Arthur Rimbaud in Africa: “Je suis un autre”

Arthur Rimbaud, il 17 Luglio 1890, riceve, inaspettatamente, una lettera da Laurent de Gavoty, direttore della rivista letteraria, La France Moderne, il quale scrive al caro Poeta: «Ho letto i suoi bei versi: questo per dirle quanto sarei felice e fiero di vedere il capo della scuola decadente e simbolista collaborare alla France moderne di cui sono direttore. Sia dunque dei nostri». «Rimbaud non risponde, quel passato a lui non interessava più», rileva acutamente Sandro Tirini, in questo pregevole racconto di memorie e annotazioni, sul poco studiato e indagato Rimbaud nel continente nero: Je suis ici… Sogni, tormenti e segreti di Arthur Rimbaud in Africa, Torino, Genesi Editrice, 2015.
Lontano è dal suo scenario mentale il tempo de Le Bateau ivre (1872) della Lettera del Veggente (1871) o delle Illuminations (1874). Con questa “seconda” vita, attraverso l’epistolario e con un’operazione sagace e avveduta, Sandro Tirini ci ha consegnato un prezioso materiale, degno di essere analizzato attentamente, perché in esso si è sedimentata l’evoluzione della complessa e straordinaria personalità di Rimbaud.
Non ci sono dubbi sui riscontri e sulla documentazione che l’autore ci fornisce su Rimbaud, agente politico del Consolato francese ad Aden e sull’attività commerciale, “spesso maldestra”, di armi e di schiavi… Da queste pagine illuminanti si profila una linea displuviale, tra il giovane poeta delle Ardenne e il mercante opportunista, alla ricerca costante di “buoni affari”. La figura di Rimbaud esce completamente trasformata e ben diversa dal poeta visionario di un tempo, il cui disincanto si librava, in immagini oniriche, con la prosa poetica della Une Saison en enfer (1873). Ora è ossessionato dal “dio denaro”; è desideroso di formare “un nido” familiare, secondo i canoni borghesi, per vivere, poi, una vita “normale”. Rimbaud è legato sempre alle sue contraddizioni e, in questo racconto rivelatore di Sandro Tirini, ne abbiamo piena consapevolezza, attraverso la corrispondenza africana con la madre e la sorella Isabelle. La mancata realizzazione delle sue illusioni è nei sogni, nei tormenti delle sue difficoltà e in alcuni segreti di questo Rimbaud in Africa.
Il portento d’intelligenza, quasi “un fenomeno d’ordine so­vrannaturale per la sua tremenda precocità”, ci lascia perplessi e sgomenti, dinanzi al mistero del suo destino umano. Prima di congedarsi dal suo amico Delahaye, riferendosi alla sua brillante attività di poeta, poco prima di lasciare la Francia, aveva precisato, in modo drastico: «Je ne m’occupe plus de ça». Il Rimbaud “africano” è sicuramente un altro, rispetto a quello giovanile, perché insegue un altro da sé, nelle nuove vesti di imprenditore e di mercante, vivendo in un contesto politico, ricco di intrighi internazionali delle potenze colonialistiche; non mancano, in queste pagine, segrete trame, raggiri, frodi di un mondo che vede nella ricchezza e, nel potere economico, la suprema aspirazione del dominio dell’uomo sull’uomo.
Il legame profondo con gli affetti familiari resta immutato, anche quando è in fuga da se stesso ed è un viator irrequieto e disorientato. Rinnegando il suo passato, romperà ogni contatto con il mondo letterario, dimenticando perfino il suo amico Paul Verlaine, a cui doveva tanto, nella buona e nella cattiva sorte. Cercherà ostinatamente la ricchezza, diventerà un uomo senza scrupoli, talvolta, cinico, avaro, praticherà il contrabbando di armi e, da disertore, temerà il rigore della legge. «I biografi di Rimbaud, nell’analizzare la vita del poeta, annota sapientemente Sandro Tirini, individuano, nella reazione alla severa personalità della madre, la causa del suo comportamento ribelle. Molto più probabilmente le difficoltà oggettive di una donna abbandonata dal marito con cinque figli e l’indole decisamente singolare di Arthur (ben descritta dai suoi insegnanti) avranno contribuito a formare quella ec­cezionale individualità». La madre, donna sola, religiosa fino al fanatismo, non accetterà mai la sua condizione di moglie abbandonata. Educherà il figlio, secondo un canone di rigore devozionale, ligia alle convenzioni e alle ipocrisie umane.
