Epifania del tempo nel teatro di Renzo Ricchi

È il tempo la nota dominante delle cinque opere teatrali raccolte da Renzo Ricchi nel presente volume. Un tempo declinato come metro della vita, misura di tutte le emozioni e di tutte le narrazioni, eretto non a caso a vessillo dello stesso libro. Ad uno sguardo attento, i testi che lo compongono squadernano il mondo interiore dell’Autore, popolato da bellezza e da bontà, due solidi binari sui quali egli edifica sapientemente la sua personalità di drammaturgo e di poeta. La riflessione sul tem­po che fugge innerva la raccolta (la terza del genere nella cospicua bibliografia di Ricchi), sorretta an­che dalla fede cieca nell’amore umano, riflesso condizionato, e misericordioso, dell’amore di Dio. E se le età dell’uomo sono il baricentro dell’attuale esercizio drammaturgico di Ricchi, il pensiero ricorrente che contrappone le gioie lontane della sbiadita giovinezza ai dolori dell’ingrata vecchiaia, tuttavia la tematica della solitudine dell’uomo contemporaneo attraversa le scene, seppur all’apparenza varie, approntate dall’Autore cronologicamente durante il primo scorcio del nuovo millennio.
Spira un sentimento tragico della vita da L’invasione, nel quale l’amore fra due giovani viene per sempre interdetto dalle scelte scellerate dei padri. Su uno sfondo quasi shakespeariano si consuma il sogno di felicità fra il Principe e Aglaia, reso impossibile dall’infedeltà del Ministro, padre della promessa sposa, che, ingrato, congiura contro la pace dello Stato. Costui perirà per mano della spada del Principe, il quale compiendo il suo destino sacrificherà la vita per difendere il regno dall’invasione dei nemici. Amore, tradimento, ragion di stato e guerra conducono in gramaglie l’intera corte, lasciando i singoli protagonisti chiusi in dolori ottusi, senza alcuna via di scampo.
A ben guardare, la solitudine che riempie il cli­ma rarefatto della corte de L’invasione, popolata da sopravvissuti, non è affatto dissimile da quella che domina La parola all’assassino, dramma moderno, in cui il desiderio spasmodico di successo induce un moderno travet ad uccidere nella speranza, delusa, di ottenere gli ormai mediaticamente scontati quindici minuti di celebrità del dettato di Andy Warhol. La denuncia dell’uomo solo, paradossalmente immerso in una connettività digitale dalle esponenziali possibilità di incontro, è tanto più amara quanto più ampia è l’indifferenza del mondo affettivo, che percepisce solo le pulsazioni della re­te, nella quale, volente o nolente, vive immerso. La disumanizzazione dell’uomo contemporaneo – avverte l’Autore nel costruire l’impianto dell’opera e nel mettere al suo centro una famiglia tecnologicamente avanzata e una intera società dipendente da internet – procede di pari passo con la progressiva perdita della cognizione del tempo, oltre che dello spazio e con la progressiva ma inesorabile desertificazione delle emozioni. E qui verrebbe da ribadire l’assunto di Marshall McLuhan, secondo il quale mentre «per l’uomo tribale lo spazio era il mistero incontrollabile, per l’uomo tecnologico il mistero in­controllabile è il tempo». La scena del processo giudiziario, che pregiudizialmente condanna l’analfabetismo digitale del protagonista, è il trionfo del­la banalità del pensiero unico, dell’appiattimento conformista e dei suoi, irreparabili, danni sociali.
Riflessioni similari si riverberano anche nella trama di Villa Faust, farsa in tre atti, sottoposta a varianti e riscritture, stesa fra il 2001 e il 2002 e uscita per la prima volta su «Sipario» nel 2002, per l’occasione interamente rivista dall’Autore. La mo­da patetica del ringiovanimento ad ogni costo e i pa­radossali eccessi a cui può dar vita sono il cuore drammaturgico dell’opera. Il mito dell’eterna giovinezza, ultimo ritrovato dell’industria per ridurre gli uomini a consumatori perenni, finché morte non li separi dal corpo, colpisce il protagonista, Vecchio, portatore di un nomen-omen di tutta evidenza. Anacronistico e disadattato, fuori luogo e fuori tem­po, Vecchio è un campione di patetismo finito nelle grinfie di un superinteressato Dr. Paulus, discendente diretto dei diabolici medici spregiudicati e cinici della commedia all’italiana, superbamente ritratti nel cinema di Alberto Sordi. E se La parola all’assassino prendeva l’abbrivo dal desiderio di apparire da parte del personaggio principale, anche solo per una manciata di secondi su uno qualsiasi dei media, Villa Faust sviluppa fino in fondo l’ansia spasmodica e ingovernabile dell’apparire giovani.
Il corpo massaggiato, stirato, lucidato e plastificato di Vecchio, quasi fosse docile materia plasmabile offerta ai presunti miracoli della chirurgia plastica, dello sport e della cosmesi, è metafora di un tempo che nega valore al tempo e che non lo venera più come il dio più potente di tutti, come sosteneva Pindaro, o come un dio benigno, come riteneva Sofocle.
