IL RESPIRO DI UNA VITA

La lettura delle più recenti opere di Gianni Rescigno (Gli occhi sul tempo, in silloge con Menotti Lerro, Manni, 2009, Il soldato Giovanni, Genesi, 2011 e, in particolare, Cielo alla finestra, idem) mi ha indotto a definire la sua scrittura come un felice esempio di moderno “cantar narrando” – o “narrar cantando”, che dir si vo­glia, – di lirica, cioè che non disdegna il rapporto con l’epos ma, anzi, ne ricerca la solidarietà e l’amicizia per dar vita ad un intenso, personalissimo racconto del cuore, dai toni dolci e pacificati (in Vernice. Rivista di formazione e cultura, Torino, n. 44, febbraio 2011, p. 188 e in Arenaria. Rivista mediterranea di letteratura, Palermo, n. 5, luglio 2011, pp. 105-106). Dopo la lettura di Nessuno può restare ritengo di poter confermare e motivare ulteriormente quel giudizio.
Quest’ultima raccolta dà ennesima prova dell’estensione e della raffinata qualità dei registri e delle forme liriche di Rescigno – fra idillio ed elegia, esplosioni di nodi emotivi e confessioni più distese, massima concisione espressiva (come nel distico Le sere dell’amore, con echi della mattina di Ungaretti e della subitanea sera di Quasimodo) e slarghi da poemetto (ad esempio, Vedi arrivare l’autunno) – nonché dei suoi temi più congeniali, che qui sembrano annodati in percorso, sulla falsariga del viaggio stesso dell’esistenza, fino ed oltre il suo orizzonte terreno, e calati in un’atmosfera vagamente autunnale: quasi che il poeta fosse ormai estraneo alla scansione materiale dei giorni, delle rotte, degli approdi, esperto e saggio marinaio affrancato da fatiche e tempeste, serenamente pronto ad assaporare la mitezza del tramonto e i misteri della notte. Un percorso, insomma, sul doppio filo della memoria e della speranza: dal passato per sempre acquisito al futuro assicurato dalla fede, in fraterna comunione con tutto ciò ha fatto di banali sequenze cronologiche le tappe di una vita, come in un festoso convito dell’anima cui è invitato ogni frammento d’esistenza, bello o brutto, ospite gradito in ogni caso, accolto in cordialità e armonia.
Compagna prima e fedelissima del viaggio poetico di Nessuno può restare è la natura, di volta in volta sfondo o cornice, interlocutrice o suggeritrice, presenza comunque imprescindibile. L’uomo Rescigno e il poeta Rescigno sono inseparabili dall’ambiente naturale in cui vivono totalmente e costantemente immersi e attraverso cui esprimono ogni piega del proprio sentire (si legga per tutti Rumori di Passi). Testi come Del pesco vecchio e Pioggia sono pure contemplazioni idilliche; ma la simbiosi io-natura può arrivare ad infrangere la distinzione ontologica e ridurre la coscienza a puro sguardo (“Sono uno sguardo / soltanto uno sguardo / per tutto il giorno / dalla terra al mare / dal mare alla terra”) o scioglierla, come mare, vento, sole, pioggia, sabbia, nel “continuo accendersi / e spegnersi” del “fuoco divino” della vita universale (Ai confini del dubbio). Dietro gli scorci di natura georgica – segnata dal tempo e dal lavoro (I sogni che non racconto), raccontata nelle vicende dei giorni e delle stagioni (Vedi arrivare l’autunno) – o con tracce francescane (si veda l’occhio ardente di frate sole in Non mi potete dire) e di tradizione illustre (dall’antica poesia bucolica a Petrarca e Poliziano, fino ai simboli pascoliani e montaliani: Se fossi stato al tuo posto), pulsa l’idea che, per la sua intima essenza divina, la natura sia immagine visibile dell’oltre, speculum e portale del trascendente (“S’agita il ramo, s’oscura alla preghiera / la luce dell’azzurro, sembra / che tutto gridi come il vento / e ogni cosa per diverse vie vuol seguirlo / giungere dove scorre l’essere per sempre /senza il rosario delle ore tra le dita”; e ancora: il vento “forse è l’anima nostra / in continua prova / per raggiungere l’infinito”). Il fatto è che, come nell’idillio leopardiano (numerosi, espliciti e impliciti, gli echi del recanatese nei versi di Rescigno, a cominciare da Ginestra), la natura di Rescigno è sempre campo di semina e germoglio della riflessione, terreno di coltura di tutti i motivi profondi della sua poesia.
