PREFAZIONE

Il genio della scrittura di Natino Lucente è multiforme e in continua evoluzione. Se si escludono le pubblicazioni tecniche, attinenti alla professione di ingegnere e di ispettore ministeriale, e ci si concentra sulla produzione letteraria, si può ben dire che vi sia una prevalenza della poesia, sulla prosa e sulla saggistica, quest’ultima a fondo filosofico e religioso. Ma subito appare evidente il lavorio di una poetica intricata e poliedrica, sovente ispirata alle occasioni della vita e vivacemente contrassegnata dalle tumultuose vicende d’eros, ma anche arroncigliata intorno alle più assillanti questioni esistenziali, agli in­terrogativi metafisici, ai destini planetari della specie uma­na, ai grandi enigmi dell’astrofisica e dell’universo. Natino Lucente come poeta non ama risparmiarsi. Non coltiva l’orto di Cincinnato, con temperanza e rassegnazione, ma si proietta al di là di ogni orto possibile, oltre ogni finis terrae segnato sulla carta, con il piglio di Odisseo, a compiere il sacrilegio di infrangere il divieto delle colonne d’Ercole. Essendo un colto intellettuale, Lucente sa che il viaggio di Ulisse è destinato al naufragio. Al più potrà essere il dolce naufragio, vagheggiato dietro la siepe di Recanati, ma in ogni caso segnerà la resa e l’irredimibile sconfitta che spetta alla cozza che si stacca dallo scoglio su cui è nata, come certifica Giovanni Verga. Ne deriva un’intonazione poetica sospesa a metà tra melanconia e ironia. È proprio su queste due corde – cui si aggiunge come terza l’eros – che Lucente ha elaborato il suo messaggio, sapientemente accorato e smagato, sulla doppia carreggiata dell’autocommiserazione e dell’autoironia. Nel scegliere e sviluppare queste due inflessioni, uguali e contrarie, verso il canto ora melodico e ora satirico, lo scrittore cosentino ha tenuto a mente e ha valorizzato la natura più autentica e rappresentativa dell’italica gens, cui egli fieramente appartiene. Noi tutti, abitatori e creatori del Bel Paese, siamo, infatti, “accorati & smagati”: siamo melanconici, nel desiderio che manifestiamo di conservare ogni ricordo e ogni fiato di vita da testimoniare e da tramandare al futuro, ma siamo anche autoironici, nel dissacrare e nel minimizzare, coll’esistenzialismo mi­scredente, il tentativo di celebrare ogni valore ideale. Lucente, come si è detto, aggiunge a questo carattere di spiccata italianità il genio vivificatore, che appartiene ai maestri della commedia umana di ogni tempo e luogo: quello di vivere con gioia l’eros e le sue contraddittorie malie e gratificazioni.
Questo ricco e meraviglioso libro, Ultima eco, che già nel titolo vuole demandare a una sopravvenienza residuale e ricapitolativa del percorso che sta a monte, serve a comporre nella mente del lettore – a risguardo della mente dell’Autore – l’ampio repertorio dei modi e dei tempi e delle possibilità di tutta la precedente produzione, e che riassumiamo in tre parole tematiche: commiserazione, ironia e eros, come a dire che si deve andare necessariamente verso l’umanità con atteggiamento di pietà, di satira e di amore. È, dunque, questo il veritiero e fondante messaggio del poeta di Aprigliano. Un messaggio che lo scrittore, questa volta, formalizza con una cura letteraria disciplinata, sovente rispettosa delle tradizioni metriche inerenti le quantità versali – con grande ricorso al­l’endecasillabo libero, al settenario e al quinario, ma, in qualche caso, addirittura alla rima incatenata o alla terzina dantesca.
Lo scrittore chiama Stile la diversa espressione, formale e tematica, dei modi d’essere della sua poesia: e ne indica ben nove di numero. Lo Stile 1 porta sul proscenio la figura poetica che a Lucente è più cara, quella dell’istrione, che recita nella vita come se fosse un teatro e che vive il teatro come se fosse la vita, in modo da attuare una sorta di snodo cardanico che coniughi arte e vita insieme, creando delle dipendenze funzionali. C’è un ri­chiamo di empatia e un omaggio di affezione allo chansonnier francese Charles Aznavour, anch’egli ispirato cantore del dramma istrionico, come si legge nell’incipit della III composizione:

Sto aspettando il sipario che non cala
ed ho esaurito tutte le battute,
resta una grigia pausa da colmare
e mi tocca spezzare le parole.

