LETTERA ALL’AUTORE

Caro Natino,
per chi ama la poesia non vi è situazione più familiare che quella di leggere e rileggere le opere già scritte da altri, perché gli esseri umani, come tutti i mammiferi superiori, apprendono per imitazione, ripetizione, rinnovamento di ciò che è già stato scritto in letteratura, suonato nella musica, dipinto in pittura, costruito in architettura o realizzato nella prassi delle diverse tecniche, dall’arte della cucina, alla chirurgia vascolare o alla tecnologia aereospaziale. Per fare il nuovo, appare sempre indispensabile “rifare il verso” di chi ha già fatto qualcosa di simile. Ciò che stimola la nostra fantasia, infatti, è sempre riconoscere la traccia, l’orma, il “se­gno originario”, quello che tu chiami il graffio sulla parete rocciosa delle caverne lasciato dai nostri antichi progenitori. Nel profondo del nostro animo, noi siamo consapevoli di essere disperatamente soli nell’universo, con nessuna possibilità di metterci in contatto con l’infinità di altre creature, probabilmente simili a noi stessi, che vivono nell’incommensurabile quantità di pianeti simili al nostro e dispersi nei milioni e milioni di galassie squadernate per l’intero cosmo. Ne deriva che il nostro conforto, come la nostra capacità di sognare, nasce sempre dal riconoscimento del “segno originario”, la traccia di noi stessi: noi rifacciamo da migliaia e migliaia d’anni sempre lo stesso segno, e lo facciamo sempre in modo simile, ma anche diverso. Siamo come il cane San Bernardo: un segugio che va alla ricerca del disperso. Tuttavia, nel nostro caso, il “disperso” è dentro di noi, siamo noi stessi, e riusciamo a trovarci proprio quando ci identifichiamo nel “segno originario”.

Rifare il verso – io so che tu lo sai, caro Natino! – con il sottotitolo La parodia nella letteratura italiana, è un bellissimo libro, molto colto, gioioso e frizzante, scritto dallo studioso e critico letterario Gino Tellini, dell’ateneo fiorentino, ma studioso di valore internazionale, ove si dimostra co­me gran parte della nostra altissima letteratura altro non è che un rifacimento di quanto già è stato scritto prima. Questo fatto non sminuisce in nulla il valore degli scrittori italiani, anzi ne sottolinea non solo la genialità, ma anche i fondamenti invidiabili della loro cultura. Tuttavia non prendiamoci questo primato di “rifacitori di versi altrui”, perché se è vero che Dante è il nostro maestro e che Virgilio è il maestro di Dante, proprio il Mantovano è un campione imbattibile nel rifare il verso già scritto da altri. Prendiamo un esempio, fra i tanti disponibili, tratto dall’elegia La chioma di Berenice, che fu sacrificata dalla regina per ringraziare gli Dei del ritorno in patria del consorte Tolomeo, dalla guerra in Siria. Gli Dei gradirono l’omaggio della chioma della regina e la lanciarono in cielo, dove divenne l’attuale costellazione. Catullo canta l’intera vicenda facendo parlare in prima persona la chioma stessa, la quale confida alla regina “invita, o regina, tuo de vertice cessi” – contro la mia volontà, o regina, sono partita dalla tua testa – e Virgilio, più giovane di Catullo di quattordici anni, nell’Eneide, fa dire a Enea che è sceso agli inferi e che incontra Didone, “invitus, regina, tuo de litore cessi” – contro la mia volontà, o regina, sono partito dalla tua riva. Apparentemente, il verso è rifatto tale e quale, ma in verità è completamente nuovo. Non stiamo qui a disquisire. E non critichiamo neppure Virgilio, per essersi ispirato a Ca­tullo, anche perché Catullo praticamente rifà il verso a Callimaco, che La chioma di Berenice l’aveva scritta circa due secoli e mezzo prima, in greco. E come se non bastasse, Ugo Foscolo, circa diciotto secoli dopo, traduce una splendida versione in italiano de La chioma di Berenice, già scritta da Callimaco, rifatta da Catullo e ripresa da Virgilio, e quel verso, nel focoso linguaggio del Poeta di Zante, diventa “A forza io mi partìa, Regina, a forza”: ed è sempre lo stesso segno originario, ma è anche sempre diverso.

