PREFAZIONE di Lionello Sozzi a Opera poetica di Emanuele Occelli (1997)

“L’effacement soit ma façon de resplendir”
Philippe Jaccottet

I versi qui raccolti non costituiscono, nel senso proprio del termine, un’“antologia” della poesia di Emanuele Occelli: blocchi interi, infatti, delle sue composizioni, ad esempio i “poemetti” o i Canti esistenziali, sono qui riprodotti integralmente, mentre della sua precedente produzione l’autore ha trascelto determinati testi non solo in base a criteri di riuscita poetica, ma anche per farci cogliere i sotterranei precorrimenti, ad esempio riproponendoci una sua lirica giovanile, Piogge, che già annunzia il suo gusto per la poesia in qualche modo ciclica, legata cioè all’avvicendarsi dei tempi, delle stagioni, dei fenomeni naturali ed anche, ovviamente, delle loro risonanze interiori. Per di più, questa produzione è sistemata, con lievi varianti verbali, di metro o di punteggiatura, in sezioni nuove, in nuovi raggruppamenti, che solo in parte coincidono coi titoli dei precedenti volumi: così, troviamo ancora, come titolo di sezione, L’acqua del Lete, ma non troviamo più il vecchio titolo, Catalogo d’ombra, che pure aveva una sua efficacia per quell’alludere a un tema in realtà onnipresente, come meglio vedremo, nella lirica di Occelli: quello appunto dell’ombra, ma di un’ombra che è luce e interiore ricchezza.
Quest’Opera poetica consente di tracciare un percorso, di fissare le linee di un poetico svolgimento ed anche, forse, di intendere i modi esemplari di una formazione. Occelli si è abbeverato a molte fonti, è un raffinato esperto della poesia europea anzi mondiale del Novecento, è stato sensibile a varie suggestioni, ma soprattutto ha maturato per vie sue un’esperienza creativa intensa, complessa, specie sul piano delle forme del dire, delle tecniche espressive. Grosso modo possiamo indicare tre momenti. Il primo è quello delle liriche giovanili, quelle di cui è importante testimonianza quel volumetto, Prime liriche, del 1955, in cui il poeta non ancora trentenne sperimenta la sua vena e il suo linguaggio con esiti, a volte, già quasi perfetti (ad esempio Piogge, cui prima accennavamo). Segue a quella prima raccolta un periodo di silenzio: il volume successivo è solo del 1980 (Con inutili fiori tra le dita) e raccoglie versi che solo in parte risalgono alla fine degli anni Sessanta. Da allora, la vena di Occelli è stata ininterrotta, ha conosciuto solo un anno di silenzio, il 1989, ma in compenso nell’86 ben due volumi hanno visto la luce, Le bianche le teneramente soffici mani e Nel cerchio del bersaglio, due titoli che sono rimasti, a designare le due prime sezioni di quest’Opera poetica. All’interno, per altro, di questo secondo e più ampio arco della creazione occelliana, si distinguono due momenti diversi, il primo più legato anche ritmicamente alla produzione più giovanile, mentre il secondo sperimenta metri nuovi e in particolare è caratterizzato dal distendersi dell’ispirazione in ampi e abbondanti ritmi espressivi: un secondo momento che inizia quasi ufficialmente coi “poemetti” dell’82, ma le cui avvisaglie già si colgono in liriche come L’oblio, che per altro, in questo volume, è forse l’unica non datata.
Dicevo dei modelli e delle fonti. Le epigrafi che il poeta premette alle sue varie sezioni già sono indicative di un orientamento e di un gusto. Gli autori privilegiati ci riconducono, infatti, ora a quell’idealismo romantico (Novalis) che è forse, per Occelli, la più lontana scaturigine della sua ispirazione, ora ad alcune voci altissime della poesia del Novecento, insieme spregiudicate e fedeli al “sublime” di precedenti stagioni (Apollinaire, Eliot, Pound, Neruda), ora ad altre voci meno eminenti e tuttavia di struggente pienezza lirica (Aleixandre, Hikmet), e infine all’Ecclesiaste, col suo intreccio di amaro disincanto e di amore della vita: un rinvio non casuale, que­st’ultimo, che conferisce a una poesia apparentemente così legata alle passioni del mondo, un alto respiro spirituale e quasi un brivido religioso.