La negatività del mondo – la violenza della storia e della cronaca – da cui si è costretti a prendere le distanze (si leggano, ad esempio, Nell’ultimo racconto del giorno, Amore e pace, Il grido delle madri) è il tema da cui parte il viaggio di Nessuno può restare. Primo schermo a questa negatività, il silenzio (Mi nutro di silenzio): quel silenzio che, come nell’Alcyone dannunziano, è barriera contro le voci della quotidiana, brutale banalità del male. Prima direzione di fuga, il passato: vi giunge il poeta per le vie della memoria, tanto consuete e familiari che spesso si attivano da sole, come automatici tapis roulants (“dei giorni passati / mi saltano avanti le ore”), anche quando portano a riscoperte di sofferenza e vuoto (“Ci domandiamo dov’è / tutto ciò ch’è stato”). L’amore è l’oggetto prediletto della memoria, volontaria o involontaria che sia: è un pensiero dominante (ancora Leopardi) che sconfina nel presente (“Si va avanti così / sempre col desiderio d’amore”) ma ha nel passato le radici e le diramazioni più folte, e di là sopraggiunge sulle ali di un’infinita nostalgia – il lirismo volge così all’elegia (Capitava a sera; Cavalco per l’intera notte) – tanto forte, a tratti, da creare un’illusione di ritorno (Azzurro peccato) o il miracolo dell’apparizione di un visiting angel (Nell’ultimo racconto del giorno) o di una sorta di ologramma mentale (Sotto i rami dei cachi: “Dentro mi si fa sempre più giorno / e mentre mi si avvicina la tua lontananza / nitida ti scorgo sotto i rami dei cachi…”; si legga anche Su questa panca di quercia).
Il passato, dunque, perdura nel presente, in un coagulo che ha il volto dell’amore intensamente vissuto e mai dimenticato. Ma anche il volto della morte, che pure proviene dal passato, perché imparata dall’autore fin da bambino, attraverso la scoperta delle stagioni e del loro portato di vita e di morte su tutte le creature della natura (“La morte passava nella polvere / … / e non aveva occhi”), e poi definitivamente e più dolorosamente compresa nei vuoti d’affetto che via via produce l’esistenza (“E di tanto in tanto / tra passi e soste / per ingannare la noia / ci si accorge che qualcuno / manca, fuggito col silenzio / a cavalcare l’onda”; si leggano anche Una voce del coro e Aprile portò la tua morte). Così il poeta ha imparato che la morte è la misura più vera della vita (risuonano echi senecani in versi come La vita “… / Vuoi vederla? / Guardala dalla fine all’inizio”), compagna irrinunciabile, consigliera fidata da interrogare e ascoltare (“Origli, ascolti la morte: / … / E quando riappare il sole / ti tocchi gli occhi / per sapere se ancora vivi”). Proprio perché giunge dal passato ed è compagna del presente, la morte è suprema attesa del futuro (“E ora mi trovo qui / poco lontano dal mistero”): attesa serena, senza trauma di cesura (“Si resta soltanto con le ore. / E non le conti. / Così incomincia l’eternità”), perché guidata dalla fede di chi fermamente crede che l’ora degli angeli sia ricongiungimento con Dio (“Hai cominciato a salire / rampe e rampe di cielo / per riprendere i tuoi occhi”) e con i propri morti (che, come quelli pascoliani, “non accettano mai / l’esilio assegnato loro dalla ragione. / Continuano ad abitare nel nostro cuore”).
