PREMESSA

L’altrove è quello a cui volge lo sguardo Leopardi, oltre la siepe sul monte Tabor: ed è l’immaginazione che permette al Poeta di intravedere quegli “interminati spazi” che l’occhio non vede, sentieri interrotti mai percorsi interamente dai nostri passi, infiniti mondi pensati anche se non visti. La ricerca di un altrove, di altro-da-qui è la condizione di ogni essere umano, pensante, oltre che senziente. Se i sensi, laddove non ci sia una siepe che impedisce lo sguardo, ci danno conto di uno spazio “altro”, è la mente che di questo puro “spazio” fa un “luogo” del possibile. L’altrove è l’insieme delle possibilità che non ci sono date immediatamente, è luogo di sviluppo prossimale e potenziale del nostro esserci, esserci come individui, come collettività, come specie, come viventi tra i viventi. Un luogo esistenziale o un luogo politico: un “luogo che non esiste”, un’ utopia , o un “bel luogo”, eutopia (secondo un’altra possibile etimologia). Ciò che non c’è ma che potrebbe esserci. Ma l’altrove non si dispiega solo come dimensione spaziale – oltre quella che occupiamo adesso e in rotta verso più o meno tristi tropici – o come dimensione temporale, verso un sole dell’avvenire di cui forse abbiamo comunque bisogno come ideale orientativo. L’altrove è un già qui , che però non conosciamo ancora, ma che ci portiamo dentro: l’inconscio, per uno scienziato della psiche, l’anima, per un credente. Ancora: un’aspirazione, un desiderio, un bisogno. Dentro e oltre, contemporaneamente, come dio (per chi già crede o per chi ne è in cerca). L’altrove è anche, dunque, ciò che ci portiamo dentro, il risvolto irrazionale della ragione. L’altrove a cui spinge una qualsiasi invitation au voyage è incardinato in noi. E ciò che conta è il cammino verso di esso, non la inattingibile meta. Anche se pur bisogna andare.

