Introduzione

Leggere i versi di questa raccolta di Ennio Innaurato significa entrare in un’esperienza di vita dai tratti forti e generosi come quelli di un cavaliere medievale, tratti nei quali si intuisce il tormento di un’epoca storica. Ma forse quei tratti sono quelli rappresentati dal Dürer nella sua celebre incisione, cui non a caso fa da riscontro la meditante immagine della Melanconia, disperante che alcuna mathesis universalis possa definitivamente connettere il franto specchio del rea­le. In cambio, Innaurato ebbe il culto della personalità eroica e solitaria, anche affascinato da un raggio me­ridiano di niccianesimo, tuttavia orientato al segno cristiano della figura sacrificale. Anche nell’agone della guerra. Talvolta evocando la figura antica e abruzzese del padre, combattente della Grande guer­ra. E alcune amicizie di lui, segnate dall’esperienza della se­conda delle due guerre mondiali, vissute nella me­moria di un eroismo tragico e sfortunato. Un’eco di questi concetti la troviamo in un lucido epigramma dedicato allo scrittore Mishìma: “Amo la tua morte crudele e virile / Mishìma, da una lama sottile / evocata, la tua breve giornata / giocata tra i libri e la spada.” (pag. 42)
Ora, la raccolta di Innaurato distribuisce la poesia in luoghi che parlano di affetti tenaci e fedeli, di guerra, di contemplazione del mondo sensibile, di architetture di città storiche, di libri e di biblioteche. In realtà, questa poesia è testimone di un combattimento protrattosi fino ai nostri giorni (egli è nato nel 1934) tra il catafratto cavaliere e l’enigma dell’esistenza: ma si tratta di un combattimento della mente, la cui traccia è data dalla scrittura affidata ai volumi che una biblioteca ideale raccoglie, di cui la sua, vasta sì ma casalinga, è solo l’emblema di una sconfitta, l’inesauribile doxastico approssimarsi al mondo delle idee, il deluso tentativo forse anche prometeico: “I libri diceva Leopardi / sono malvisti / li leggono persone tristi / ricercano l’ultimo enigma ignoto a tutti.” (pag. 46)
L’amore di Innaurato per il gioco degli scacchi, tutto intellettuale, in questo trova la sua definizione simbolica: l’enigmaticità e con essa, nuovamente, la fi­gura questa volta bergmaniana del cavaliere: “Con gli scacchi ci si inoltra nel pensare, / sul non detto si regge la partita. / …… / La moira attende la fine della vita.” (pag. 85)
Con gli scacchi, anche i libri e la biblioteca in fondo rappresentano per Innaurato il confine tra l’essere e il nulla, il punto critico più esposto all’eterno nemico, e perciò anche il più ambiguo e insidioso: “La biblioteca quieta / …………………… / mi sta dinnanzi / non ancora dispersa. / Ad ogni ora un angelo le monta la guardia / contro l’ardore delle fiamme e del pensiero.” (pag. 53)
L’ardore delle fiamme richiama un fatto accaduto. Nel 1965 lo studio di Innaurato in via Bogino (uno studio da architetto, e perciò interamente occupato dai libri) andò a fuoco. Ardere può riuscire pericoloso, anche per il pensiero. Solo figure veramente an­geliche vi si possono contrapporre, esorcizzando la minacciosa esposizione. La più ricorrente di queste figure è quella della moglie Loretta, che assume anche i tratti non solo di salvatrice ma di maieuta: “Misterioso a me stesso mi svelasti / con lo sguardo tenero e profondo: / dischiudesti in me un nuovo mondo.” (pag. 28)
Dove colpisce la professione di un mistero di sé, percepito nell’amore che riceve da un’altra creatura, la cara moglie. L’amore genera veramente, non solo in senso metaforico. Non sono rare, nella poesia di Innaurato, espressioni di una sua umana, profonda vulnerabilità. Con Lori l’esorcismo si compie e la terra appare redenta. Angeliche mani operano per difendere il confine tra l’essere e il nulla. “Lori in bell’ordine / ha dato ad ogni libro / il diritto di non essere dimenticato.” (pag. 53)
Il mitico studio di Ennio si erge come le mura di Ilio assediata, difesa dal baluardo della metafisica, su cui si schierano gli eroi dell’essere: Socrate, Tommaso, Boezio, “che inquietano la mente di persone / in faccende concrete / coi loro discorsi su virtù ormai / desuete e sullo stato, che etico non sia.” (pag. 56)
Abbiamo definito la biblioteca emblema di una sconfitta. La sconfitta in fondo è originaria, deriva dal nascere. Siamo, scrive Ennio, ulteriori alla guerra: “Siamo ulteriori ai furori della guerra / una sorte ci serra di improvvisi fulgori.” (pag. 80)
Cioè, si nasce nella sconfitta. Il nascere è erede di morte e la morte accompagna con la sua musica l’intera raccolta fin dai primissimi versi, dedicati alla madre “Quando morì mia madre / il fiume cambiò colore. / Era inverno, avanti Natale; / l’aria tagliente… / ……………………… / Quando morì mia madre / non ci fu più Natale / ma un duro pensiero sul male.” (pag. 23)
e alla sorellina morta nella furia della guerra “Sorella ora mi sei vaga e vicina / intima come può solo chi muore.” (pag. 24)
L’enigma ha certo anche un volto umano e nasce nella fanciullezza lontana e nel suo mito, che platonicamente attesta l’infrangersi di una città ideale, la città giusta, nella rovina, i cui simboli sono ricordi della guerra sulle città bombardate, “La madre ti fasciava mentre i bombardamenti / rendevano frammenti le dimore. / Tra morte e vita… (id.)” e la rima interna enfatizza i significati a marcare una ricorrenza della memoria. Non in modo gratuito ho fatto un richiamo a Platone. Il platonismo è il lungo capitolo della vita di Innaurato, fin dalla prima giovinezza, e poi attraverso la frequentazione di Carlo Mazzantini. Chi scrive ricorda il tempo in cui, nei tardi anni Sessanta, nella gran scatola vuota del pa­lazzo universitario dove insisteva una piccola luce ac­cesa l’anziano professore te­neva libera lezione a uno sparuto drappello di amici. An­cora da studente di architettura, e lui solo, Innaurato ave­va eletto a proprio maestro il professore, seguendone ostinatamente la parola. E Mazzantini, almeno allora, platoneggiava civettando con Heidegger. Inquietudini heideggeriane con mediterranee luminosità, apertesi queste ultime anche attraverso la parola di Guzzo: una dialettica che si addiceva al combattimento con l’enigma, “alla cerca del Dio nascosto / nella caligine oscura.” (pag. 26) dove l’enigma poteva esprimere anche la verticalità elicoidale e abissale della teologia dionisiana. Nel tempo, cioè, in cui accanto all’errante e chiaroscurale monologo del filosofo Mazzantini, la natura di Innaurato irrequieta tormentata dal mistero della vita cercava la propria emendatio intellectus nel padre domenicano Pera. Immenso teologo, famigliare dei Padri della Chiesa d’oriente e dell’intera parabola filosofico-religiosa del platonismo, Ceslao Pera aveva commentato i “Nomi divini” dell’Areopagita. Ennio ne era affascinato e ne fece una frequentazione assidua, di un’intera vita.