L’irrequietezza solitaria di Arthur (Charleville 1854-Marsiglia 1891) e il suo destino sono già nelle “intermittenze del cuore” di Une Saison en enfer: «Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino: vi scorrevano tutti i vini, vi si apriva ogni cuore. Una sera, mi son presa sulle ginocchia la Bellezza. – E l’ho trovata amara. – E l’ho insultata. Mi sono armato contro la giustizia. Volli scomparire. Streghe, miseria, odio, proprio a voi è stato affidato il mio tesoro! Dal mio spirito riuscii a cancellare ogni speranza umana. Su ogni gioia, per soffocarla, mi avventai con balzo sordo di bestia feroce. […] La sventura è stata il mio dio. Mi sono steso nel fango. Mi sono asciugato al vento del delitto. E alla pazzia ho giocato brutti tiri». La ricerca di sé e della sua crisi di identità è nella Lettera del veggente, dove egli espone una sua poetica, in qualità di poeta-vate: «Il poeta si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza». Il suo ribellismo maudit investe da sempre il poeta inquieto e vagabondo: il lirismo, di così intensa tensione psicologica, dopo l’esordio intimista e l’influsso dei romantici e di Victor Hugo: Première soirée, Sensation, Le forgeron, Soleil et chair, Ophélie e di Vénus Anadyomène, À la musique, Les effarés o Roman, si avvia verso una parabola antipoetica e il distacco dalla lirica precedente, parnassiana e vittorughiana, è evidente, prima di inoltrarsi verso una problematica esistenziale, già viva, nel Bateau ivre. In Rimbaud, le evoluzioni, da una fase ad un’altra, sono lente e progressive e preparano quello scatto dell’ultimo periodo, che sembra una radicale “conversione” ad un credo totalmente nuovo, e, in contrasto, con la vita precedente. I germi di questa evoluzione sono “in nuce”, nella prima produzione, e, nel suo stile di vita, che, definirei, del disincanto poetico. Completamente à rebours è la seconda parte della vita di Rimbaud, in netto contrasto, con l’incombente silenzio dell’ispirazione creativa.
Da questa fase, che fa da spartiacque, si può desumere la parabola di questa crisi, che afferisce, non solo, alla poesia, ma anche, alla religione, alla cultura occidentale, alla vicenda con Verlaine e alla scrittura creativa. Une Saison en enfer conclude la parabola discendente con le Illuminations, con una forma e uno stile, limpido, ma impenetrabile, dal fascino sperimentale di splendide metafore, denunciando definitivamente la liquidazione del sogno lirico. L’evasione nel sogno, l’urto violento con la realtà sono le premesse di una crisi esistenziale, che entrerà nel vivo come crisi di identità e ricerca dell’altro da sé. Il paesaggio dell’anima di Rimbaud è tutto incentrato sull’avventura e sulla fortunosa ricerca di un io profondo e di tutto quello che è nelle aspirazioni di un “genio indomabile e dissacrante”, bello e capriccioso. Verlaine si farà travolgere da questo “angelo divino”: «Alto, ben fatto, quasi atletico, con un viso perfettamente ovale da angelo in esilio, i capelli castani sempre in disordine e gli occhi di un inquietante oscuro pallido… Fanciullezza sublime, miracolosa pubertà!». Il giovane ribelle delle Ardenne mette la parola fine alle illusioni della poesia, per rientrare nella cosiddetta normalità della vita borghese.