Non sempre la realtà del vivere la riscontriamo nella quotidianità, nel presente, ma la cerchiamo o la proiettiamo in qualcosa che sta lontano, nella luce o nell’attesa di un amore che non abbiamo nella nostra attualità, oppure nella prospettiva religiosa dell’aldilà, che certamente ha ancora da venire. Oppure, aggiunge la poetessa Fabia Baldi , resta sempre l’incertezza che “forse vengo già da un altrove”. I contenuti oscillano tra concretezza della vita che la poetessa sta vivendo e le attese, legate al credo religioso o semplicemente ad una certa filosofia riguardante in genere l’esistenza terrena con tutte le sue fatiche e i miraggi che possono essere prodotti dalla fantasia. Lo stile si muove tra espressioni allusive e metafore, che conferiscono ai versi un particolare fascino di sapore ermetico. In un misto di amore e di affetto Corrado Calabrò pone il sentimento dell’assenza, che rientra nel concetto dell’altrove. Infatti, se non si avverte la vicinanza di un oggetto o di una persona vuol dire che ci si sente come nel vuoto. Allora ci rifugiamo fuori dal presente, nel passato o nel futuro, nella memoria o nella speranza, che sono appunto come la concretizzazione dell’altrove. Le immagini e le argomentazioni sembrano scaturire da precise esperienze di vita e al contatto con persone appartenenti al panorama di specifiche conoscenze se non a vincoli, addirittura, di consanguineità. Infatti qua e là si possono riscontrare allusioni a situazioni appartenenti a vicende che emergono da un altrove situato in territori riguardanti la memoria. L’altrove non è altrove ma è qui: tutto, nell’eterna ruota della vita e del tempo, sembra collassare nello spazio che occupiamo ora: in realtà si conciliano e si avviluppano, nel testo di Franco Campegiani , come in una spirale sia una spinta centrifuga (“Fughe d’azzurro eravamo”; “Vampe siamesi nel cosmo”) sia una fatale attrazione centripeta (“L’oltre sta qui, nel cordone ombelicale / che mi lega all’altro di me stesso”). Ma più di un verso tiene insieme l’esperienza del contrario che sembra caratterizzare questi testi, e fuga e ritorno, dispersione e raccoglimento risultano convivere nel giro di poche parole: “Scivolato non so come, un ruzzolone, / dalla griglia del tempo ove s’impiglia / ogni cosa che muta e scorre / e travolta corre alla deriva”; “Giungerai lieve dagli spazi galattici / e qui ti aspetterò, pronto ai voli, / vestito con abiti leggeri”; “alla bocca del vulcano che mi sputa / e mi risucchia nel ventre suo radioso, nei suoi gorghi incandescenti”. La vicenda personale s’innesta in una dimensione cosmica che, seppur non menzionata, sembra quella di un Big Bang, di un’esplosione che sputa materiale destinato a ricollassare su se stesso, in un ritorno a un’origine dalla quale mai ci si congeda. Per Schopenhauer la musica è l’assoluto espresso in suoni. Ciò che è altrove, nascosto dall’apparenza del mondo sensibile si svela per il filosofo di Danzica attraverso la regina delle arti. Essa, osserva Marina Caracciolo , più di ogni altra forma espressiva, ci riconduce dunque a un’esperienza nuova, e totale. Non è strano dunque, che anche il poeta, che si serve di parole, sia trascinato altrove dalla musica, e che la stessa macchina testuale sia messa in moto dal suono della viola di un musicante girovago. A girovagare sono anche i sensi, e la mente di chi scrive che s’incontra con la natura circostante e sovrastante in un’esperienza mistica, che ci trascende tanto che anche l’eco del proprio nome sembra risuonare altrove e dall’altrove richiamarci per incontrarci con fiori e stelle fasciati dal manto stesso del cielo: l’io, la natura, il cosmo diventano un tutt’uno e l’altrove è forse in questa esperienza di sogni, memorie, ombre. Scena onirica e pulsione di morte catalizzano l’immaginazione poetica di Alessandro Carandente nel “deserto insaziabile” della distanza, “per chi se n’è andato sen­za l’ultimo saluto”. Nel segno trascinante dell’ altrove c’è il palpito dell’assenza e dello “spazio immensurabile” dell’ oltre , che si diverte a far perdere le tracce mnestiche. È il rimosso che viene alla luce lungo il versante di un diadico rapporto realtà/finzione. Dall’espansione della fase visionaria, il percorso trasversale tra il ricordo e il rinvio emblematico alla figura femminile si riflette nel registro psichico, affidato ad una parola alata nell’obliquo struggimento dell’essere. Il disvelamento di queste “intermittenze del cuore” crea densità onirica ed empatia al discorso poetico di Alessandro Carandente e una caratura di prima grandezza all’impianto logico delle reti associative tra parola ed immagine. Anna Maria Carpi si sofferma sulla certezza che verrà per lei il tempo in cui sarà altrove (probabilmente in un’altra vita, fuori dalla sua esistenza attuale): allora subentrerà l’assenza, la mancanza della sua presenza nella casa, nelle stanze, nella cucina, sui tetti dove ora si posa il suo sguardo che osserva l’alternarsi della luce del giorno e del buio della notte. Solo quello che avrà scritto resterà presente; ma lei ormai sarà altrove. C’è nell’insieme la presenza di oggetti e di ambienti concreti, che rientrano nel gusto di una descrizione realistica; ma la poetessa tende a trasportarli nell’atmosfera del sogno e dell’immaginazione, con l’intento evidente di creare un ambito indefinito che venga a produrre poeticamente il sentimento dell’altrove. Un altrove domestico, espresso in versi, quelli di Francesco D’Episcopo , concisi ma incisi sulla pagina, e incisivi, con un movimento logico spiazzante ed efficace: altrove è il luogo dove non ci troviamo (forse fisicamente), ma dove più che in altri siamo (forse spiritualmente), e dove non cercheremo l’altro – che è però nel nostro sogno, sogno che è da intendersi anche come desiderio, probabilmente; l’altrove domestico ispira anche il ricordo del padre, un “viandante di sogni” (anche qui da intendersi come “desideri”), spinto sempre oltre dalla propria inquietudine. E il figlio che lo ricorda è, detto con Quasimodo, un “operaio di sogni” che dà voce a quelli del padre, intendendo la ricerca dell’altrove come un’inestinguibile ansia di assoluto. Un assoluto in fondo, ancora una volta quotidiano fatto com’è di pace e quiete inattingibili: ma, ossimoricamente, si può essere felici anche nell’inquietudine che è quella che ci muove: forse, per il viandante, a dirla con Nietzsche, non è importante la meta, ma il viaggiare; il cercare l’altrove ha già in sé l’altrove, perché noi già siamo lì, anche se ci troviamo ancora qui.