Certo, questa frequentazione ebbe anche un ruolo di esorcismo, specialmente nei confronti della tentazione gnostica sempre vinta e sempre seducente per uno spirito come il suo che sentiva la carne come una bellezza originariamente ferita. O forse, attraverso la carne, l’origine di una ferita dello spirito. Come quando la malattia recente della moglie Loretta gli strappa versi intensi e strazianti: “Un ombrellino nel cuore di Lori / mi dice il dottore, / vedrà chiuderà un passaggio / (ci vuole coraggio per dio) / io medito quel varco di carne. / Quasi un’occulta ferita / pel quale passa la vita sua e la mia.” (pag. 29) Famigliare di Mazzantini, come si è detto, Innaurato ne apprese anche la musa filosofica di Eraclito, i cui aforismi tradotti dal maestro ne restituivano la scrittura enigmatica. La tensione oracolare vi traspare in una lirica notevole dedicata al mito di Edipo, che si acceca per punire i suoi occhi che hanno visto troppo. Ma il soggetto ora è lui, il poeta Innaurato che cerca pertanto di difendersi, “Non accecarlo non è Edipo / solo un dolore diffuso / che interdica l’apprendere / e l’indagare oltre le colonne. / La luce gli sia nemica, / ne abbia la fobia.” (pag. 40) Il richiamo a Edipo non è gratuito. Innaurato ebbe veramente dal “dio” un male agli occhi che gli rese, negli anni, quasi impossibile la prolungata lettura. E un’altra lirica, che ha la rapida e ironica circolarità dell’epigramma, dà un’analoga spiegazione: la turpis curiositas. “Un dio verrà a velarti lo sguardo / nel ritardo della tua vita / ed un medico cercherà sulla retina / le ultime parole impresse / dalle spesse lenti lucenti. / Lei ha letto abbastanza, / forse era una turpis curiositas / si plachi, apprezzi la tenebra / della sua fronte, / forse un dio si cela ancora da incontrare.” (pag. 51)
La turpis curiositas era motivo legato alla mistica monastica di San Bernardo, con cui Innaurato venne a contatto. Essa prende le distanze dal sapere inteso come amor sui. E qui è notevole il richiamo al Dio nascosto e ai temi della teologia dionisiaca. Ma il motivo dell’interdizione gli viene da una profonda sensibilità classica, acquisita specialmente attraverso l’esperienza artistica e come studioso e professore di composizione architettonica al Politecnico di Torino. Questo lo fece sempre diffidare dello streben romantico, che pure costituiva un lato importante della sua umanità.