Rimbaud chiude la sua esperienza artistica, per affrontare il disagio e le inquietudini di chi è in fuga da se stesso e vive attivamente le peripezie dell’homo œconomicus. Da vero giramondo, “l’homme aux semelles de vente”, è anche violento e, da impulsivo, diventa aggressivo, ferendo e uccidendo: viene ferito dal suo più caro amico, il poeta Verlaine, e uccide un operaio, colpendolo con una pietra alla testa. Fugge precipitosamente da Cipro, si imbarca, con la prima nave, e il caso lo destina ad Aden: qui ha inizio la sua non facile avventura africana.
Il suo io, “autoreferenziale intransitivo”, porta in sé le tracce del disagio psichico, con una forte dose di “volontà di po­tenza” e di narcisismo egotico. Il viaggio, la fuga e il disincanto sono presenti quasi sempre nella vita e nell’immaginario di Rimbaud. La rêverie esotica, nella fantasia del poeta, è sulla stessa lunghezza d’onda, in modo velato, nella fuga laggiù (Là-bas), lontano da qui (Ici), da questo «mondo in cui l’azione non è la sorella del sogno», per dirla con Baudelaire. Il viaggio e la fuga da sé non hanno solamente un valore proiettivo-simbolico, ma diventano un dato reale di una personalità in crisi con se stessa, che scopre l’altro volto della realtà, quello prosaico, quotidiano, della sopravvivenza. Il viaggio in Africa sicuramente non corrisponde al viaggio mentale della sua rêverie, perché è dettato da una decisione di necessità e di emergenza: abbandona Parigi e il mondo dei poeti, per im­mergersi in toto, nei traffici coloniali e nella vita degli indigeni di Harar, dopo aver vissuto da mendicante e dopo aver girovagato in diversi porti del mare Rosso. Commercia pelli e caffè; mette da parte i suoi sogni lirici e, con fasi alterne, per ben undici anni, ha inizio quella metamorfosi della sua personalità che lo porterà al lucroso commercio delle armi, alla tratta e al commercio degli schiavi. «L’Etiopia meridionale co­stituiva a quel tempo, rileva Tirini, un incalcolabile serbatoio di schiavi, il cui commercio prosperava a dismisura, favorito dalle innumerevoli guerre fra etnie rivali: chi prevaleva nella battaglia oltre a saccheggiare i villaggi dei vinti e depredare tutto il possibile, catturava uomini, donne e bambini che, resi schiavi, venivano utilizzati direttamente oppure condotti sulla costa da intermediari specializzati per essere venduti». L’economia etiope era direttamente interessata a questo traffico e godeva di connivenze, un sistema molto noto a un commerciante, avido e senza scrupoli come Rimbaud. Una vita rocambolesca ed errabonda, sempre in preda al timore di essere ucciso dagli indigeni delle varie tribù, pronti alla vendetta e all’odio contro lo straniero. Con il pericolo di contrarre malattie infettive, accanto ad un’umanità con usi, costumi e tradizioni ben diverse dal modus vivendi dell’Occidente europeo, Rimbaud ritroverà un’altra identità molto dissimile dalla prima. È un pirandelliano Mattia Pascal o, se si vuole, un Vi­tangelo Moscarda, in sedicesimo.
«Dopo mesi di viaggio in un deserto inospitale caratterizzato da temperature infernali e mancanza d’acqua, scrive Tirini, infestato dai predoni, tra mille difficoltà legate alla gestione della carovana, il 6 Febbraio 1887, […] Rimbaud entra ad Ankober capitale dello Scioa. Qui incontra Jules Borelli, l’esploratore già noto alle Società geografiche europee per i rilevamenti geologici-geografici in Africa con il quale entra in sintonia». Borelli, così descrive, nel suo diario, l’altro Rimbaud: «M. Rimbaud, negoziante francese, arriva da Tadjaurah con la sua carovana… Il nostro compatriota ha abitato in Harar. Conosce l’arabo e parla l’amharigna e l’oromo. È infaticabile. La sua attitudine alle lingue, una grande forza di volontà e una pazienza a tutta prova, lo classificano fra i viaggiatori completi».