Lo Stile 2 porta sulla pagina il secondo modo assai amato da Natino Lucente di comporre poesia, precisamente sul modello americano della poesia confessionale di Anne Sexton e Sylvia Plath, che tuttavia in Lucente, anziché essere una confessione riguardante la propria intimità quotidiana, diventa piuttosto un diario dell’anima, e si concretizza in un’annotazione corsiva e schematica, co­me sul taccuino dello psicologo, dei moti dello spirito, delle sensazioni, degli stati emozionali, degli attimi di so­spensione e di riflessione, come leggiamo nella V composizione:

L’istante all’istante succede
e noi subiamo
come sempre il dolore
nella carne e nell’anima.
Un cerchio si percorre
all’infinito
e dentro il centro
unico e equidistante
è solo un punto senza dimensioni.

Lo Stile 3, una delle espressioni più innovative e moderne della poesia di Lucente, rappresenta l’interpretazione personale della poesia geoepica, con uno sfondo astrofisico e planetario, nel quale il destino degli uomini è consustanziato al consumo e all’entropia irreversibile dell’intero cosmo, come leggiamo nella seguente poesia:

Sull’eclittica il sole
ruotava intorno alla terra
che in adorante contemplazione
smarriva l’orientamento
del suo asse di rotazione
in processione lenta di equinozi.

Lo Stile 4 è sicuramente uno dei più sicuri e sperimentati cavalli di battaglia del poeta di Aprigliano: precisamente si tratta del canto d’amore, la poesia dell’eros, intonata a grande dolcezza, ma anche a grande vigore, con elementi di attrazione e di repulsione, in assonanza all’Odi et amo di catulliana memoria. Questo tema, in Lucente, viene sovente svolto come rammemorazione di un tempo lontano e viene affiancato e gemellato al tema dell’evocazione degli anni della gioventù, dell’adolescenza e talvolta anche dell’infanzia. Qui di seguito, però, ci sembra giusto privilegiare una forma di eros espressa al tempo presente, per cui vale la pena di citare il dolcissimo incipit di Ostracismo:

Tu sei la donna
che mi dà l’amore,
ogni tuo gesto
accende un fuoco
che estinguendo alimenti
senza tregua.

Mentre a pagina 77, nella poesia chiamata Quotidiana, sempre all’interno dello Stile 4 dedicato al tema dell’eros, troviamo un esempio di evocazione dei tempi dell’infanzia, con contaminazioni di altre forme di stile, come quella istrionesca (si noti, comunque, il tamburellante ricorso all’endecasillabo):

Vibrano canne d’organo nel duomo
ritorna un’infanzia ormai lontana,
un languore dell’anima che sfibra.
Fra poco uscirò senza cautela
per le strade di un mondo che si sfalda
e indosserò la maschera di sempre.

In forma di terzina di endecasillabi liberi, solo in due occasioni marcati da una rima vibrante, si compone lo Stile 5, costituito dall’unico poemetto Miscellanea, nel quale si contempla quel tale giunto cardanico di cui si è già parlato e che unisce insieme vita e poesia, per cui si assiste al bilancio in partita doppia di una vita spesa per l’eros, tra commiserazione e ironia, e contemporaneamente viene redatto il bilancio della propria ricerca poetica, in una sorta di miscellanea che vuole essere uno schema sia di memoriale sia di poetica:

Senza movimento non c’è tempo.
Muore il poeta ma il suo canto è eterno,
nel cuore della gente resta fermo

e immutato negli anni si tramanda.
[…]
Sentimenti di amore e di passioni
sono andati e venuti come le onde
di un mare sconosciuto e spesso ostile,

ora giacciono inerti alla risacca

Sostanzialmente sulle identiche tematiche e contenuti dello Stile 5, ma con una cura ancora più puntigliosa della forma – quartine di endecasillabi, in rima classica ABAB, seppure con un’eccezione di cui diamo conto poco più sotto – è lo Stile 6, composto dall’unico poemetto Amusement, che per antifrasi o per eufemismo nei confronti del titolo è ovviamente rivolto verso il compatimento di sé stesso in un’atmosfera che di ludico ha solo il gioco canterino e perfetto della metrica, con il riemergere della vocazione istrionesca, che è tanto cara a Lucente:

La recita ha preso il sopravvento
sulla vera realtà della mia vita
ed il mio cuore ho consegnato al vento.
Adesso anche la recita è finita.

Altrove, rileggiamo il vagheggiamento dell’età dell’oro:

Io mi rifugio sempre nel rumore
di una remota infanzia ormai passata:
voci di un’altra stanza e nel mio cuore
la ninna nanna di un’antica fata.