L’ altrove come rifugio segreto “agita il battito allo schianto / del cuore” e il rimpianto di una felicità inappagata catalizza l’emozione di Valeria Di Felice : «uccello ferito dall’ala / piegata alla resa del colpo». Il gioco delle forze psichiche ruota intorno ad un universo poetico alla ricerca di uno scatto memoriale di vitale gratificazione, offertoci dalla matrice del profondo, che può essere definito premio di allettamento o piacere preliminare . Il desiderio dirompente dell’ oltre viene configurato come attesa e come bisogno d’assoluto, nella fondamentale dimensione espressivo-comunicativa del tessuto poetico di questa poesia elegiaca e tenera.

Attraverso la poesia di Pirandello, a volte precorritrice del­la narrativa e del teatro, viene analizzata da Carlo Di Lieto la condizione liminare dell’ angelismo , che sottende l’oscura fascinazione del doppio e dell’ altrove e il sentimento profondo e perturbante della fenomenologia psichica. L’analisi, condotta sui principi di Lacan e di Matte Blanco, evidenzia la sinergia io/altro e restituisce alle immagini, involte nella tensione creativa, la disidentità alienante del poeta. L’ io si ipostatizza nell’ altro da sé e l’alterità si identifica con l’ io , nella riflessione speculare e nella fascinazione narcisistica del­l’ io diviso. In tale processo il doppio si fa strada nella scansione del dentro/fuori , interno/esterno , mettendo in scena la riunificazione del , connessa alla solitudine essenziale del poeta, mentre l’ angelismo , dilacerato dall’illusione dell’ altrove , manifesta l’estraneità dell’ io , trasformandosi, in simbiosi con la poesia, in angelico rapimento, e lo sconfinamento nella non-vita viene colto come un attimo fugace di beatitudine nell’universo inconscio dell’immaginario. In questo diorama, uno straordinario candore blandisce la coscienza disajutata del poeta e il suo io diviso , nell’ottica disarmonica del Fuori di chiave (1912). L’estraneità dell’ io , fantasmatizzata, lascia senza risposta il gioco illusorio dei contrari, creando un distacco assoluto di immagini liminari nel doppio e nella ricerca inesausta dell’ oltre e dell’ altrove .

L’altrove si delinea, per Annitta Di Mineo , non come un qualcosa collocato direttamente in una dimensione altra, magari parallela e incommensurabile: esso è lungo il nostro stes­so percorso, a esso ci avviciniamo passo passo, è il traguardo del nostro cammino, il risultato della nostra ricerca, un risultato forse mai attinto definitivamente. Ma, come posto dietro l’angolo, è anche l’ingresso a quella dimensione altra: la svolta dell’angolo è cerniera tra un cammino terreno e un altrove che è fine di questo cammino e sul quale non possiamo non interrogarci pur non trovando risposta, anche in questo caso. La luce della ragione non riesce ad illuminare tutti gli angoli: soprattutto quello cruciale e fatale. I versi sono passi misurati in questa ricerca.