Tra i nuovi amici in Africa, nessuno «avrebbe riconosciuto il giovane stravagante del circolo dei Vilains Bonshommes “l’uomo delle suole di vento”, il genio dalla vita sconcertante» di un tempo, commenta finemente Sandro Tirini. Nella lettera, pubblicata ne «La Revue européenne», da E. Marcel Schwob, nell’Ottobre del 1928, Rimbaud è un’altra persona: «Maintenant je travaille à me rendre voyant; vous ne comprendrez pas du tout, et je ne saurais presque vous expliquer. Il s’agit d’arriver à l’inconnu par le dérèglement de tous le sens. Les souffrances sont énormes, mais il faut être fort…». Troverà un suo equilibrio, quantunque instabile, riconciliandosi con il suo sé più profondo; entra in sintonia con gli altri, con le relazioni commerciali della “mercatura”. Si scopre cittadino di un altro pianeta, placando la sua innata impetuosità, durante la sua permanenza ad Harar, il luogo dove il desiderio di avventura e la sete di guadagno combaciano con la sua mai sopita sete di conoscenza, nello studio dei luoghi, degli animali e degli uccelli esotici.
Gli interessi poetici e letterari vengono sostituiti da interessi pratici, utili per il commercio e per realizzare quanto si era proposto: investire il denaro, in modo sicuro, attraverso banchieri di fiducia. La fuga nell’altro da sé e il desiderio di evasione propongono la scelta alternativa del lontano da qui e la fuga nel laggiù, mettendo in atto la consapevolezza di realizzare un sogno: di trasformare il languore crepuscolare, in dinamica attività dell’essere, e il sogno e il disincanto, in una realtà operativa. “Il flusso di coscienza” della sferzante autoanalisi del Mauvais sang risponde all’incapacità di scegliere tra dannazione e salvezza. Le analisi spietate delle azioni e di tutte le incursioni metafisiche sono materia dirompente, che dissoda lo scenario onirico: il protagonista è già disceso nell’inferno, nella lussuria, nello sconvolgimento di tutti i sensi e nell’aria indefinibile della follia. «Dei miei antenati, i Galli ho […] l’idolatria e l’amore per il sacrilegio; – ah! tutti i vizi, ira, lussuria – magnifica la lussuria; – soprattutto menzogna e accidia. I mestieri, li odio tutti. Padroni e operai, tutti bifolchi, ignobili. La mano da penna vale la mano da aratro. – Che secolo di mani! – Io non avrò mai la mia mano. Dopo, la famigliarità porta chissà dove. L’onestà della mendicità mi affligge. I criminali sono disgustosi come i castrati: io, sono intatto, e per me fa lo stesso. […] Adesso sono maledetto, detesto la patria. Il meglio, è un sonno proprio da ubriaco, sul greto». Nella tessitura psicologica di questo lacerto, quasi un brano-campione, tratto da Une Saison en enfer, è visibile, in controluce, il complesso percorso emozionale del genio-sregolatezza, mettendo in rilievo alcuni dei procedimenti messi in atto, in questo testo, come in altri, attorno al quale è costruito l’immaginario di Rimbaud: la confessione sincera e liberatoria, incrinata dal vizio imperdonabile della menzogna e della finzione.