Aggalla anche il rammarico che oggi non sia più possibile coniugare la vita con la poesia, perché non riusciamo più a stabilire quale sia la dimensione del reale in cui collocare i nostri riferimenti sicuri di quiete e di con­forto, in quanto la televisione e i mezzi di comunicazione ci trasmettono un’immagine del mondo che è artefatta e inaffidabile:

Viviamo in un’epoca surreale,
la realtà raccontata è molto strana
diversa dalla vita quotidiana
che si confonde ed abita lontana.

Lo Stile 7 ritorna al verso libero, in un grande sfolgorio leopardiano di endecasillabi, settenari e quinari, sui temi più cari, tra luminosi e vorticosi ricordi del passato, lamentazioni per il presente povero di attrattive, e previsioni del futuro “corso implacabile” che attende il poeta, anche se non rimane mai domo lo spirito di libertà e di avventura che anima tutta la poesia di Lucente:

Non estingue la sete
a fontane seccate dal sole.
La vista trapassa gli oggetti
invano ne cerca l’essenza.

Lo Stile 8 declina le forme libere e irriguardose della “follia” benigna già elogiata da Erasmo e che in Lucente abbiamo visto come venga connaturata con l’atteggiamento guascone del teatrante, che vive con generosa partecipazione sopra alle righe la vita quotidiana, senza tormentarsi troppo a porsi le ragioni dell’insipienza e insignificanza di ciò che gli uomini compiono – prima fra le altre, si pone la consapevolezza della propria insignificanza – in un rigurgito sartriano di esistenzialismo che da un lato impegna a cercare la libertà, l’indipendenza e l’impegno civile verso il prossimo, ma dall’altro anche sottolinea come ogni azione umana sfuma nel “resto di niente”, cioè in una cenere spenta di fatti e misfatti combusti e consumati, su cui non ha senso cercare le ragioni della ragione. Ma non mancano, in questa visione ma­schia di stoico pessimismo, dei momenti di altissima poesia e di speranza impossibile, come in Fuoco:

Il fuoco
impetuoso
divampa rami di nascosti nidi.
Desiderosa di ardere
una foglia appassita
lo colpisce nel cuore.
Umida e secca
ne degusta l’ardore
s’attarda
poi si accende
per parlare col suono
di crepitii sommessi
come voci lontane.

Conclude la lunga proposta di ricapitolazione in solo nove passi di danza della propria poetica l’ultima sezione, ovviamente denominata Stile 9, la quale è una splendida realizzazione modernissima di canto geopoetico, dove le questioni della poesia non interessano solo la miserabile grandezza e presunzione della civiltà umana, ma riguardano, invece, tutto l’universo, per cui viene mes­sa a fuoco la logica insana di consumazione e di dispersione delle forze e delle energie che lo abitano, la sparizione delle civiltà umane in collettori oscuri e la cattura di ulteriori infiniti mondi, quelli delle galassie stellari, in buchi neri da cui non potranno più uscire, in un fastoso e tragico “resto di niente”, una fiamma di fuoco neroniano che combusta stoltamente ogni forma di essere.

Di parole, di polvere, di suoni
si nutre il vento che smuove le nubi
scuote mari e deserti ed a suo arbitrio
modella le rocce e le montagne.
Ora io di tutto mi sono spogliato
e sono come animale solitario
rifutato dal branco,
la savana mi aspetta desolata.
Desolazione è tutto l’universo
generato da un dio che si è ridotto
ad una particella frantumata.

Ed ancora imbrattiamo fogli bianchi
con queste nostre umane irrilevanze.

La poesia di Natino Lucente giunge a essere perfetta espressione di ricapitolazione e bilancio del lungo percorso di ricerca intrapreso dal poeta, nello sforzo di dare una fisionomia di contenuto e di saggezza all’empito che gli cova dentro, cioè a quell’ineludibile aspirazione di libertà, indipendenza e impegno civile che lo ha portato a vivere la vita con l’atteggiamento istrionico di farne un’opera d’arte, in cui tutta la realtà del mondo potesse confluire per trovare un nesso di significato durevole e il­luminante, ma senza mai giungere ad alcuna verità conclusiva, anzi e al contrario, trovando l’epilogo nella logica suprema dell’inevitabile naufragio, con cui da sempre si perfeziona ogni tentativo di raccogliere il frutto proibito dell’albero della conoscenza.

Sandro Gros-Pietro

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