Una scrittura sapiente espande una stanza fino a farle contenere non solo il mondo esterno presente ma anche il passato in una dissoluzione d’ogni confine temporale e spaziale, sembra dirci Stelvio Di Spigno: l’altrove è dunque lo spazio della mente nel quale si compie un’unione con

tutto quanto ci circonda e che comprende anche noi e nel quale ci ri-comprendiamo (“ridivento della terra, del vento, del cielo”); l’illusione che ci coglie è che tutto questo non possa morire e continui a esserci tutto, compresente, in una stanza che si fa immaginario sogno. Se da un lato questa panica espansione ci rende mondo, dall’altro non si può frenare lo sgomento di fronte alla fuoruscita dal mondo, dalla vita in questo mondo, di chi non è più con noi: l’altrove è allora “l’altura dell’angoscia”, di fronte alla quale non resta che la preghiera. Non può non annichilire il pensiero che l’avvenire di chi viene al mondo è poi, ineluttabilmente, uscirne (“Fremi, urli, impazzisci, ma il tempo / ora canta, ora è condanna, ed è così / per ogni gente che sboccia all’avvenire”).

Originali esercizi di stile attraverso i quali riscrivere i versi di poeti e scrittori noti vengono proposti da Antonio Donadio . Un ventaglio di voci polarizzate intorno a due costellazioni: l’altrove cristiano e quello che potremmo dire laico, anche se pure talvolta proteso verso un divino talvolta percepito piuttosto nella sua assenza. Nel primo caso investigazione e interrogazione sul trascendente cercando Luce e verità insieme a Luzi, il ricongiungimento con la trinità insieme a Rebora, il Tutto insieme a Turoldo, e una provvidenza anche politico-terrena insieme a Manzoni. Nel secondo caso con Eco si cerca il centro delle cose, con Eduardo De Filippo una vita finalmente pacificata, con Levi si constata l’impossibilità di dio dopo la Shoah e di Trilussa si riprende la vena satirica. Ma in fondo, la modalità scelta è già un’esplorazione dell’altrove, ovvero un viaggio nell’altrui scrittura e nelle altrui sensibilità.

Una serie di “altrove” si dipana nei versi asciutti, di diversa misura pur nella loro costante brevità di Enrico Fagnano : ma che si tratti di spazio, tempo, parola, strada, orizzonte, giorno, idea, la tensione è sempre nel ricucire, nel tenere insieme un prima e un dopo, il giorno e la notte, la certezza e la speranza, ciò che è conosciuto e ciò che è nuovo. Ma l’agnizione finale ci sorprende e spiazza (ma non tanto, se finora il testo cercava appunto di “ritessere” la realtà in un continuum), perché l’altrove non appare come qualcosa di altro e di inedito, di mai attinto, ma, al contrario, come ciò che forse abbiamo già avuto e perduto e che va ritrovato sotto una nuova luce. Il futuro sembra dunque dispiegarsi come rivitalizzazione di qualcosa di originario nascostosi nell’ombra: uno stato di natura forse non reale ma ideale “che ci restituisca / il vero senso delle cose” e “che arrivi dalla nostra mente / al nostro cuore”.

L’altrove viene declinato da Luigi Fontanella in due modi. In un caso è il viaggio, il “trasferimento” che può inaugurare una vita nova che sia “scioglimento di ogni legame”: una liberazione che passa attraverso la parola alla quale spetta tale compito, una vera “fisioterapia” e non solo una “psicoterapia” come ci si sarebbe potuti aspettare dal momento che è la parola ad essere chiamata in causa; dunque questa liberazione ci riguarda in modo integrale, ci riguarda come corpi e non solo come pensiero – e viene in mente l’affermazione nicciana per cui non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo, corporiamo. Il corpo, il corpo giovane è protagonista anche nel secondo modo in cui è declinato l’altrove, per il quale non si guarda avanti ma in un passato fatto però di momenti ancora “fermi nello sguardo”, come quei roveri verso cui si sollevano le braccia o sui cui rami ci si acquatta nell’antico giardino delle zie angrisane. Dunque il viaggio e la memoria sono ambedue luoghi dell’altrove: o meglio, le stagioni incrociate del futuro o del passato sono esse, nella loro sovrapposizione, e, insieme, l’altrove che si fa anche corpo e luogo. Altrove è anche la parola che li dice.