Il discorso tende a trasformarsi in giustificazione, senza mai avvertire alcun sentimento di colpa; l’esaltazione dei propri vizi diventa momento allucinatorio, frammentato da sensazioni forti e non comuni. L’illuminazione visionaria deflagra all’improvviso; indulge all’abbandono dei luoghi familiari per l’ignoto e alla frequentazione della vita raminga e tribale, perché più vicina all’empito dell’estrosità creativa. Lo spirito d’avventura e il temperamento, che inclina alla fascinazione morbosa o all’identificazione dell’artista con il criminale, occupano un notevole spazio, in un passo della Une Saison en enfer: «Fin da bambino, ammiravo il forzato irriducibile sul quale cala sempre il muro dell’ergastolo; visitavo le locande e le camere ammobiliate che lui avrebbe reso sacre abitandovi; il cielo azzurro e il fiorito lavorìo della campagna li vedevo con la sua mente; nelle città fiutavo la sua vita fatale. C’era in lui più forza che in un santo, più buonsenso che in un viaggiatore – e se stesso, solo se stesso! come testimone della sua gloria e della sua ragione. Sulle strade, nelle notti d’inverno, senza riparo, senza vestiti, senza pane, di gelo mi si stringeva il cuore a questa voce: «Debolezza o forza: eccoti qua, è la forza. Dove vai e perché vai, tu non lo sai, entra dappertutto, rispondi a tutto. Non ti uccideranno più che se fossi un cadavere». Egli prende le distanze da tutto: «Una vita sprecata, la mia. Su! fingiamo, nessuna voglia di far niente, che pena! […] so­gnando amori prodigiosi e universi fantastici […] denunciando le apparenze del mondo, saltimbanco, accattone, artista, bandito, – prete! […] Qui riconosco la sporca educazione della mia infanzia. E poi!… Tirare avanti per vent’anni, se gli altri tirano avanti per vent’anni…».
Le avvisaglie della trasformazione o, se si preferisce, i prodromi dell’altro Rimbaud sono da cercare, qua e là, in Une Saison en enfer: «Nella mia alchimia del verbo, buona parte era occupata da vecchiume poetico. Mi abituai all’allucinazione semplice: al posto di un’officina, vedevo decisamente una moschea, una scuola di tamburini fatta di angeli, calessi per le vie del cielo, un salotto in fondo a un lago; i mostri, i misteri; al titolo di un vaudeville, davanti mi si levavano terrori. Spiegai più tardi quei sofismi magici con l’allucinazione delle parole! […] Mi s’inaspriva il carattere. Dicevo addio al mondo con simili romanze». In altri luoghi, c’è la lucida follia di una consapevolezza delirante, che, successivamente, si tradurrà, in un progetto concreto di vita vissuta: «Divenni un’opera favolosa: scoprii che a ogni individuo appartiene un destino di felicità: l’azione non è la vita, ma un modo di sprecare energia, un perdere vigore. La morale è la fiacchezza del cervello».
Senza indugio, la sua riflessione si dilata e prende una posizione decisa, quasi drastica, nell’affermare che «ad ogni individuo mi sembravano dovute parecchie altre vite. […] i sofismi della follia – la follia che bisogna rinchiudere, – non ne ho dimenticato nemmeno uno: potrei ripeterli tutti, possiedo il sistema. […] Ero maturo per il trapasso e, con un percorso rischioso, dalla debolezza mi facevo gridare ai confini del mondo e della Cimmeria, patria del turbine vorticoso e dell’ombra. Fu necessario viaggiare, perché potessi sviare gli incantesimi addensati sul mio cervello». Egli si vuol affrancare da un dannoso retaggio, e, per sentirsi veramente libero, vuol tentare l’impossibile, «con quel poco di ragione che mi resta – come passa presto! – mi rendo conto che il mio malessere deriva dal non essermi accorto abbastanza per tempo che ci troviamo in Occidente. Le paludi occidentali!». Penetriamo nelle misteriose latebre della psiche di Rimbaud; è in quest’area di gestazione, che viene preparata la rivoluzione della stagione “africana”! Non più pensiero emozionale o visionarietà fantasmatica, ma azione pragmatica, come compensazione attiva di un malessere interiore.
