PREFAZIONE

La Poesia di Walter Chiappelli fluisce come fiu­me che scorre inesauribile sempre nuovo e contemporaneamente sempre uguale a sé stesso: at­traverso la temperie degli anni e delle occasioni sia gioiose sia dolorose, la lirica di Chiappelli rinnova lo stupore e l’ammirazione per la creazione della vita. Nella sostanza è un canto primordiale. Se dovessimo immaginare il nostro antico progenitore Adamo con accanto la sua compagna e spo­sa Eva, senza altri sopraggiunti diversivi creati dal­la cultura degli uomini dopo la cacciata dal paradiso terrestre – le lotte per il potere, le lusinghe dell’arte, la dedizione agli intrattenimenti ludici e/o sportivi – penseremmo alla purezza di un canto lirico completamente racchiuso e conchiuso nella contemplazione stupita e commossa della creazione del cosmo, all’interno del quale la vita biologica rappresenta l’acme dell’azione divina. Precisamente in tale lode, stupita e accorata, consiste il canto di Chiappelli: la contemplazione dell’opera incredibile e ineguagliabile del grande demiurgo.
Walter Chiappelli va all’origine della poesia. Ai suoi occhi serve a poco citare Omero o Virgilio, Callimaco o Orazio, Dante o Shakespeare, Blake o Coleridge e via di seguito, quando c’è da riempirsi gli occhi e l’anima con lo stupore per l’universo intero. L’immensità della creazione raggiunge la sua punta più alta e miracolosa nella creazione della levità e della coscienza di ogni cosa che possiede la vita.
La vita è il grande tema del canto di Walter Chiappelli. Dunque, si tratta di un canto rivolto a tutto ciò che, all’interno della creazione, è dotato di una sua autogena capacità di movimento: ciò che si muove per suo libero arbitrio, per sua autonoma scelta. Dal più insignificante degli esseri viventi al più complesso genio umano, il miracolo del movimento autonomo, nella sua fatuità effimera di breve durata, esprime la potenza di una creazione eccelsa che raggiunge sempre e comunque il miracolo. È miracoloso l’infinitesimale microbo al pari del meraviglioso corpo umano: si tratta sempre del movimento autonomo della vita sulla materia inerte circostante.
La contemplazione della vita riempie il cuore di letizia e di gioia. Poiché la vita è comunque un miracolo lieve che spezza l’inerzia gravosa della materia, la sua durata è effimera: essa si accende e si spegne come il pulsare delle lucciole nelle notti estive in campagna. Così la vita diviene continuo pulsare di luce e di tenebra o se si preferisce un alternarsi interminabile tra gioia e dolore. Ec­co, allora la piena consapevolezza del Poeta che sa di dovere bere allo stesso calice sia il nettare della vita sia la cicuta della morte, con uguale sorriso e arresa accettazione, con identica grazia, perché questa è la legge imposta al trionfo lieve della vita sull’immanenza della materia. Tutti noi che apparteniamo alla vita e che abbiamo ricevuto il miracoloso dono di poterci muovere autonomamente nell’universo creato: noi andiamo e venia­mo come onde del mare sul bagnasciuga dell’approdo e quantunque grande sia il segno da noi lasciato sull’arenile, qual che sia il prodigio di potere o l’elevatezza di ingegno che abbiamo eretto, qual sia l’impero esercitato sugli altri uomini ovvero qual sia l’opera d’arte con cui li abbiamo stupiti, presto o tardi il nostro segno sarà cancellato dalla pertinace persistenza della materia grez­za. Tutti noi ne abbiamo coscienza e ci sentiamo invasi da malinconica bellezza per un simile stato delle cose.
Resta valida, allora, per ogni essere vivente una sola indicazione: godere il dono della vita. Go­derne in modo massimo, fino all’ultima stilla: ogni emozione, ogni fonte di gioia, ogni resa al dolore, ogni compiacimento della luce, ogni timore della tenebra. Per godere al sommo di tutte le risorse ricevute bisogna riuscire a coltivare la dote più alta che il nostro cervello riesce a esprimere: la speranza di traguardarci oltre la vita stessa. In verità, non serve chiedersi se esista una vita dopo la morte. Anzi, è un grave handicap tormentarsi con un simile fardello mentale, che può divenire un falso scopo e un inganno della filosofia o della scienza. Ciò che deve bastare all’uomo di buona volontà è sapere coltivare la speranza come somma virtù esprimibile dalla mente degli esseri umani. Qualsiasi animale possiede la stessa carica di dignità, in quanto qualsiasi animale ha ricevuto il dono superlativo di muoversi autonomamente dentro la materia inerte. Tuttavia, solo alcuni esseri umani giungono a sviluppare la speranza come massima espressione delle risorse ricevute. È, dunque, la speranza la sublime risorsa che nessun essere vivente possiede con consapevole coscienza e volontà: nessun animale riesce a concepire una situazione così complessa e metafisica qual è la speranza, che non risponde ad alcun imprinting istintivo, ma che è il portato di un’elaborazione interiore del singolo individuo. Chi vi­ve nella speranza, conduce la vita su una soglia superiore a quella vissuta sia dagli animali sia da tutti gli altri esseri umani che non elaborano tale risorsa. Walter Chiappelli chiarisce come l’autentica sostanza della speranza consiste nel nutrire la convinzione che il Bene assoluto trionfa sul Male assoluto. Questa condizione è la formula generica e totale di ogni possibile concetto di speranza: ta­le definizione conduce automaticamente a traguardare con il pensiero la soglia della morte.
Qui e ora è il canto d’amore di Adamo per Eva: è la condizione primordiale dell’unica gioia che l’uo­mo può coltivare sulla Terra, cioè amare la sua compagna. Amarla fino alla fine delle sue risorse d’amore, cioè amarla, qui e ora, anche oltre la morte di lei; amarla nell’esercizio continuativo della speranza, che sa mantenerla viva nella men­te di lui, come estrema risorsa della gioia che egli può ancora gustare sulla Terra. Gli occhi del Poe­ta sono come quelli di Orfeo, la cui vista e il cui canto non possono restituirgli se non che il fantasma di Euridice, ma la speranza di averla con sé per sempre gli consente di vivere ancora ogni do­no di vita nella gioia di essere al mondo: sopravviene in lui questa estrema resistenza alla morte che, per dirla con Dante, rende l’uomo, se non figlio, almeno nipote a Dio, cioè come figlio del Figlio.
Così il canto d’amore di Walter per Silvana diviene un concento di voci d’amore rivolte a tutte le creature della natura, alla bellezza del sole, del mare, del cielo, delle acque e delle terre; diviene un canto di misericordia e di amore per gli afflitti dai mali del mondo, dalle ingiustizie e dalle prevaricazioni dei potenti; diviene, infine, una testimonianza di condoglianza e di partecipazione alle vittime casuali delle malattie e in particolare mo­do dell’attuale pestilenza del Covid, che attualmente serpeggia per le contrade del mondo intero.

Sandro Gros-Pietro

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