Un’altra osservazione può farsi: essa riguarda l’assenza, tra i citati rinvii, di nomi italiani. Vuol dire che Occelli rifiuta le premesse italiane, che sceglie l’aggancio esclusivo con modelli stranieri? In realtà, a parte l’ovvio argomento che la poesia non ha confini e ignora il senso della parola “straniero”, degli echi “italiani” non di rado si lasciano cogliere nei versi di Occelli: una volta ad esempio essi fanno pensare a Quasimodo (cfr. p. 33: “Quando torno tra la gente / nessuno / Sa leggermi addosso / Quale lunga agonia ho rinnovato”, che può ricordare Vento a Tindari), un’altra volta a Ungaretti (cfr. p. 79: “… talvolta si muore vivendo”, che ricorda i versi finali di Sono una creatura: “La morte / si sconta / vivendo”), altre volte a Pavese (cfr. p. 64: “Sarà una sera d’estate”, e p. 91: “Tu sei la mia pietra. / Tu resti, tu duri. Sei come / L’alba …”, versi che rimandano rispettivamente all’inizio di Passerò per Piazza di Spagna: “Sarà un cielo chiaro…”, e all’inizio di un’altra nota lirica di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: “Hai viso di pietra scolpita…”), talvolta anche a Montale (cfr. l’attacco di La campana sommersa: “Improvvisamente, il vuoto. L’inganno / Dell’anima protesa all’ascolto. La vertigine”, che sembra rinviare a “Forse un mattino andando…”, inizio di una nota lirica di Ossi di seppia). E si potrebbe continuare: le liriche che trattano in modo ricorrente il tema della pioggia rinviano, ad esempio, da un lato a Verlaine ma dall’altro, ovviamente, a D’Annunzio. Nell’insieme, per altro, tali premesse sono effettivamente di scarso rilievo: il discorso lirico di Occelli, così sanguigno, così corposo, così espressionistico, sembra aver percorso altre vie che non quelle imposte dall’ermetismo nostrano ed aver trovato le sue sorgenti, appunto, in modelli espressivi provenienti da altri orizzonti. Perché è questo ciò che colpisce, nella lirica di Occelli: al di là dei temi, che sono poi i temi eterni dell’umana esistenza, la gioia di vivere e l’angoscia del morire, e poi la memoria, il sogno, l’immancabile avvicendarsi di passioni e rimpianti, di disincanti e di illusioni, al di là, dicevamo, di questo magma tematico scandagliato in tutte le sue variegate componenti, colpiscono nel “canzoniere” di Occelli il turbinio delle immagini, l’onda fluente di un’ispirazione proliferante, quella che finisce poi con l’assestarsi, nella produzione più recente, nell’ampio giro di quei “versi lunghi” che costituiscono, secondo un critico come Giuseppe Conte, il suo approdo più personale, la “conquista della sua ricerca solitaria”. In questa nuova temperie, la musicalità di Occelli si è fatta più scaltra e agguerrita, la sua ricerca insieme più vasta e più sottile, il verso si è disteso nel suo alveo naturale, ha trovato il suo vasto e generoso fluire, come se i ruscelli di un tempo avessero convogliato le loro acque in un più turgido ed ondoso fiume.
Ma torniamo ai temi. Fermando in particolare la nostra attenzione sui poemetti della più recente stagione poetica (i Canti d’un anno, Le cinque stagioni, i Canti esistenziali, L’albergo dei morti), noteremo che i titoli stessi chiariscono la materia: il variare dei mesi, i colori delle stagioni della vita, l’idea ossessiva della morte, i dati della quotidianità: pioggia e malinconia, solitudine e chiarore lunare, antiche dimore, umili abiti e logori oggetti. In realtà, Occelli sceglie questa tematica apparentemente scontata proprio per discostarsi, in maniera quasi provocatoria, sia dai modelli del descrittivismo naturalistico di marca ottocentesca, sia dall’ambizione retorica dei grandi romantici e dei decadenti, sia dal languido idoleggiamento crepuscolare. I mesi dell’anno, le cinque stagioni, le situazioni esistenziali sono di fatto l’occasione per sperimentare un nuovo, vibrante ed ampio discorso poetico, tutto giocato sull’avvicendarsi delle immagini, sul susseguirsi dei versi entro il respiro e il ritmo di una sorvegliata musicalità, e infine sul disporsi di tale materia e di tali effetti armonici nell’onda dilatata e diffusa del poemetto, il nuovo genere, così inusitato ai nostri tempi (per ritrovarne degli esempi occorre forse risalire al D’Annunzio ed al Pascoli), che Occelli trova ormai più congeniale con le sue ultime pulsioni inventive.