Salah Stétié, in Rimbaud, l’ottavo dormiente, 2001, scrive: è “l’ultimo veggente”, «l’angelo di fuoco della poesia, un errante che si abbandona al commercio della schiavitù, il limite che solo nella poesia si risolve, quando anche la parola si arresta davanti al silenzio. Il silenzio che è la conseguenza più naturale del paradosso, il paradosso che genera il “non-luogo” del­la poesia, la sua metafisica». E ancora di rincalzo: «Al dormi­ve­glia di Rimbaud risponde, e corrisponde, il dormiveglia del lettore, in ogni caso del lettore in me, desideroso non proprio d’illuminare l’inilluminabile, ma, con la sua lucina, di verificare una seconda volta la densità della notte». «La vita terrestre e spirituale di Rimbaud, quella sua “innocenza” che lo porta, dopo aver toccato il cielo, ad abbandonare la parola e a chiudersi in un inesplicabile destino, è la metafora di un’iniziazione che, contemplando, ci apre ancora oggi all’ascolto del silenzio». Non c’è alcuna “corrispondenza” baudelairiana o mallarmeana; il non-luogo e l’assenza della categoria temporale, nella visionarietà della scena onirica di Rimbaud, diventano prevalenti, quando si tratta di valutare l’identità, drammaticamente compromessa dal doppio.
Non più il vedersi vivere, tra disincanto e immagini di una vita farneticante, ma una presa di posizione netta, per una vita radicalmente diversa, affrontata con rude e crudo realismo. Si realizza, in questa seconda tranche de vie, il sogno della sua adolescenza, il desiderio di liberazione dalla famiglia, la costrizione degli studi e le convenzioni della poesia; si avvera finalmente il culto per l’avventura e per tutto quello che appartiene all’esotico. Al fantasma poetico subentrano altre ossessioni che lo tormenteranno senza tregua: l’investimento dei risparmi, le necessità quotidiane che mirano solamente a fini pratici o commerciali, con l’unica prospettiva di realizzare facili guadagni. Non gli mancano, però, i libri sugli argomenti più disparati, di astronomia, topografia, tecnica fotografica, geologia, mineralogia, meccanica ferroviaria, però, con finalità diverse, perché sono strumenti per la rilevazione e la conoscenza del territorio, destinati a soddisfare sogni di avventure e benessere materiale. È un uomo totalmente trasformato, quasi irriconoscibile, dopo “la conversione”. Nel bilancio della sua vita, c’è da rilevare che Rimbaud riconosce valori che, nella precedente vita, aveva detestato; una metamorfosi, che, peraltro, nota finemente Sandro Tirini, «era già delineata in missive precedenti e ben evidente nella lettera del 6 Maggio 1883 che lui scrive alla famiglia, forse la più significativa di tutta la corrispondenza africana». Solamente la ricchezza può rimuovere, in questo homo novus, l’inquietudine interiore, che lo ha da sempre tormentato, non senza accarezzare il sogno che lo aiuta a sopravvivere: sposarsi, avere una famiglia e un figlio.
I sogni della fama letteraria non trovano più spazio nella sua mente, invece, le sue preoccupazioni, quasi incubi quotidiani, tornano, in modo ricorrente, nella mente: sacchi di caffè da pesare, indigeni da gestire, nuovi commerci da programmare, bilanci e consuntivi da far quadrare. Egli è diventato un altro: esploratore, avventuriero, commerciante, uomo d’affari; cerca ora, in Africa, successo e fortuna. Il suo io viene nobilitato dal benessere economico e acquisisce un maggior senso di appartenenza e di vigore, dopo la disappartenenza della vita contemplativa e visionaria della creatività artistica. Catapultato, come per incanto, in un nuovo mondo, viaggiatore instancabile, impiegato alle dipendenze di una società commerciale ad Harar, rendiconta il viaggio fatto da un suo collaboratore, primo tra gli europei, in Ogadina, scrivendo un rapporto geografico che fu pubblicato nel 1884. Nel 1887 tentò di vendere a Menelik, re dello Scioa, alcune migliaia di fucili; il re accettò le armi e si rifiutò di pagare. Cinque giorni dopo il suo