Elio Gioanola , celebre studioso del vissuto psicologico e psicopatologico, ha indagato sui testi letterari con le sue acute intuizioni di fine ermeneuta. Per lui l’ altrove , in questo breve brano, è interrelato alla vita quotidiana: «È dunque qui l’altrove? Se fosse qui non sarebbe l’altrove, che sfugge per propria natura ad ogni determinazione di spazio e tempo, come il nulla e l’infinito. Questo dove mi trovo è un luogo preciso, rintracciabile sulle carte geografiche, o almeno su quelle topografiche, trattandosi di un paese abbastanza piccolo, tra le colline del Monferrato. È certamente, per me, un mondo altro, opposto a quello in cui ho consumato la mia vita attiva, il mondo della città e del lavoro, dei traffici, della convivenza stretta, degli scambi produttivi». Con questa disposizione d’animo «tanto mi basta per sentirmi più vicino al non tempo e al non luogo», per inseguire le tracce «di quell’altrove di cui ho sempre coltivato la nostalgia e che non mi ha lasciato vivere come vivono quasi tutti i cosiddetti vivi». È forse un’innocua malattia letteraria questo acuto sentimento di sospensione e di ricerca dell’ altrove , quasi una benefica condizione leopardiana, di guardare oltre il colle e la siepe, fuori dal tempo e dallo spazio, per scorgere “l’ultimo orizzonte” e gli “interminati spazi”. Allontanando dalla realtà fenomenica tutto quello che viene trasfigurato, nasce nell’autore il bisogno di cogliere l’ altrove con l’irrompere dell’immaginazione. È il lato oscuro della malattia del profondo; occorre, perciò, riflettere, paradossalmente, che è necessario “guarire dalla salute”, per raggiungere nello stato patologico un eccezionale momento di compensazione. Svevo, in una lapidaria lettera a Valerio Jahier del 27 dicembre 1927, scrive: «Perché voler cu­rare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di meglio?».

Sonorità avvolgente e musicale, empito poetico costellano i versi di Vincenzo Guarracino , nel trascinante viaggio dei “tanti altrove” che sfuggono al poeta. L’estetica della caducità e “l’estasi di un mistero” sono nel muto dialogo e nell’attesa di un’agnizione, che è intrinseca al suo verso alato. L’ altrove è attesa struggente di rimpianti “nel tempo dei suoi tanti / viaggi” e di “tante culle / gli anni che non ha più”. Ricerca infinita di un’assenza, non senza la profonda consapevolezza dei limiti invalicabili della condizione umana è nell’essenza pervasiva di un sentimento indefinibile e nel riflesso psicologico delle corrispondenze speculari, nate da una straordinaria energia creativa.

“L’urlo muto del fiore” è, per Annalisa Macchia , una “pulsione di vita”, soffocata dalla “pulsione di morte”, in uno scenario naturale di trepidante inquietudine. La caducità di un fiore diventa l’emblema del “sentire irrequieto” dell’ esserci , in una speculare corrispondenza di affinità elettive degli esseri viventi. Nel susseguirsi delle immagini si moltiplica, per gemmazione spontanea, il valore assoluto della parola, proiettata in un mondo altro , in quell’ altrove mutevole, da farci scorgere la metamorfosi del reale fino alla pura astrazione delle immagini, preziose invenzioni della visionarietà. L’armonia e l’andamento lirico dominano l’oggettività, per avvicinarci alle indecifrabili ragioni dell’ essere .

