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Autore: Giovanni Chiellino
Editore: Genesi Editrice
Formato: libro
Collana: I Gherigli, 182
Pagine: 128
Pubblicazione: 2019
ISBN/EAN: 9788874147007
Memorabile viaggio nello spazio
Postfazione
Vi sono molti esempi all’interno della letteratura italiana di canti d’amore dedicati alla gioiosità dell’incontro tra i due amanti, i quali trovano in sé stessi l’appagamento dei sensi e dell’anima, e si aprono a un canto di felicità e di benessere, come se fosse una liberazione dai rovelli della vita quotidiana o, peggio ancora, dalle insidie e dai mali che potrebbero derivare dalla lunga serie di elementi infausti che attentano alla vita di ogni uomo.
Omnia vincit amor et nos cedamus amori, dice Virgilio nelle Bucoliche e installa nelle nostre menti un’affermazione che, nella temperie degli anni, finisce per diventare una massima lapalissiana, tanto è l’abitudine che abbiamo fatto al concetto. Tuttavia, basti pensare ai romantici e al binomio leopardiano di Amore e morte – il Canto celeberrimo del ciclo di Aspasia – per capire che non sempre l’amore è stato coniugato con la gioia e non sempre l’amore reca con sé un appagamento delle arsure di vita e di esperienza che ardono nei petti umani.
Coniugare l’amore con la serenità e la gioiosità della vita è, dunque, una scelta mirata; una presa di posizione su cui si è a lungo riflettuto: è il fiore dell’agave, che sorge a suggello di un precedente sviluppo vittorioso, di crescita e di fioriture delle esperienze di vita.
Il fiore d’agave dello scrittore, del critico e più di tutto del Poeta Giovanni Chiellino, è questo luminoso e carnoso libretto di poesia che coniuga l’amore con la serenità, il sesso con la gioia, la seduzione con la realizzazione dei sogni, l’unione carnale con il raggiungimento della meta. Al culmine di una vita operosissima, dedita alla professione medica, esaltata dallo studio umanistico della letteratura e in particolare della Poesia, il Poeta sembra voglia spezzare il pane ai suoi lettori e rivolgere loro questo discorso della montagna, in modo che appaia come il suo sguardo dal ponte, la sua panoramica di ricapitolazione dell’esperienza fatta e anche di quella che non si è realizzata, ma che potenzialmente avrebbe potuto manifestarsi. Per tutti c’è la possibilità di attingere alla fonte dissetante dell’amore. Non è detto che tutti sceglieranno questa opzione. Tuttavia, il Poeta ha espresso la sua chiara indicazione.
L’indicazione poetica di Giovanni Chiellino non si limita a essere un messaggio etico o un principio filosofico, ma è anche e soprattutto un orientamento di gusto e di spessore letterario. Ecco, allora il ricorso all’espediente del manoscritto ritrovato, splendida invenzione che risale nientemeno che allo scrittore greco Antonio Diogene – da non confondersi col filosofo – del primo secolo dopo Cristo, in ambito romano, con il suo romanzo Le incredibili avventure al di là di Thule. Sarebbe inutile fare la passerella di tutti gli autori che dopo Diogene hanno fatto ricorso nei secoli all’espediente del manoscritto ritrovato, basti dire che tra gli altri si elencano Ludovico Ariosto, Miguel Cervantes, Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni, Jules Verne e in tempi di attualità Umberto Eco. Il manoscritto ritrovato può servire a dissimulare un accredito di autorità ovvero al contrario a minimizzare una fonte ritenuta autorevole a sproposito o ancora per declinare ad altri la moralità del manoscritto ritenuto criticabile o poco edificante. L’espediente nasce dal fatto che ab origine i manoscritti erano quasi tutti adespoti, cioè senza indicazione dell’autore. Il ricorso all’espediente del manoscritto ritrovato la dice lunga sull’inclinazione filologica e letteraria di Chiellino, che è sempre stato un attento lettore e uno studioso della letteratura, non solo italiana, ma anche classica, greco-latina.
Sulla vocazione di Giovanni Chiellino a fare ricorso alla memoria letteraria basterà richiamare Il Cantico dei cantici, così presente nel ricorso alle espressioni metaforiche del connubio carnale. Ancora di più, si può fare riferimento alle insuperabili quartine erotiche di Omar Khayyam. Si deve aggiungere che sono presenti, nella memoria lirica dei Carmina Iucunda, anche i trobador e le trobairitz della poesia occitana, ma ancora di più i poeti della Scuola Siciliana alla corte di Ferdinando II, lo Stupor mundi, e in particolare quel tale Ciullo d’Alcamo o Cielo d’Alcamo che dire si voglia, maestro del contrasto d’amore nella Rosa fresca aulentissima, citato e ammirato da Dante Alighieri, come da tutti i cantori dell’amore cortese. Tuttavia, sarebbe diminutivo e fuorviante limitarsi a fare un commento sulla valenza e sullo spessore di letterarietà dei Carmina Iucunda, i quali valgono principalmente per il generoso afflato di poesia vitale, di omaggio all’incanto fecondo della gioia e del piacere che l’amore sviluppa: è un autentico inno alla gioia, celebrato nel concerto dei sensi e dei sentimenti, nell’unione del corpo e dello spirito, nell’esaltazione della ragione e del sogno.
