione nell’immaginario estetico delle personalità multiple dell’autore che, come Montaigne, può dire al lettore: “Io stesso sono la materia del mio libro”.

Giovanni Camelia

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Febbraio

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