Postfazione

Paola Novaria non esordisce di certo con quest’opera: da tempo è una significativa presenza nel contesto della vera, alta poesia dei nostri giorni, e lo intuisce facilmente anche chi, pur non conoscendo le sue precedenti pubblicazioni, capta d’istinto l’evidente, consolidato ‘me­stiere’ ben leggibile tra le righe del­l’Habeas corpus che avete appena gustato.
Chi, invece, abbia seguito l’intero percorso poetico dell’autrice, non si limita a trovare conferma, qui, del denso substrato culturale che le è proprio, del classicismo rivisitato spontaneamente, ma con misurata sapienza, che affiora dalle sue liriche. Chi conosce la totalità dell’opera, insomma, riafferra anche in questa silloge il capo di un fil rouge che tutte le affratella, pur lasciando ad ogni compendio un’autonomia vuoi tematica, vuoi ‘umorale’, che ne sottolinea via via l’emancipata diversità.
Ma l’arte più intensa, più struggente di queste poesie sta nell’evidenza di quanto possa agire sul lettore il potere terapeutico, se non taumaturgico, della Parola; a maggior ragione quando è gestita con la capacità letterariamente rigorosa eppure incantatrice di Paola Novaria.
Se per l’autrice pare a volte ineludibile il premere della sofferenza sull’anima, lo struggente affacciarsi del rimpianto per il mai avvenuto, la tormentosa scelta d’un epilogo troppo a lungo rinviato, il sentire di chi legge viene come mondato dell’aspetto più ombroso proprio grazie all’energia catartica della Parola-Poesia che illumina le liriche di Paola.
Dalla prima parte del ‘racconto lirico’ usciamo, quindi, partecipi del patimento eppure confortati dalle bellezza espressiva grazie alla quale anche il buio più fitto può essere rischiarato e, proseguendo nella lettura, ecco che si avverte l’alito di una fiducia nascente: “Manto in inverno / Parimente lucente / ho braccia aperte”.
I versi successivi sembrano segnare il passaggio dalla dominante, chiusa introspezione ad una fuga verso la ‘licenza di vivere’, salvacondotto che offre all’autrice la Natura, ricca com’è d’inesauribili stupori. Allargano lo spiraglio non la natura soltanto, ma la sortita fuori porta, una volpe, il gatto, un brindisi e il cibo, un treno e il cortile di casa: sono porzioni di concretezza che s’impongono a diluire l’immaterialità del pathos e dar sollievo all’anima.
Una nota ancora merita, a mio avviso, il Matronimico di chiusura, perché i melensi luoghi comuni spesi, in letteratura, attorno all’affezione filiale sono anche troppi. Novaria ne accenna invece con fiera discrezione, marcando l’analogia tra due destini assai diversi; e non si tratta di un ossimoro. Ciascuna percorrendo l’unicità della propria storia, madre e figlia s’incontrano nell’orgoglio di essere don­ne forti, risolute: e nel coraggio del loro esistere, possono amarsi con onesta pienezza senza dover mai ricorrere nella banalità delle frasi fatte.

Anna Antolisei

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