La corruttibilità del corpo, che livella gli uomini e li rende tutti simili prima ancora della morte, è al centro del dramma storico La salvezza e il potere, in cui la biografia di Carlo V si intreccia con il richiamo agli avvenimenti più importanti dell’era mo­derna, la Riforma, l’Inquisizione, la lotta contro i Turchi. Vi giganteggia l’imperatore, ridotto a un repellente corpo malato, guastato dal vizio del bere e del mangiare, assediato dalla gotta, abbandonato ai salassi e alle purghe, che vive, sic transit gloria mundi, solo quando mastica come compensazione alla sua, infinita solitudine. Sullo sfondo, tra servitori spazientiti e medici in contrasto la tenera sorella Isabella di Portogallo e il giovane figlio Filippo II affollano la scena, mentre arrivano da ogni parte dell’impero, nel quale non tramontava mai il sole, derrate alimentari di ogni specie e genere. E sì che tra il petroniano Trimalcione e il Gargantua di Rabelais il Carlo V di Ricchi contende la palma di crapulone impenitente e insaziabile, divenuto insensibile e sordo alle preghiere ruminate dagli uomini di chiesa che lo circondano per la salvezza della sua anima e dimentico del suo potere e della sua gloria. Reperti di un’epoca irrimediabilmente perduta so­no i quadri di Tiziano, gli automi meccanici, gli oggetti ricercati, riposti in uno scrigno che si apre e si chiude, lasciando simbolicamente percepire lo scorrere finale del tempo.
Dopo l’impietoso testo su Carlo V a Yuste, Ricchi propone un eroe della classicità, Ulisse, ne Il testimone, opera composta di materia omerica e post-omerica (l’Autore assimila e fa proprie suggestioni tratte da Il seguito dell’Iliade di Quinto di Smirne), nella quale pulsa la proverbiale nostalgia del protagonista per Itaca. Ma qui il viaggio, metafora perfetta della conoscenza e dell’esistenza, vi­ve di nuovo riflesso nelle scelte di Telemaco. La paternità si specchia come su una superficie trasparente e si sdoppia: Telemaco diventa il testimone del prode Ulisse, replicando le gesta del mitico pa­dre. È il miraggio del vello d’oro degli Argonauti, cantato da Apollonio Rodio, a soccorrerlo e a spronarlo a lasciare la petrosa Itaca e a fargli rivivere – suo malgrado – la scelta di Ulisse, mentre Penelope riprende la sua perenne e scontata vita di attesa. Sotto il cielo omerico e dinanzi al profondo mare greco tutto si rinnova, tutto ritorna come prima, anche se il tempo scorre, inesorabile, come ha insegnato al mondo il naturalista Eraclito di Efeso, e co­me sperimenta la coppia protagonista dell’opera di Ricchi che, ritrovatasi dopo vent’anni di lontananza, prova l’intera tavolozza del disagio, dell’imbarazzo, del timore e dell’impaccio al posto dello slancio libero o delle pulsioni passionali.
Si direbbe un riuscito amalgama di poesia in forma teatrale o il suo contrario, ossia di teatro in forma poetica, il teatro che Ricchi, autore prolifico, sceglie di pubblicare in Nella pena del tempo. L’impianto classicista delle opere, i temi profondi (la caducità della vita, la morte, il tempo, il sentimento della solitudine) denunciati sin dal titolo della raccolta e affidati spesso e volentieri a lunghe battute monologanti, il profilo morale dei personaggi, ora più ora meno scolpiti, e il loro stile a volte sentenzioso, fanno dell’autore un drammaturgo che riversa in prosa la lunga pratica nel campo poetico. Ricchi innesta naturalmente il suo fare poetico nelle pa­gine teatrali e ne impasta i motivi senza alcuna apparente distinzione di genere. Drammaturgo, poe­ta e narratore, ex giornalista della Rai, Ricchi, non alieno da una scrittura anche critica, ha sempre dominato in contemporanea più livelli espressivi e più scritture, riversandole spesso le une nelle altre. Il continuo esercizio poetico si è misurato talvolta anche con la prova del palcoscenico. Trasferiti in musica e in voce, i suoi versi sono stati tradotti in drammaturgia e ‘messi in parola’. Nulla di più autenticamente naturale per un autore, che sembra aver fatto proprio il detto latino «nulla die sine linea», che tradurre le riflessioni e le inquietudini del suo tempo biografico ed esistenziale in atti e in scene piuttosto che in versi.
Le categorie del buono e del bello innervano ogni pagina di Ricchi, frutto di riflessioni morali e di intensi vissuti, di letture approfondite e di forti esperienze. E il teatro è il fil rouge della sua ricca vita intellettuale, sin dal debutto nel lontano 1975 di Toscana libera sul palcoscenico del Teatro Metastasio di Prato per la regia di Giovanni Folli. An­che per Renzo Ricchi il teatro, simile ad un amico fedele, non tradisce, accoglie, ascolta e contiene le gioie e i dolori, le depressioni e le intemperanze, fino a farsene specchio ora divertito, ora malinconico, ma pur sempre rassicurante.

Firenze, settembre 2015
Teresa Megale

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