Il discorso lirico di Occelli è un discorso strenuamente metaforico. Tutta la poesia è metafora, si sa, ma la novità di Occelli consiste nel disporsi fluente di ghirlande di immagini, anzi nel loro vibrante accavallarsi e sovrapporsi. La tecnica è quella dell’enumerazione (cfr. ad esempio l’attacco del Canto di gennaio), ma si badi, non si tratta mai di aridi elenchi: è come se da ogni immagine, per analogia o contiguità, ne sprizzasse fuori un’altra, e poi un’altra e un’altra ancora: si è in presenza di un crescere del discorso metaforico su se stesso, quasi che il verso, anzi l’intera composizione lirica, volesse risolversi in una summa, in un totale inventario, in un eloquente “catalogo” (per riprendere un vecchio titolo già citato), insomma in una sintesi dei dati eterni del mondo.
Quel titolo, come già si è visto, era “catalogo d’ombra”. Es­so racchiudeva sia l’allusione al complessivo inventario, sia quell’idea di “ombra” che è onnipresente nelle poesie di Emanuele Occelli: leggiamo, sfogliando a caso: “viso d’ombra”, “muro d’ombra”, “lama d’ombra”, “soste d’ombra”, “pi­nete d’ombra”, “spume d’ombra”, “cerchio d’ombra”. Om­bra, cioè fondi abissi dell’animo, spazi segreti, scure terre infrequentate che racchiudono verità assolute, sedimentazioni di memoria, luminose certezze, quasi ombra della coscienza che vuol tradursi in luce di poesia. L’ultima immagine, “cerchio d’ombra”, vuol dire circolarità, esauriente registrazione ed assunzione dei dati più nascosti dell’io, trasferimento di un magma informe dalla sfera oscura della memoria e del pensiero alla limpida forma del discorso poetico. Occelli potrebbe far suo il verso di Jaccottet che lui ben conosce e che gli dedichiamo in epigrafe.
Mai Emanuele Occelli si abbandona al suo estro con la semplice casualità che governava le “parole in libertà” dei futuristi o col cerebrale impegno cui si ispirava la “scrittura automatica” dei surrealisti. Si prenda ad esempio l’Ode alla malinconia, un titolo che si richiama, è evidente, a quello identico di Keats: ricorrendo a comparazioni d’ordine musicale che certo Occelli, eccellente pianista e professore al Conservatorio, non sdegnerebbe, si può dire che vi si possono distinguere, come in una sonata, almeno tre movimenti: un “appassionato” iniziale, tenera evocazione di memorie d’infanzia, poi una pausa più lenta, più sostenuta, più grave, quasi l’“andante” o l’“adagio” di una meditata introspezione, infine un “presto con fuoco” in cui l’angoscia iniziale si traduce in un linguaggio diverso, insieme ardente e disincantato, amaro e alleggerito dall’ironia, altra arma espressiva di cui Occelli conosce bene il congegno pur se ne fa, ricordandosi dell’avvertimento di Rilke, un ben parco uso. Struttura sapiente, dunque, che nulla ha però dell’impalcatura razionale, dell’impostazione accademica. Struttura in cui fra l’altro sono le scelte verbali, dei tempi verbali intendiamo dire, a far avvertire i trapassi e l’interno movimento: l’evocazione nostalgica si di­stende nel ritmo dell’imperfetto iterativo (“tubavano… ve­gliava… sgorgava…”), il racconto di più recenti stagioni ri­corre al passato prossimo, tempo delle certezze (“ho usato… Mi sono dissetato… ho ritrovata…”), e infine la situazione attuale non può tradursi che nella chiarezza dura e tagliente del tempo presente (“incide… lampeggia… permane…”).
