Prefazione

Il primo sentimento con cui è stata accolta in casa editrice l’opera di Carlo Di Lieto dedicata al Recanatese, Leopardi e “il mal di Napoli”, è stata la venerazione che l’editore attribuisce ai capolavori. È una sorta di sindrome di Stendhal che ghermisce fino a stordire per il privilegio sconvolgente di potere leggere per primo un’opera maggiore destinata a lasciare il solco e a creare lo spartiacque nella cultura. Si legge avidamente, provando gioia ineffabile per la scoperta, ma anche accompagnata e contraddetta dal sentimento di colpa, per la profanazione che si sta compiendo, come se si violasse un sito etrusco per portare alla luce la sapienza e la cultura che colà si immagina da sempre conservata, radicata nei precordi del patrimonio umano delle idee. Di questi tempi le gioie degli editori sono veramente rare, perché vi sono pochi libri che, come questo, nascono dal lavoro di una vita dedicato con continuità e armonia allo studio organico di un tema complesso e vastissimo, esaminato nella pluralità delle visioni possibili, e rappresentato nella pienezza di voci documentative, denotative, interpretative e possibilistiche.
Di Lieto rappresenta il periodo napoletano di Leopardi come il fiore d’agave che non può essere compreso nella drammatica bellezza ed unicità se si prescinde dalla pianta che lo spinge e che lungamente lo ha portato in luce dentro di sé, quasi fosse la destinazione prescritta della fatica di crescere e di resistere. Così l’osservazione dello studioso, letterato e psicanalista, sempre collima sul borgo selvaggio, che in realtà si concretizza nella famiglia prestigiosa del Conte Monaldo, erudito rappresentante della classe dirigente della provincia italiana del tempo, così arroccata su temi chiesastici e scolastici. In fondo è Monaldo, uomo pure dolce e animoso di custodire i valori stabilizzati della cultura e del potere, l’autentico simbolo del borgo selvaggio verso il quale il grande poeta e filosofo non reciderà mai il cordone ombelicale che lo lega, anzi, da quello lentamente e inesorabilmente si lascerà soffocare, in un trionfo di lettere, di evocazioni, di richiami, di avvisi, lagnanze, implorazioni, scherzi, camuffamenti, appelli e suppliche. Quanto grande è la tavolozza dell’esistenza e delle forme espressive che lo Scrittore impiega nel suo impareggiabile linguaggio! E quanto puntigliosa e diligente è l’opera dello studioso Di Lieto, alla ricerca dei percorsi mentali e delle motivazioni d’animo che, attraverso l’epistolario e lo Zibaldone, emergono con chiarezza e tracciano la grandiosa figura di sapienza e di umanità di Giacomo Leopardi, sempre così inquieto, angosciato ed eroico: prima luce d’avanguardia inequivocabile che anticipa in Occidente il tramonto di Dio e l’alba del pessimismo esistenzialista. Di Lieto collima la mira sul falso scopo del borgo selvaggio per poi puntare dritto l’obiettivo, con un ideale angolo di devianza, sullo sterminator Vesevo, che sovrasta il golfo più bello d’Europa: su quel lido il grande poeta viene a inebriarsi sia di vita sia di non-vita, viene a rendere la sua ragione di esistenza e di trionfo del canto e del pensiero che ha preparato lungo la brevissima ed esemplare esistenza. In una parola, viene a morire e a vivere per sempre. Di Lieto ha il merito di ricostruire con acribiosa fedeltà e millimetrica precisione gli stati d’animo che accompagnano il passero solitario nel canto protratto finché “non more il giorno”. Egli ci fornisce piena testimonianza dei luoghi, dei giorni, delle passeggiate, degli incontri, delle discussioni, delle tematiche, delle abitudini, delle debolezze, dei vizi e dei capricci che animano il grande scrittore. E lo fa privilegiando il legame insolubile con l’amico Antonio Ranieri, mille volte più affascinante e prestante del grande poeta, ma anche mille volte più diafano e anodino, benché sempre amato e coccolato con dolcezza da Giacomo, che lo vuole vicino a sé, pure consapevole che la solitudine è per lui la prigione da cui non potrà evadere.