Quello di Dante Maffia è un altrove esistenziale ed inquieto; “il dolore dell’Assenza”, “la Perdita”, “la Dissolvenza” rendono l’ io del poeta uno straniero in una landa desolata, in cerca di un’identità che “esiste senza esistere”, quasi nullificata dalla sua stessa presenza. È la fuga in un altrove sconosciuto, in un oltre e in un altro da sé , sorprendenti e accattivanti, da cui il poeta riemerge, rinviandoci ad una rarefatta immagine di sé, che, per autoctisi, si erge solenne da alunno delle Muse. L’ essere altrove da sempre conforta il poeta e rende inesplicabili le ragioni dell’esistenza come resta inspiegabile il primo incantamento dell’Amore e della Poesia.

L’essenzialità del respiro lirico di Alberto Mari e la disposizione fantastica e inventiva alla composizione surreale designano un afflato in divenire, che ha la stessa efficacia della sua visionaria creatività. L’andamento puramente descrittivo è nella compiuta struttura della rappresentazione: «Di respiro di vento / le creazioni racchiuse / dimensioni del vedere riportano la vita», alla ricerca di uno spazio illimite . Una vertigine di immagini concatenate e una capacità eidetica, senza alcun lezioso compiacimento, comprovano la straordinaria continuità e la linearità visiva del poeta. Vibrante e instabile è il ritmo e tenero è l’affanno di una “visione scissa”, che si frantuma nel doppio : «Un’estrazione di fantasia, quasi fino a in fondo ai caratteri del contrasto».

Sfuggente e inafferrabile è l’ altrove nel discorso poetico di Giampiero Neri : è “uno spazio mentale”, un “luogo metafisico” alla ricerca irrequieta di un milieu che è la proiezione dell’ io lirico: un paesaggio, un passero che insegue una farfalla, l’indistinguibile colore giallo o il più “temibile” coloro bianco. Le risonanze dell’ illimite convergono verso una dimensione onirica, “per il godimento dell’opera poetica e per la liberazione delle tensioni della nostra psiche”. “Il poeta”, scrive Freud, ne Il poeta e la fantasia (1907), «ci mette in condizione di gustare le nostre fantasie senza alcun rimprovero e senza vergogna». La scena onirica fagocita la visionarietà di Giampiero Neri, allorquando il contenuto della “materia dei sogni” ci presenta un materiale, i cui sintomi erompono da una forza psicologica nascosta e le libere associazioni condensano, in alate immagini, il contenuto rappresentativo.

Certi valori della vita già vissuti e il pensiero di un’esistenza nell’aldilà concorrono, per Emanuele Occhipinti , alla formazione del concetto di altrove. Quando non sarò più sulla terra, allora le vicende che mi hanno coinvolto in questo mondo acquisteranno maggiore consistenza e troveranno più precise motivazioni. Ne vien fuori una concezione pessimistica dell’esistenza umana nel presente e una valutazione positiva di ciò che è stato e di ciò che sarà.

Il sentimento dell’ altrove, sembra dirci Roberto Pazzi, è in una presenza ossessiva, alla ricerca di un varco insormontabile: «cerca un’uscita, ingannata / prende il tuo viso per il mio». È forse un desiderio d’amore frustrato, che, nell’evoluzione espansiva del verso, tocca il vertice dell’insondabile mistero del pensiero creativo. Dobbiamo rassegnarci nel constatare che il mondo esterno o interno non si insedia in “un’area” intermedia, ma come propone Meltzer (1975) sono luoghi “localizzati in nessun luogo”. È una struttura bi-logica anaclitica, che si appoggia ad un sistema inconscio e la logica dissolvente di questa lirica pone le premesse per annullare “il principio di non-contraddizione”. Versi di un nitore esemplare, che annulla lo spazio e il tempo, nel valorizzare la creatività e l’empito della poesia della montaliana Mosca . Altrove è in ciò che manca, è nell’assenza, è nel desiderio. Sembra qui caratterizzato nel modo in cui Platone nel Simposio parla dell’amore, dell’Eros, figlio di Penia, la povertà, appunto, la mancanza, e Poros, l’ingegno. Per questo l’amore è desiderio, bisogno di ciò che ama e non possiede: ciò di cui sente il bisogno deve essere bello e quindi l’amore è proprio mancanza del bello, e pertanto insopprimibile tensione verso il bello che, nel pensiero di Platone, per essere tale deve essere anche buono. Queste parole chiave si ritrovano strettamente raccolte, accolte insieme anche nei versi di Elio Pecora : “E se la bellezza dura / nel sogno dell’arte e l’amore / nel baluginio dell’attesa / o nel chiuso della delusione; / e il desiderio è assenza, […] / che ne è dell’altrove? dove?”. Questa dimensione d’umana ricerca si situa all’interno di una dimensione a sua volta cosmica: come esseri umani, esseri viventi, tutti “approdammo / nel globo che ruota e beccheggia / in una infinità irrefutabile”.