La fuga può prendere anche la direzione del sogno, l’imparagonabile luce che illumina ogni più fantastico desiderio (come in Mare di girasoli: “Vorrei portarti / in un mare di girasoli / dove la terra non è terra // farti montare sui cavalli / del deserto e fuggire dalla vita”) e può indicare la porta dell’aldilà (“ai giorni visti in sogno / spero d’arrivare”) o condurre a quel recondito fondale in cui l’io elabora le immagini più belle e armoniose di sé e del mondo. Se l’anima è prigioniera del tempo, come tutto ciò che si compie e si ama nella vita (“nessuno può restare sempre / … ad aspettare” dice la poesia inaugurale ed eponima della raccolta), nel sogno tuttavia – quel sogno che, come per Dante, è preludio alla “visione” – può concepire e attingere una prima “figura” della propria infinità (“E se la neve diventa gelo / e l’ultimo tormento / è l’insieme di tutti i tormenti / affondi le mani nel tempo. / Scopri che hai amato soltanto i sogni”).
Il traguardo finale della fuga dal mondo, dunque, non può essere che Dio: l’anima è “terra di domani” che “soltanto il vomere di Dio” può “solca(re)”. Continuamente affiora nei versi di Rescigno il tema religioso, in varie forme e intonazioni: con movenza di preghiera (come nella litania di anafore di Profumi canzoni respiri) o con tratti teologici (la Trinità in Una voce del coro, l’Eucarestia in Quando venne il Figlio), con tensione escatologica (A casa del Padre, con echi de La madre di Ungaretti; Su questa panca di quercia; Il mare negli occhi; La freccia da seguire; Avvicinandoti a Lui) o come certezza della presenza di Dio (“l’occhio / mai spento di Dio”) nell’inebriante bellezza della natura (Dio a Capo Palinuro) e di Cristo accanto alle vittime del mondo (Così camminava Cristo stamattina).
Quali che siano il percorso e il traguardo, il mezzo di trasporto è sempre e soltanto uno: la poesia. Questo è il tema dei temi. Credo di poter dire che Gianni Rescigno vive di poesia, in una sorta di stato poetico perenne, come vivevano di immaginazione gli antichi di Leopardi, naturalmente e assolutamente poeti. La poesia è il suo stile di vita, il respiro della sua vita. Si leggano il finale di Volevi che tornassi (“Voglio che tu sappia dove abito: / in una casa senza muri / in mezzo a ginestre sempre in fiore. // Vi ho piantato un solo sogno: / sole che spunta sempre a mezzanotte. / Lo chiamo poesia e l’accarezzo”) o i versi di È l’età (“È l’età a farti ridiventare bambino. / Perciò dal silenzio tiri fuori / tutte le foto del passato / e racconti le stesse favole all’infinito”). I riflessi metapoetici sono evidenti, come lo sono i rapporti indissolubili tra vita e poesia: la poesia ha un portato profetico, è l’unica parola veramente “parlante”, la sola espressione autenticamente e profondamente umana; ha funzione non solo privata ma anche e soprattutto sociale e, al più alto grado, religiosa (“Verrà il tempo in cui / di nuovo parleranno le parole / e i poeti passeranno / a cantarle per le strade. / Così il cuore imparerà ad amare / … / Saremo ancora uomini: / una mano sull’anima dell’altro / e a Dio col pensiero”). Così il personale viaggio poetico di Rescigno si fa traccia di sentiero umano e intellettuale per ogni pellegrino dell’esistere.