arrivo al Cairo, tra il 25 e il 27 Agosto 1887, “Le Bosphore égyptien”, in due puntate, pubblica con il titolo Voyage en Abyssinie et au Harar la relazione del viaggio intrapreso da Rimbaud, per portare le armi al re Menelik. È il solo scritto pervenutoci, pubblicato da Rimbaud, negli undici anni di soggiorno africano: un testo, scarno ed essenziale, nell’esposizione, dove lo stile letterario è completamente assente; questa relazione vuole unicamente illustrare gli aspetti politici, geografici e commerciali dello Scioa, per chi volesse conoscere ed avere indicazioni precise su quel popolo e quella regione. Nel febbraio del 1891 fu colpito da una “sinovite tubercolosa” al ginocchio destro, con grandi difficoltà, raggiunse Aden. Ricoverato in un ospedale di Marsiglia, subì l’amputazione del­la gamba. Dopo un ultimo soggiorno a Roche, assistito dal­la sorella Isabelle, trascurato dalla madre, tornò all’ospedale di Marsiglia, dove morì all’età di trentasette anni, dopo aver invocato, nel delirio degli ultimi momenti, il nome del suo prediletto servo, Djami Wadaï. «Abbiamo modo di credere che la madre non fosse convinta della buonissima reputazione di Arthur, scrive Sandro Tirini, dal momento che non lo perdonò nemmeno sul letto di morte». Al funerale nessun amico, nessun letterato, soltanto la madre e l’amata sorella Isabelle.
“Le due vite” di Rimbaud si intersecano e si confondono, in una perfetta convergenza di vaneggiamenti e di slanci lirici e con punti di tangenza e di antinomia con il Rimbaud, che rinunzia ai fantasmi della poesia e della letteratura!
Edmund White, autore di culto della letteratura americana contemporanea, ne La doppia vita di Rimbaud (2009), riporta quanto scrive Enid Starkie, biografa di Rimbaud, freudiana di stretta osservanza, a proposito di uno stupro, subìto a sedici anni dal poeta a Parigi: «Questa esperienza fu probabilmente la più significativa dell’intera vita di Rimbaud, e se la psicanalisi avesse esaminato il poeta, e non solo le sue opere, in essa avrebbe scoperto il punto di svolta del suo sviluppo, e vi avrebbe ricondotto gran parte del suo successivo disadattamento e del suo disagio». (p. 51). La Starkie cercava il trauma che fungesse da momento decisivo per la vita futura di Rimbaud, per quella “seconda vita”, che da sempre ha lasciato esterrefatti i più attenti biografi.
“Nella logica dei contrari”, si annida il bisogno di guardarsi dentro, creando nell’io, irriducibili contrasti; l’unità e la solidità di questo io diviso sono nella logica che cerca nell’altrove il coraggio, per trovare la propria identità, sempre perseguita e mai raggiunta… È intorno a questa coscienza che si muove un forte istinto di prosciugamento dell’io e di scavo interiore, prima come spettatore inerme e sognatore e poi come luogo di esperienza vissuta, nel teatro del mondo. Questo altrove è cercato da Rimbaud, prima, nel sogno artificiale dell’arte e, poi, nella lucida consequenzialità della pratica lutulenta della vita. Questo sdoppiamento è nel modo particolare del suo sentire e nella ricchezza straordinaria di un geniale talento: dire tutto il dicibile e sperimentare, nella sua concretezza, tutto il vivibile. Tutto è in perfetta consonanza con alcune frasi, estratte dall’Ode marittima di Pessoa: «Pirati, pirati, io vi saluto! Voglio andare con voi, contemporaneamente con tutti voi, dappertutto dove siete andati!». Il desiderio di avere due vite, per mettere in gioco l’altro da sé, è stato il bisogno necessitante di tanti autori celebri (Pirandello, Stevenson, Kafka, Dostoevskij, Pessoa, solamente per citarne alcuni), che hanno creato ad arte, nella finzione letteraria, quello che concretamente ha realizzato Rimbaud, nel suo vissuto in Africa. Sandro Tirini, con questo testo, sollecita la curiosità degli studiosi e dà un contributo di notevole valore a questo aspetto poco studiato della vita di Rimbaud.

Carlo Di Lieto

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