L’epifania dell’ esserci è nella sospensione nostalgica del qui e l’altrove di un poeta che non ha dimenticato le sue origini, ma che dal suo “loco natìo” ha avuto gli stimoli giusti «a sogni di balzi en avant». La radialità dell’immaginario di Ugo Piscopo è irrefrenabile per una riappropriazione del suo primigenio mondo dell’infanzia, lungo la sedimentazione nel tempo di avventure ed esperienze che gli hanno dato l’opportunità di essere se stesso: «il qui e ora ma insieme l’altrove / come anello di scambio come uscita dalla giungla al sole / mi dicevo benvenuto Altrove che spalanchi le porte alla luce / che alzi arcobaleni policromi per andate verso prati in fiore»: versi di squisita fattura lirica, avvolgenti e straordinari, sotto lo spettro incombente dell’“inquieto sentire”.

Non c’è una esplicita ricerca dell’altrove, in queste poesie di Ernesto Ponziani , ma l’altrove si manifesta attraverso piccoli eventi, piccole epifanie, inaspettati arrivi, come quello della persona che sembra arrivare da Genova, solo perché a Genova c’è il mare: il mare evoca partenze e arrivi, e il viaggio: e così la persona (forse) arrivata da Genova riparte. E attese: l’attesa che scoppi il riso di un bambino o che finalmente arrivi quella musica che piace, o semplicemente l’attesa del nulla, il nulla che è il rovescio dell’altrove. O l’improvviso planare sulle dita di due petali gialli, minimo evento che chiama però in causa addirittura l’anima. Anche l’eventuale caduta del cielo (evento questo certo non minimo) avverrà senza rumore. Una tenera delicatezza pervade i versi e si esprime in parole o giri di parole che costantemente la evocano: “leggerezza”, “un bacio mandato da lontano”, “carta di giornale sfogliata dal vento”, e ciò che è stato già ricordato: “due petali gialli”.

L’altrove si dispiega, per Silvio Raffo , come un regno dell’assenza: quello in cui siamo non è il vero mondo, forse perché transeunte, mentre il vero destino è quello dell’ombra, del non esserci. Così come l’amore, “brama inesausta d’Infinito – / Desiderio che insiste inesaudito”. Infine anche Dio non esiste se non nella contraddizione di una luce che però si nasconde, ignaro della sua stessa presenza. E la parola “Lume” gioca con “numinoso”: a nascondersi, a sparire sono dunque la luce che dovrebbe tutto ​illuminare – e non lo fa – e la sua sacralità. E nella loro essenzialità anche i versi appaiono sulla pagina per poi eclissarsi insieme a un altrove assente, inesistente.

È un altrove concreto, tangibile, ci informa Enzo Rega, quello del quale va alla ricerca l’antropologo e filosofo Claude Lévi-Strauss quando parte per il Brasile per inoltrarsi nelle foreste del Mato Grosso e dell’Amazzonia stufo dell’insegnamento e della sua ripetitività. È concreto come luogo, è concreto come le persone che incontra, gli indios nel loro mondo ancestrale. Ma è anche un altrove simbolico, quello delle loro culture, del loro linguaggio: un modo diverso di vivere, di pensare agli antipodi rispetto al mondo occidentale dal quale proviene (posto in discussione) e che indica un’altra possibilità di esistenza. Un altrove terreno, territoriale, ma anche spirituale. Un mondo che però è minacciato dalla civiltà occidentale, per questo il suo altrove è quello dei Tristi tropici , come s’intitola il suo libro del 1955, senza dubbio uno dei suoi più conosciuti, un’autobiografia intellettuale che ha anche un valore letterario. Il pensiero di Lévi-Strauss ha ispirato posizioni politiche terzomondiste e anticolonialiste. Purtroppo i suoi tropici sono ancora tristi, se consideriamo come quel mondo, quelle terre ancestrali, sono ancora minacciati.

