Prefazione

La poesia di Emma Pretti realizza un equilibrio tra fondamenti diversi della condizione umana, animata da una complessa pluralità di motivazioni, la natura e la civiltà, la sensualità e la mistica, la realtà e l’immaginazione, l’aspettativa e l’indifferenza, la bellezza e il de­gra­do, la luce e la tenebra, e così via. Al livello più complesso dell’articolazione delle possibilità umane, in Emma Pretti si pone la nozione individualistica dell’io solitario in continuo dialogo e contraddittorio con la nozione civica e solidale dell’esperienza umana come cammino di gruppo e come scena del mondo compartecipata dall’intera umanità. Ne deriva una poesia tanto densa di significati quanto lieve e indefinita nelle soluzioni, che paiono sempre evanescenti: il continuo sentimento del possibile come unico trionfo dell’essere. Vi è una matrice vagamente orientale nell’impostazione di questo precetto poetico, così contrassegnato da fede e da scetticismo, da materia e da spirito, da voce e da si­lenzio. C’è quell’immagine regina che proviene direttamente dal Libro I di Chuang Tzu, fondatore del taoismo, del sogno in cui il filosofo si metamorfizza in farfalla e del risveglio che impedisce di capire se è divenuto una farfalla che si crede uomo ovvero l’opposto. L’uomo che è una farfalla e la realtà che è un sogno convivono con il loro esatto opposto, e si tratta di uno splendido paradosso che risale a circa duemilacinquecento anni fa: è un paradosso filosofico, che proviene dall’uso delle categorie intuitive della mente e che non è per nulla diverso dal paradosso scientifico di Schrödinger del “gatto vivo che è contemporaneamente morto”, elaborato con l’applicazione più avanzata delle categorie scientifiche dell’astrofisica contemporanea e della teoria del­la relatività e dei quanti, esattamente duemilacinquecento anni dopo il pensiero di Chuang Tzu: è lo stesso identico risultato. In mezzo ci sta un immenso cammino di civiltà che sono germinate, si sono sviluppate, maturate e quindi scomparse, con altre civiltà sopravvenute al posto delle prime, in una temperie di costruzioni e di catastrofi, di mondi che aggallano sul boccascena della realtà e che sprofondano nella più tenebrosa dimenticanza, con amori e dolori, gioie e affanni, grandi delitti e supreme virtù. Su questo immenso concento di voci, di storie, di fatti avvenuti e, forse, mai accaduti, si colloca definitivo e glaciale il silenzio cosmico dell’universo che brucia le sue infinite e immense stelle, ognuna delle quali è milioni e milioni di volte infinitamente superiore alla più potente bomba nucleare inventata dall’umanità, in una totale assenza del benché minimo rumore. Il silenzio totale. Ma che non è il nulla. Non è neppure la materia oscura, cioè “ciò che non si conosce, ma che si sa che esiste”. Il silenzio è, invece, il tutto ciò che esiste: è la scena del mondo, il suo racconto perfezionato e completo.
C’è ovviamente, nella poesia di Emma Pretti, così calligrafica e conclusa come hortus chiostrale che è me­tafora dell’Eden, una voluta slabbratura, cioè la ferita sanguinante dell’io autobiografico che si racconta, seppure in modo evanescente, distaccato, alluso. Eppure, in tanta algidità e purezza di pensiero, c’è il sangue caldo che scorre, con la sua pecca di materialità e di contingenza, quell’essere provvisorio e quasi blasfemo, che è il genere umano nella sua totalità, quasi un Giuda, quasi un traditore che protesta il valore della sua condizione effimera, in ginocchio davanti al Redentore, chiede l’assoluzione del suo peccato di presunzione, della sua fede nella transitorietà della propria irrilevanza, a cui tuttavia non intende rinunciare, fino all’estremo delle possibilità. Poesia intensa, di alto profilo meditativo e di illuminato lindore lirico è quella di Emma Pretti, che lascia stupefatti e incantati per la purezza con cui esala le sue verità volatili ed abbaglianti.

Sandro Gros-Pietro

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