Il teatro non è mai scritto.

Gli adulti sono solo bambini convinti di essere cresciuti. Gli artisti sono bambini convinti che gli adulti stiano scherzando.
Per capire questo è sufficiente citare una delle prime indicazioni di scena del testo che state per leggere: “Entrano due attori vestiti da adulti…”.
L’artista lascia capire le sue vere intenzioni attraverso le contraddizioni che semina nelle proprie composizioni. Abbiamo Don Chisciotte, abbiamo Sancho. Più o me­no sappiamo di che si tratta: personaggi talmente vivi che sfuggono alle regole imposte dal loro autore per prestarsi ad altre vite artistiche, ad altri racconti. Ad altre battaglie contro l’illusione.
Quello che state per leggere non è il racconto di Don Chisciotte, è il teatro. Che succede dunque, in questa rivisitazione del Tronca? Succede che non si rivisita un bel niente, non ci sono luoghi già percorsi, c’è un’altra storia, che usa i personaggi del Cervantes come attori di giro e, nel mezzo del guado, non abbiamo afferrato se a parlare sono i personaggi o se sono gli attori. Sì, perché si direbbe che i due si spostino coi loro quadrupedi (ma sono quadrupedi “per bambini”) però si dice anche che i due sono arrivati con la Panda, c’è persino un’ode alla Panda. Se è per questo c’è anche un’ode al caffè, ma i quadri che via via si susseguono ci sbalordiscono, perché i luoghi diventano più di uno e ci portano ai confini dell’arte scenica. Una sorta di varietà eroico nel quale l’ukulele è la giusta arma per affrontare Se telefonando, una canzone che ha tutta l’aria di voler essere una lezione sulla consecutio temporum.
L’Odissea cervantesca del Tronca ci fa approdare al momento in cui sono le bestie a parlare e parlano dei loro padroni e scopriamo che anche le bestie hanno problemi di cuore. Ma il gioco si fa via via più vero, cioè più assurdo, insomma diventa come la vita. Perché quel diavolo d’un Tronca, nella sua scrittura d’altri tempi, fa incontrare i meccanismi teatrali seicenteschi con quelli beckettiani e il risultato è gustosissimo.
Non può che finire in tragedia, l’epopea del Tronca, e qui si ride, perché c’è una forma sottile di comicità, al di là dello slapstick, al di là della parola del teatro. È una comicità che altri definirebbero ebraica. D’altronde, la versione disegnata del Tronca lascia trasparire il suo essere: un Groucho Marx più fiero, meno disincantato, più incazzoso.
Per quanto si sforzi di usare stili senza tempo, il Tronca è artista dei nostri tempi.

Natalino Balasso

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