PREFAZIONE

“Chi senza follia delle Muse si avvicina alla Poesia, convinto di diventare poeta per averne acquisito la tecnica, inutile è a lui la sua arte, perché di fronte alla poesia dei folli la poesia ottenebrata dal saggio scompare”, lo scrive Fedro, e lo deriva da Eso­po come gran parte dell’arte sua. Va aggiunto che lo stesso Platone definisce “divina follia” l’arte so­praffina dei poeti, che non consiste in una divinazione, ma in un canto enunciativo delle motivazioni e degli sviluppi delle vicende umane osservate al di sopra dell’erosione del tempo, nella dimensione di un’epoca primordiale nella quale ancora non abbia preso il sopravvento la ruggine del quotidiano. Una sorta di età dell’oro, elemento inattaccabile dalla corruzione disgregatrice del tempo. Per raggiungere lo stadio del canto inossidabile il poeta deve liberarsi della nozione persistente e dannatissima del suo io e allo stesso tempo dall’ansia del quotidiano, cioè dal­la catena del consumo a perdere del tempo, tipica del­la modernità. Il poeta deve imparare “a guardare al di sopra”, ciò che i greci definivano l’epopteia. Non osservare sé stesso e ignorare il quotidiano si­gnifica non interessarsi ai fenomeni transitori della realtà: in altre parole essere cieco. Ed ecco che Ome­ro, simbolo della poesia dell’intero Occidente, è cie­co perché guarda sopra le cose. L’invocazione di Ome­ro rivolta alle Muse consiste nella richiesta delle vicende da raccontare. Omero certamente non richiede alle Muse la tecnica poetica con cui raccontarle, perché l’arte di scrivere poesia è uno strumento uma­no di poco conto, tale che non possiede la divina follia di cui parla Platone. Al contrario, la vicenda per an­tonomasia, quella che per Nietzsche è un eterno ritorno, quella sì che è una follia, e che diviene anche hibrys, impeto di ribellione e di rivolta, sogno utopico, sopra realtà, surrealismo, futurismo, imagismo, vorticismo, astrattismo. Nella temperie dei secoli la follia dei poeti ha varato diverse navi d’Argo con cui Giasone e gli argonauti – metafora dei Poeti – solcano i mari e proiettano la loro ombra sulla divinità, cioè su Nettuno, che osserva le navi dall’imo de l’Oceáno. E poiché la follia del poeta non è una condizione stabile, ma un’illuminazione episodica, la condizione del poeta diviene traiettoria ellittica di rotazione intorno ai due fuochi che sono egregiamente espressi da Piero Ferrari nel sogno e nella verità, co­me indicato nella poesia A me stesso. Quest’ultima è una traslitterazione poetica dai Canti di Leopardi, intonati alla condizione dell’Io-Poeta, cioè alla scelta orfica del tradimento della Poesia, consistente nell’abbraccio di Orfeo verso il sogno, tale da tradire Euridice-Poesia e perderla nell’Ade. Mirabilmente la conclusione collima in una nozione comune di va­cuità dei risultati: Una mescolanza strana / di so­gno e verità diviene per Piero Ferrari, mentre sappiamo che l’approdo nichilistico di Leopardi conduce al­l’infinita vanità del tutto, dopo l’excursus d’amarissimi casi ordine immenso, che ritroviamo in­vece nell’Inno ai Patriarchi. Il tradimento di Orfeo, nei confronti dell’epica omerica, quindi dell’età del­l’oro, sta nel vivere il sogno come verità alternativa costruita dalla poesia. Euridice può sopravvivere a tale tradimento? Nel mito, Euridice muore, perché non può esserci poesia al di fuori dell’epica. La poesia moderna, invece, riscatta con Rimbaud il mito del poeta veggente, che attraverso la costruzione del suo linguaggio babelico riesce meglio di altri a dire il vero, fino al punto di avvicinarsi all’ineffabile.
Piero Ferrari ha costruito un percorso denso, meditato, poliedrico e propositivo di poesia sottesa ai due fuochi del sogno e del vero, a loro volta assunti come coordinate di ogni punto del viaggio di Argo. Tuttavia, bisogna cambiare anche il nome della nave, perché tutto è mutato ma tutto è rimasto uguale a pri­ma. Quindi, siamo di fronte al paradosso della nave di Teseo, tanto amato da Umberto Eco e da Elisabetta Sgarbi, fino al punto di fondare una casa editrice di letteratura e saggistica in onore del paradosso rappresentato dalla nave: cambiando negli anni ogni pezzo della nave, seppure sempre rifacendolo con lo stesso progetto, possiamo ancora dire che la nave sia uguale a quella originaria? Così una poesia che, sino dalle sue origini, si è posta il problema di essere epopteia, cioè una visione al di sopra, può ancora essere considerata la stessa nave, ora che les affaires litteraires, e i linguaggi, e le tecniche, e gli orientamenti, e gli sco­pi, con cui si fa la nave – cioè, per rimanere in me­tafora, con cui si fa Euridice-Poesia – sono stati totalmente rifatti: la poesia è ancora la stessa?
Soli al tramonto già nel titolo esprime una irrisolvibile polivalenza di significazioni e di possibilità, perché la luce del tramonto è in tutto uguale a quella dell’alba e perché il vocabolo “soli” demanda sia al significato del sostantivo per indicare gli astri ce­lesti, fonte di luce, sia demanda al significato del­l’aggettivo, sinonimo di solitario. Inoltre, il vocabolo tramonto in poesia rappresenta sovente la metafora di una rendicontazione conclusiva relativa a un periodo o una esperienza.
Il merito di Ferrari consiste nel sapere smazzare le carte segrete della poesia, conoscere i giochi, gli obiettivi e sapere tagliare le combinazioni. Il suo stile consiste nella ricerca continua delle variazioni, nella modificazione, nell’abbandono dei minuetti al­la moda della poesia salottiera contemporanea, fatta di sentenziosi accomodamenti sulla seriosità perbenistica del labor limae e della citazione camuffata in falsetto, in un gioco di specchiature dirimpettaie tra au­tori che si sostengono a vicenda nel vuoto delle lo­ro parole inutili. La sua poesia si presenta, invece, co­me una voce di fondamento: è la testimonianza della fragilità indifesa e indifendibile della poesia, ma mirabilmente sa anche essere, al tem­po stes­so, un esempio concreto dell’immarcescibile ca­pacità di du­rata della parola poetica, la dimostrazione di spessore, di impulso e di forza vitale, perché ripropone le forme armoniose e dense della tradizione, richiama con fascino la dolcezza ammaliante del sogno e lo mette a confronto ossimorico con la crudezza nuda del vero, in un rapporto che è disperatamente illuminato da una luce eccelsa di utopia e di verità.

Sandro Gros-Pietro

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