Si è visto che la scansione del libro è ebdomadaria, ma appare eccessivo attribuire al Poeta un palese intento cabalistico. Certo è che sette sono le meraviglie del mondo, i colli di Roma, le virtù della religione (tre teologali e quattro cardinali), le vite del gatto, i cieli nell’antichità avanti Cristo, dai quali ci è derivata l’espressione essere al settimo cielo. Tutto ciò per sottolineare che sette è considerato il numero della completezza e della totalità. Se si scorrono i sette giorni della settimana, cioè la quarta parte delle fasi lunari, vediamo che il libro è fatto praticamente di sette giornate che si chiamano Introduzione, Prima parte, Intermezzo, L’assenza, Carmina Iucunda, Versi in dialetto carlopolese e Coda. E in queste giornate si alternano le emozioni dei proponimenti e delle attese concepite sul tema dell’amore, cui seguono le realizzazioni, e poi le riflessioni o le pause, i momenti della lontananza, il trionfo della ripresa, la corposità materiale dell’espressione in dialetto, così terragno e concreto, per finire in ultimo con la coda di rasserenamento e con il conclusivo epilogo. I nomi attribuiti alle donne amate sono ovviamente degli schermi letterari, cioè dei senhal, anch’essi di derivazione provenzale, ma poi utilizzati anche da Dante, per arrivare infine a Montale che usa il senhal di Clizia per mascherare Irma Brandeis, la critica letteraria nota per il concetto di “scala verso Dio” elaborato per la Commedia di Dante, e che diviene l’Angelo in visita per Eugenio Montale, negli Ossi di seppia. Così abbiamo i cinque senhal di Chiellino, Sonia, Tonia, Sara, Bertilla e Ilina. È lecito suppore che “dietro lo specchio” di queste maschere vi siano altrettante donne amate dal Poeta, nel senso di una pluralità convergente all’unità, proprio come accade in Montale, poeta che ama l’amore. Se si vuole, lungo questa strada, si potrebbe azzardare un elemento di continuità tra l’amore in Montale e in Chiellino.
In Chiellino l’uso della metafora è molto spinto. Il sesso maschile lo si riconosce nelle sue varie declinazioni, in bastone, verga, aratro, ceppo (sovente ardente), ghepardo, ariete, cannolo, merlo, mestolo, falco, rapace, freccia, becco, penna, cero, delfino. Il sesso femminile è simboleggiato invece in nido, coppa, tortora, cerbiatta, calamaio, passera, colomba, centro, bersaglio, pecorella, tazza e ovviamente rosa. Se da un lato vi è tanta parte, nella lirica amorosa di Giovanni Chiellino, della tradizione letteraria, d’altro canto vi si riscontra anche tanta forza trascinante di vita e tanta autenticità e immediatezza di espressione personale. A questo proposito, basterebbe confrontare le tre liriche scritte in dialetto carlopolese e dedicate alla Pullastrella e al Pullastru. Con altrettanta invenzione, Chiellino rinnova il mito del Cigno di Leda, nel quale Giove, trasformatosi in cigno, anziché amoreggiare con la bella moglie di Tindaro, nasconde la sua scelta dietro il simbolo di una conchiglia, ricettacolo dei suoi intimi umori.
Il libro Carmina Iucunda si presenta come una summa di liricità in campo poetico e ci fornisce la rappresentazione dell’amore per l’amore, come l’attività più rasserenante e liberatrice che l’uomo possa condurre in vita: in essa si fondono il corpo e lo spirito e si placano e si sfogano gli interrogativi della ragione unitamente alle pulsioni degli istinti. Ciò accade oggi, nella poesia contemporanea del Poeta Giovanni Chiellino, così come è già accaduto in passato nei versi di Saffo, di Ovidio, di Virgilio, dei Neoteroi, di poeti persiani e musulmani, come nei poeti medievali della Provenza, della Sicilia e del Dolce Stil Novo, in quelli cinquecenteschi, e ulteriormente avanti nel consumo dei secoli per arrivare fino ai giorni nostri.
Sandro Gros-Pietro
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Marina Caracciolo –
La nuovissima silloge di Giovanni Chiellino è un vero e proprio “canzoniere erotico” che il poeta, con artificio direi manzoniano, finge – forse – di aver scoperto in un quadernetto appartenuto a un vecchio zio, fortunosamente ritrovato molto tempo dopo. Le liriche si inseriscono, con fine e variegata cultura, in una lunghissima tradizione poetica che comprende capolavori come il Cantico dei Cantici, i “Catulli Carmina” (a cui fanno già evidente riferimento il titolo e l’immagine di copertina), i libri V e XII – in particolare – della Antologia Palatina, ma soprattutto l’inconfondibile lirica amorosa di tipo orientale come quella del grande Omar Khayyam, poeta e filosofo persiano dell’alto Medioevo: come non riconoscere visibilmente, ad esempio, l’eco appassionata e dolcissima di alcuni suoi famosi versi nel componimento n. XV (pag. 37) del nostro autore?… Se è vero che l’apparato metaforico si fonda, quasi ad ogni pagina, su immagini non di rado esplicite e anche audaci, tali da sfiorare in qualche caso i limiti di ciò che si potrebbe chiamare il pudore espressivo, ciononostante tutto si riscatta per la presenza di un cono di luce che sempre illumina e sublima la “stoffa grezza” dei contenuti, conducendo dal concreto all’ideale, dalla materia pura e semplice allo spirito. Nella fuga inesorabile degli anni, un sincero invito all’oraziano “carpe diem”, un inno al piacere spensierato e disinibito di assaporare la coppa – ora dolce ora amara – che l’esperienza amorosa ci offre, sempre consapevoli del fatto che “non capiremo niente della vita / se non sentiremo l’odore della rosa profumata”.