Giannino Balbis

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1 recensioni per Nessuno può restare

  1. Giacomo Panicucci

    Tutta la grande poesia scaturisce dal fuoco del cuore che illumina la vita e nutre l’intelligenza, ma contemporaneamente ci annuncia sempre la catarsi e l’incenerimento delle passioni; la nostra necessaria dissoluzione nell’ignoto grembo dell’Universo. Già il titolo dell’ultima raccolta di Gianni Rescigno annuncia questo fondamentale motivo poetico: Nessuno può restare aggrappato a questa terra, nell’essere, perché tutto ciò che nasce è destinato a cambiare e finire. Tutto è mutevole in natura: il mare, come gli umori del cuore, ora è distesa di luce, ora è deserto affannato d’ombre e si logora nel moto continuo delle onde; scoloriscono e rinascono le chiome dei boschi; cambia al vento il volto delle nubi come le nostre espressioni; sulle montagne si alternano pallidi tramonti e aurore vivaci, e le nostre esistenze pulviscolari fuggono via in girotondo come le stagioni: tutto scorre, tutto se ne va, tutto viene trascinato via in un ciclo perpetuo di nascita e morte e niente sembra permanere, neanche il velo esile e sottile dei nostri ricordi. L’eternità non ci appartiene, ci sfugge e si manifesta solo a brandelli come un limpido riflesso solare sul fiume del tempo, e forse anche questo barlume non è nient’altro che una delle tante nostre illusioni. Ma il poeta, che cerca la verità delle cose, con l’umiltà e la precisione del copista, continuerà sempre a catturare questi bagliori per donarceli coniati in immagini di bellezza, perché è messaggero prescelto del mistero insolubile del mondo. Se nella materia tutto cambia, si corrompe e termina, soltanto lo spirito, la pura realtà immateriale potrà restare, come la poesia e tutte le altre opere meritevoli degli uomini. Anche da qui nasce la fede e la necessità di credere nella Bellezza spirituale. Tanti artisti oggi credono di poter fare a meno dell’ispirazione, che suona infatti per noi moderni talvolta come una parola vana e vuota. Non c’è più una vera fede in questa energia spirituale creatrice, teofanica; sembra anzi che si sia diffusa una sorta di ateismo sistematico anche nei confronti dell’idea dell’illuminazione artistica. A rendere l’ispirazione una parola piatta e abusata hanno contribuito da una parte la superficialità di un approccio impreparato alla poesia, esclusivamente ingenuo e sentimentale, dall’altra il peso della cultura mal digerita che soffoca la leggerezza dell’immaginazione, e la propensione a uniformarsi su modelli letterari all’ultima moda. Fra tanti di quei ‘poeti laureati’ di cui già parlava Montale, si pensa di poter vivere senza conoscere questa intima sorgente di acqua pura. Tanti eruditi si dedicano alla poesia come se fosse un nobile hobby letterario, un grande esercizio di eloquenza e di sintetica capacità retorica; così per compensare la scarsa ispirazione, si limitano a comporre le giuste sillabe e a misurare bene i limiti metrici che, come in un esercizio scolastico, si sono autoimposti. Ne risultano forzate forme anacronistiche; stralci di prosa accomodati in versi, dove non c’è mai un vero innalzamento, dove lo stile a volte tocca effetti involontariamente parodistici, dove non c’è mai la folgorazione e non si avverte quell’energia che si sprigiona dalla scelta delle giuste parole. Anche questa eclissi dell’ispirazione è un segno dei nostri annoiati tempi moderni: una conseguenza del materialismo, figlio diretto di un rapporto totalizzante con la dea Ragione, che in arte si tramuta in cerebralismo sterile o lavoro di tecnica senza vera profondità né espressività. Come gramigna la Ragione sembra aver attecchito anche sulle fertili pianure della poesia. La gioia di creare (consapevole, ma sempre fanciullesca), il dialogo con il proprio genio, sono fiabe antiche oggi, agli occhi di tanti artisti professionisti che sembrano preferire l’espirazione egocentrica all’ispirazione purificatrice dentro se stessi. Lo spirito, insomma, che vive nel cuore e non ha sede nella psiche, oggi non conta più e la metafisica viene dalla maggior parte delle persone rimossa o addirittura odiata. Gianni Rescigno