Ma l’andamento tematico è poi mediato, si diceva, dal turbinio delle immagini, dalla proliferazione metaforica e dagli effetti d’intensa musicalità. Fermiamoci all’analisi dell’ode già citata, che scegliamo come campione di un’Opera poetica insieme differenziata (specie nel suo percorso cronologico) e saldamente unitaria. Notiamo che le similitudini e le metafore si susseguono e si amplificano soprattutto nel secondo movimento: la malinconia è un bicchiere colmo lasciato sul tavolo, è una sedia ripiegata sulla spiaggia, è un vuoto ombrellone, immagini di vana attesa, o di abbandono, o di una vita non goduta, che fanno della malinconia la voce di un desiderio di assoluto sempre inappagato e lacerante. Ma poi si scopre che la malinconia è anche un dolce liquore, una bevanda che disseta, e qui di nuovo la memoria si accende ed altre immagini scaturiscono, ad evocare luoghi e volti del passato. La malinconia riassume così il passato e il presente, è ansia metafisica e nostalgia di un paradiso perduto.
Ma il lettore è catturato dall’onda lirica di Occelli non solo per effetto di questo dovizioso materiale verbale: le sue parole non occupano mai casualmente il loro posto nel ritmo ampio del verso, assonanze ed effetti d’armonia confermano e quasi sottolineano la lezione tematica. Il verso, pur senza corrispondere a un metro preciso, ha un’ampia arcatura (che può raggiungere e superare le venti sillabe), di solito con un paio di cesure che gli danno un respiro ternario, ma può anche alternarsi a quest’ampio giro un ritmo più breve, scomponibile a volte in un endecasillabo più un settenario, nei metri cioè che Occelli praticava più frequentemente nella sua prima stagione. Si hanno, allora, effetti poetici di particolare intensità, forse perché all’onda prorompente e personalissima dei versi più ampi segue il ritmo convincente di misure più note, familiari per il lettore, e quindi suadenti, di incomparabile dolcezza e soavità.
Sapienza e pluralità prosodica di Occelli, dunque, cui si accompagna la musicalità delle assonanze, delle allitterazioni, delle riprese, delle anafore, delle rime interne, specie in principio o in fine di verso, quelle che i rhétoriqueurs chiamavano rime “annesse”, o “imperiali”, o “coronate”. Non vorremmo però, con questi scolastici riferimenti, dare un’idea sbagliata di una poesia che non cade mai, in realtà, nel tecnicismo o nel virtuosismo: insistiamo su questa strenua padronanza degli strumenti e del “mestiere” per sottolineare, semplicemente, la tensione di Occelli verso un “alto stile”, verso un sublime espressivo che non esclude, ben s’intende, i richiami tematici all’umile, al quotidiano, al dimesso: anche l’umile e il dimesso, si sa, possono avere la loro epica grandezza, e in proposito potranno leggersi con profitto sia alcune odi (ad esempio l’Ode agli abiti), sia tutti quei versi in cui affiorano gli affetti familiari e i ricordi dell’infanzia: il vecchio cortile, il pergolato, il balcone, la nonna tra i fiori. A chi pensa che la poesia possa risolversi, oggi, solo in un discorso ironico e scherzoso, a chi la riduce a banale, prosaica e referenziale comunicazione oppure a cronaca quotidiana ed a polemica socio-politica, Occelli ricorda che la poesia è sollecitazione che va nel profondo, che il suo linguaggio è a sé, che è tutt’altra cosa, cioè, rispetto al dire di tutti i giorni. Il poeta può anche essere “ilare” (così lo stesso Occelli ama definirsi), può anche, con ironia gozzaniana, parlare della sua anima (L’anima) come di una pazza e buffa giostra. Quella giostra, però, può anche fermarsi, esser colta da un’ansia di morte. Il poeta, insomma, non può limitarsi a “divertire” i suoi lettori. Divertire, etimologicamente, vuol dire distogliere, volgere altrove. Il poeta, invece, non distoglie ma, al contrario, vigila, perché il mondo smemorato e distratto in cui oggi viviamo non dimentichi i valori assoluti, né dimentichi quella ricerca della verità e quel senso inquietante del mistero di cui i versi di Occelli sono ansiosa testimonianza. Rimane nella fantasia del lettore quell’immagine del cavallo “nell’aria vibrante di luglio, […] assetato d’orizzonte impalpabile” (Canto di luglio). Occelli sa calare in misure e cadenze perfettamente dominate la sua materia umana, tumultuosa e doviziosa, dolente e fremente, tenera e nostalgica, sensuale e immateriale, tormentata perché assetata d’infinito: ed è qui, in questa sintesi, il suo pregio più autentico, quello che conferisce alla sua poesia, nel panorama contemporaneo, un posto sicuro e un indiscusso prestigio.

Lionello Sozzi

Anno Edizione

Autore

Collana