L’opera di Di Lieto è grandiosa non solo per la tematica impervia che affronta andando a misurarsi col più complesso e vasto antesignano della modernità in Occidente, ma anche perché prende le misure alla sconfinata letteratura di commentari che si è depositata riguardanti la vita e le abitudini di Leopardi, a principiare dai primi bisbigli dei contemporanei – sia quelli dispregiativi sia quelli celebrativi – per arrivare fino alle ultime opere uscite immediatamente prima di questo fondamentale testo. Quindi, questo capolavoro è la ricapitolazione del dèjà écrit, cui si aggiunge la visione completamente nuova in chiave psicanalitica che Carlo Di Lieto elabora come chiave primaria di lettura, lavorando sul principio della contraddizione, sul principio del piacere e sul principio della realtà e facendo l’analisi della personalità di uno scrittore che non solo è una montagna di sapienza, ma è anche un uomo capace di coltivare in sé l’abisso delle contraddizioni, tanto vertiginose e peccaminose per i suoi contemporanei quanto per lui familiari e indulgentissime. Grandioso è il libro, inoltre, per l’ampiezza delle tematiche storiche, che attengono a questioni minori, come la ricostruzione della personalità di Antonio Ranieri, che ne viene fuori tutto sommato ben pagato nella sua funzione di Arlecchino servile, ma anche astuto e approfittatore, ancorché benignamente affezionato e adoratore di Giacomo. In particolare la questione, tanto dibattuta e giustamente disattesa dagli eredi, delle spoglie mortali del poeta, che Di Lieto ricostruisce con precisa documentazione di atti, commenti e ipotesi che riguardano l’intricata vicenda. Ma è comunque un tema che, per grande che possa essere, diviene minuscolo dinnanzi all’immanenza troneggiante dell’opera del poeta e alla sua testimonianza presente e vitale tratta dal ricco epistolario. Ma appartengono al fasto della ricostruzione storica di Di Lieto le minute informazioni su Napoli e dintorni, sul terribile dilagare del colera nella città e sul numero delle vittime e sulle condizioni di sepoltura delle salme; le splendide rappresentazioni dei quartieri popolari e di quelli signorili; le minuziose denotazioni delle abitazioni in cui Giacomo ha vissuto, l’illustrazione delle abitudini quotidiane, i menu serviti in tavola ed elaborati dal Recanatese in persona, con altre dovizie e primizie di informazione, quasi si tratti di un gossip d’antan, che riguarda il periodo napoletano – cui si aggiungono altrettante puntigliose curiosità sul periodo romano e fiorentino oltreché, si è già detto, sul continuo riferimento alla casa madre, che sempre incombe nella mente del poeta: il borgo selvaggio, il padre, la madre, la sorella Paolina, l’amatissimo fratello Carlo. Sono tutti personaggi che escono precisi e bene scontornati dalla penna di Di Lieto, anzi, dobbiamo correggerci e dire che escono dalla penna di Leopardi stesso, poiché Di Lieto ha la grandissima sensibilità di fare parlare sempre Leopardi, traendo continue citazioni dall’epistolario e dallo Zibaldone. Infine, il libro è grandioso per la sapienza stilistica del linguaggio con cui Di Lieto lo ha scritto, e ci fornisce un esempio più che riuscito di amalgama tra almeno tre linguaggi diversi, quello algido e clinico del parlare scientifico, quello magniloquente e arioso del parlare umanistico e infine quello corsivo e vibrante dell’annotazione giornalistica, tutti e tre fusi insieme in un’unica caleidoscopica espressione linguistica che attribuisce profondità e vigore in ogni parte del libro. Le pagine, nel loro mastodontico numero, scorrono via da sole e incantano per il fascino prezioso della loro persuasione, per l’intonazione iterativa a riprendere e a ripetere come un ritornello che riaffiora, il refrain delle canzoni o il motivo delle romanze, gli stessi pezzi cruciali ripetuti più volte, ma sempre reingaggiati nel discorso con un’angolatura differente e con un’impostazione nuova: mirabile esempio di retorica d’alto stile, che farebbe sciogliere Quintiliano per il piacere linguistico della buona dizione delle cose. Finché memorabile, nel congedo del poeta dalla vita, si stacca dal mondo l’ultima frase di Giacomo, così splendida e definitiva nella sua arresa nudità, marcata più volte dal sapiente Di Lieto: “io più non ti veggo”.

Sandro Gros-Pietro

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