Infatti fin da giovane Innaurato conobbe e frequentò gli ambienti artistici torinesi, alimentando il proprio interesse dapprima per la pittura moderna e i movimenti delle avanguardie. Aveva letto con interesse Evola, che come pittore ebbe parte nel dadaismo italiano. Il distacco da Evola, che avvenne in seguito all’incontro con il padre Pera, non diminuì questa propensione, anche se nutrì in lui nuovi orizzonti legati alla metafisica, come la sua dedizione all’arte e all’architettura barocca, di cui studiò a fondo i problemi della luce.

In particolare fu in contatto con l’ambiente di Casorati, del quale fa memoria di un dipinto: “Sul tavolo una scodella, / di quelle di Casorati, / vuota rimane a giacere sulla tovaglia cerata. / Una figura piegata, / le mani sotto il mento, / lo sguardo prolungato sui legni del pavimento.” (pag. 38)
Versatile per l’irrequieta indagine del suo enigma, Innaurato fin da giovane riversò nel poetare non tanto i suoi sentimenti, quanto l’assidua opera di ricostruzione di un mondo uscito distrutto, prima che dalle distruzioni belliche, da quelle del pensiero moderno. Un titolo che forse lo ha sempre accompagnato, nel suo lungo cammino interiore, è Gli uomini e le rovine, testimonianza di un eroismo tragico. La sua poesia mira a ricostruire, e questo lo si vede anche dalla forma dei suoi versi, sempre lucidi, concisi, solidamente appoggiati sui sostantivi, in ordine piano e semplice, mai alla ricerca dell’effetto, semmai indulgendo talvolta alla reminiscenza nobilmente retorica: “Poetare, ultima risorsa / di una stirpe dispersa ormai senza nome.” (pag. 52)
Questa, per così dire, poetica consapevolezza del poetare ripeteva la rivelazione del morente Socrate, cui in sogno venne detto: Socrate, componi! “Poetare è atto solitario / innato, non da rimario. / Nasce da vene di antichi padri, / antenati infinite volte mormorati…” (id.)
Il senso della tradizione è sentito da Innaurato in modo religioso e questo non era l’ultimo motivo che gli fece ritrovare un cattolicesimo che aveva conosciuto bambino, nella memoria leggendaria della sua nonna inginocchiata in preghiera. La poesia è vissuta anche come esercizio di purificazione di sé, “Col tempo il poetare (ma è poi questo?) / si fa più scarno e più tagliente: / un filo di rasoio della mente.” (pag. 57) dove il filo di rasoio occamista annuncia, nella parentetica, una poetica interiore, che si configura con ironia forse polemica attraverso quel progetto di ricostruzione che è stata, per sé e per i suoi amici da lui pazientemente educati, la vita di Ennio Innaurato: un maestro. Fu in tale progetto che egli comprese il senso del cattolicesimo, ricomponendo l’antico stoicismo in pietas cristiana. “Tra le mura pur si annidano / umili erbe e fiori poco amati / … / si inoltrano silenziosi nel mortale asfalto / ne aprono ferite bluastre / per avvertire del male celato / a noi nemico.” (pag. 75)
Ma la ricostruzione di un ordine ideale non è un esercizio indolore. Confessava spesso d’avere sofferto per apprendere l’arte del costruire architettonico: la reticenza dei maestri, la loro implacabile insoddisfazione, il greve venale utilitarismo di molti, così Innaurato riconosce nel suo bisogno di poetare la necessità di mettere a nudo una ferita. Il suo espressionismo: “Da tempo non scrivo versi: / i tempi sono diversi, / ci vuole una ferita / per dare sangue all’inchiostro.” (pag. 60) dove dunque l’iniziale immagine düreriana giunge a specchiarsi in quella della crocifissione: “e ti venne incontro il mondo nerastro” (pag. 39) che si fa davvero sanguinante e struggente allorché si misura con la prova suprema dell’esistenza, il rischio estremo del Distacco: “La minaccia della malattia / ti fa più vera, più preziosa / non si osa neppure una preghiera.” (pag. 25) e dubbio e speranza incrociano le loro armi nell’ultima battaglia per l’essere: “Ricorderai ancora le strette della vita, / assieme questo ci appartiene / seme fecondo per la dipartita / non certa ma possibile sempre / su un’erta del divino.” (id.)
Fra le cento poesie che testimoniano il viaggio interiore di Innaurato, ve n’è una che vorrei porre come epigrafe conclusiva alla presentazione di questa raccolta. L’amicizia ha ispirato tutte le espressioni della sua anima, dagli affetti intimi alla passione intellettuale. Essa esprime al più alto grado il senso ideale della sua vita e dell’ordine etico-metafisico a cui ha sempre mirato: “Amico chi si batté al tuo fianco / e ti parò il colpo e caduto disse: / non temo di morire. // Chi ti additò un maestro, non se stesso, / e nel tempo mortale attese il tuo ritorno. // Chi ti amò nel pensiero solitario / e nella malattia profonda. / Chi penserà per te una poesia abbrunata.” (pag. 34)

Marcello Croce

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