L’altrove si declina senz’altro nel sentimento della morte, dell’attraversamento di un traguardo che conduce Oltre, sembra dirci Lorenza Rocco . Un sentimento che si fa forte quando proteso verso l’Oltre è il proprio padre, colto come in un fermo-immagine nel quale si sta per compiere quel passo che non è ancora stato compiuto ma che si prospetta ineluttabile: “Eri già proteso verso l’Altrove / padre / quando mi porgesti il tuo orologio / Le coordinate del tempo / non ti appartenevano più / già proiettato verso l’Infinito”. Struggente poi l’identificazione del padre, ormai Altrove, oltre quella meta, con le cose semplici della natura evocate con una voce che sembra nerudiana: “Sei / nell’aria che respiro / nel fiore dell’ibiscus / nel frutto del melograno / nel profumo del limone / nell’odore della menta”. Questa panica dimensione paterna nulla può contro la realtà dei fatti, e la moviola del tempo non può essere riportata indietro, e riecheggiando il famoso verso di John Donne, “chi resta nel dolore / sgomento si interroga / Per chi suona la campana?”.

Delicato ed elegiaco, il discorso poetico di Mario Rondi, nell’affrontare la tematica dell’altrove: assenza, lontano, comparsa, stella. “Le intermittenze del cuore”, «un ciuffolo / della mente stupita per la varia / parvenza della mente», che «riveste per gioco ogni cosa, / anche il bel silenzio della rosa…». In questo dettato lirico uomo e natura sembrano un tutt’uno, perché un rapporto di reciprocità e di interazione è negli interstizi di questa trasfusione, che diventa sovramondo e illimite di una sabiana “parola onesta”. La tensione espressiva coglie la genuinità sorgiva del fantasma interiore, che fagocita l’ oggetto del desiderio in un benessere di pulsioni represse mediante una preziosa finzione letteraria.

Paolo Ruffilli sente che l’esistenza umana sta aggrappata al presente, che si alimenta di tutto ciò che in esso è luce o buio. Per lui l’altrove, cioè il cielo, il trascendente, l’evasione nella memoria, nella fantasia o nella speranza, non assumono particolare valore o consistenza. Questo modo di volgersi all’altrove produce soltanto il desiderio irrefrenabile di ritornare coi piedi a terra . Evidentemente il Ruffilli è una persona che si sente, volente o nolente, coinvolta concretamente nelle vicende del vivere terreno. Ciò non significa che egli accetta tranquillamente tale situazione; anzi, appare forte in lui l’ansia di poter trovare un rifugio ricco di spiritualità. Però si sente il rammarico che, fallita questa ricerca, la condizione umana, terrena, finisce con l’acquisire una più inevitabile consistenza.

Il dettato poetico di Laura Sagliocco ha un climax ascensionale di notevole spessore misteriosofico e di una discordia concors , sul versante di una logica matteblanchiana. La parola è condensata in “un fluido vitale” e viene consegnata all’ Ignoto nelle sue scansioni di un universo mentale parallelo, ma diverso dal nostro. La tensione è proiettata verso un altrove irraggiungibile, costruito in modo funzionale alla scaltrezza cognitiva degli stilemi sull’orlo dell’abisso psichico e spesso volutamente dissacrante e trasgressivo, perché coniuga la “malattia” letteraria, tanto cara ai decadenti, al segno distintivo della genialità espre

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