invece, come tutti i veri poeti lirici ed ispirati, scrivendo dal suo calmo rifugio a Santa Maria di Castellabate, ci trasporta ancora con le sue poesie nella dimensione autentica che appartiene all’uomo, preso nelle sue vertigini d’esistenza; mostrandoci la vita nel suo fluire continuo tra realtà e il volo dei sogni, in un’altalena continua di dolori e piaceri, arrivi e partenze, incomprensibili alla Ragione. Tutto lo svolgimento di Nessuno può restare è un anelito all’infinito, tensione espressa nell’immagine frequente del vento, simbolo dell’ anima nostra / in continua prova / per raggiungere l’infinito. Forte della sua esperienza di uomo e poeta Gianni Rescigno riesce a non affogare mai nell’infinito che attira tutti i veri artisti, aggrappandosi agli scogli della sintesi e permettendosi come Leopardi di gustarsi la dolcezza del naufragio, senza pericolo di perdersi totalmente. Infatti in questo senso Rescigno è un poeta antico, classico: si accontenta del limite, della misura, del verso breve, delle gioie semplici della vita, pur sapendo che ci sovrasta l’oltre, il non manifestato, l’assurdo, il dionisiaco, l’infinito, il vuoto della notte eterna. Talvolta alcune brevissime ma intensissime poesie si conficcano sulla pagina con la velocità di tuoni che franano a terra, restando nei primi versi ancora bruciacchianti e negli altri fredde, metà chiare e metà confuse, metà immacolate, metà oscure. Più che poesie sembrano aforismi, epigrammi, pura scrittura intuitiva (Voli e riposi, Aria di Santa Lucia, La mareggiata, Le sere dell’amore, Il vomere di Dio, etc…). Sembra che qui il poeta scruti l’essere dalle porte del non-essere e ci consegni frammenti di saggezza ultraterrena, con lo sguardo mistico del veggente che intravede mondi e orizzonti per lui soltanto un attimo socchiusi. Quasi il libro fosse la scaletta di un concerto, a poesie dalla cadenza veloce, nate dalla contemplazione idilliaca di un fenomeno sensibile, come accade nella lesta ballata Pioggia, si alternano altre dall’andamento massivo e profondo, ermetiche e cariche di tensione metafisica (Sabbia e acqua, Anche se del vento in fuga, etc…). Gianni Rescigno è sostanzialmente un poeta mistico e la sua scrittura, che con il tempo si è maggiormente rarefatta, distillandosi in gocce di purezza e saggezza, procede per colpi di dadi lanciati sul nulla, lampi di verità sul buio in cui il poeta si inoltra coraggiosamente. Ma se tutto il libro, che si avvia in un malinconico tono minore, annunciando un cammino dantesco di purificazione in cui ‘’bisogna lavare l’anima con le lacrime’’, è un’acuta e serrata meditazione sulla morte, che senza occhi cammina accanto agli uomini sin dall’inizio delle loro esistenze; il finale di questo viaggio è un inno alla gioia scritto in raggiante tono maggiore. È infatti la solare epistola epicurea, che riprende Orazio e ricorda certe atmosfere de I ghiottoni di Fabio Tombari, a sigillare il libro: la Lettera a Franco, dove all’elogio dell’amicizia si unisce quello dei sani piaceri che colorano e alleggeriscono questa nostra effimera ma faticosa vita. Qui si intravedono benissimo tutte quelle radici latine, pagane e mitiche che stanno alla base dell’opera di Rescigno. Il poeta che ci ha accompagnato al capolinea di questo viaggio, nel lasciarci, ci suggerisce di cercare la felicità nella purezza e nell’amore per la Verità; mai nelle artificiali e dannose vanità che inquinano, frammentano e alienano l’anima perché non possono appartenere all’essere umano. E così ci esorta a nutrirci della semplicità offerta dalla Natura, perché sebbene sia una matrigna indifferente, essa è meno insensibile della spietata Ragione che spegne tutti i sogni e le passioni necessarie alla nostra felicità. La vita è un respiro così piccolo e breve che l’uomo dovrebbe stringersi in una comunione spirituale, come alla tavola di un perenne convivio d’amore: solo allora potremmo comprendere il senso terreno della nostra esistenza, altrimenti incomprensibile, e arrivare così a prendere piena coscienza del potere che abbiamo di infondere nel mondo il bene e la Bellezza. Giacomo Panicucci

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