Caro Natino, Tu ora mi dici che intendi rifare il verso ai poeti della contemporaneità, e tanto per chiarire i termini scrivi il nuovo abbecedario della poesia d’attualità, e infatti scandisci le sezioni del tuo libro di Poesia con le lettere A, B, C, D, E, F, G, H e poi passi subito alla Z, perché – se vogliamo rifare il verso a un noto cantautore – asserisci che “tutto il resto è noia”. Nella contemporaneità trionfa la caduta sia dell’idealismo sia del razionalismo, la verità non è più spirito e non è più ragione, perché si è incapaci di definirla, di pronunciarla, di rintracciarne l’orma, il segno originario. Nella tua sezione primaria, contrassegnata con la lettera A il panorama dell’orizzonte di eventi si apre sull’Incertezza, come scrivi nei primi versi, L’incertezza del vivere è oscura nebbia / che copre chi tenta scalate al chiarore del cielo e poco dopo chiarisci che l’esistenza precaria nell’arco teso del tempo / che tenebre addensa più lungo è il percorso / è come un tronco che senza radici galleggia. C’è una “una caduta in sfuggenti confini”, si addensa il mistero della fine, ogni lotta di­viene “impari”, ogni scopo diviene illusorio, alla fine si ap­proda a un nulla esalato e non più identificabile, che è rappresentato dal vuoto immenso e dalla consapevolezza della nostra inconsistenza. Questa prima sezione, così organica e ragionata, organizzata su poesie ciascuna di due strofe, la prima introduttiva e la seconda conclusiva, formata da iper-versi volutamente anti-lirici, richiama alla mente il pessimismo esistenzialista e trova il suo seme originario nell’Ecclesiaste della Bibbia. La sezione della lettera B, ricrea, invece, un’atmosfera più fertile di poeticità, si muove per composizioni liriche, più colorate da sensazioni, momenti di sogno a cui si contrappongono acri disillusioni, perché Tutto non vale un gesto d’amore, con brandelli, lacerti e frammenti sfilacciati di esperienze di vita, di spirito e di pensiero, sovente contraddetti, con discorsi interrotti, sui quali incombe plumbea la tua lancinante assenza. C’è un depistamento dei percorsi del Bene e del Male, che diventano indistinguibili, le risposte alle domande sono solo dei caotici rumori e le stesse questioni restano indecifrate. Forse, è questa la sezione più ricca, in cui si va alla ricerca della “scrittura sorgiva”, ed è una ricerca “feroce nel buio delle cose”, che porta dentro di sé “le regioni del sonno” e apre la mente alla visionarietà, che è destinata a diventare una delle componenti più vivificatrici e alacri della poesia di questo tuo splendido Rifare il verso: nella visionarietà balenante la luce è una tagliente lama di pulviscoli, il boccascena della recitazione poetica diviene un grande spettacolo di fenomeni sovente incomprensibili, e “di nessuno è il vero giudizio”. Si potrà, allora, compilare una Numerazione di sentenze lapidarie, di aforismi volutamente scombiccherati, di verità contraddette come è la storia dell’umanità nei campi della scienza, della filosofia, della politica, per poi giungere al grande oceano delle possibilità: la “differenza è ogni senso del vivere” mentre “l’uguaglianza è la spada affilata”, la “somiglianza sono i venti in tempesta” che paiono scerpare e divellere ogni fondamento della ragione, e ne deriva che la “disuguaglianza è l’imprevisto che avanza”, quasi una sorta di azzardo, di casualità, in cui l’unica certezza risiede sul fatto, etico e morale, che “su tutto prevalgono i nostri difetti”. Questa sezione, che certamente è tra le più creative, si chiude con la bellissima poesia denominata Permanenza, che ritorna sul concetto del “graffito” capace di resistere sulle pareti, silice nelle mani degli uomini primitivi e silicio nelle mani dell’uomo cibernetico di cui Tu, caro Natino, stai rifacendo il verso nel tuo libro, perché “forse è nel caso / la vera lettura della mano che traccia / un tempo passato fermato nel presente”. La lettera C mi sembra sia dedicata alla poesia dell’eros o per meglio dire dell’unione, come “tentativo di uscire dalla solitudine” della nomade in cui ciascuno di noi è racchiuso e da cui tenta di evadere, assediato com’è da visioni di luce, da illusioni, da speranze, da frenesie di vita, mentre, invece, “non vi è nulla da spiegare”, perché non c’è amore e ci si unisce solo per sfuggire alla morsa della solitudine. Siamo presi da una smania, ricreiamo come dice una canzone degli anni Sessanta “il cielo in una stanza”, per cui, come Tu dici più poeticamente, “il nucleo dell’anima / era fra quattro pareti”, e nella noce della casa si esperimenta il cosmo e “il mistero ci prende all’improvviso”. Più esattamente, ci si illude di contenere il cosmo, perché al contrario tutto si consuma “e l’esodo avrà inizio. Tutto qui”, siamo alla fine di un’unione, non riusciremo ad uscire dalla nostra monade e a sconfiggere la solitudine. Quasi come in una consequenzialità romantica, ecco che dopo la lettera C, rievocante l’eros, quella che segue, cioè la lettera D, allude a thanatos, in quanto si tratta di liriche che rappresentano lo scialo a perdere dell’esistenza fino all’attesa della morte che si presenta come “insistente presagio”. Noi siamo tutti simili e ognuno diverso dall’altro come nella teorie dei multi universi, realmente separati dalla dimensione concreta dello spazio e idealmente uniti o differenziati dalla dimensione misteriosa e liquida del tempo, per cui più prosegue la nostra consapevolezza di essere parte del divenire e più “ci sorprende una sensazione di vuoto”, ci riduciamo a ripetere Le solite cose e ci agganciamo alla memoria come un naufrago si at­tacca all’ultima zattera: “siano i ricordi a restituirci ancora / quello che siamo è inutile sperare / di avere in sorte la sorte di altro / o cominciare da tabula rasa / una vita diversa” e alla fine “La tarda età degli stanchi passi”, dopo le mille peregrinazioni tra alti e bassi, fa balenare “fra le tante attese / l’insistente presagio del morire”. Nella sezione E prosegui a imbandire il discorso del Poeta contemporaneo con la rappresentazione della quotidianità, del consumo dei giorni, nel tentativo di spezzare l’assedio “al muro / eretto dall’inizio dei giorni / incrinato ma ancora saldo”. La vita diventa una sfida: “necessiterà resistere / qui dove il passato si espande / sugli scaffali pieni di libri / sui prati dell’infanzia / sul selciato ancora ignaro dell’asfalto, / con nostalgia il viandante di colpo consapevole / del non senso del viaggio / fermerà i suoi passi / abbandonerà i suoi sogni”. Eppure, in questa che sembra essere una battaglia perduta al punto che non valga la pena combatterla, “ci sorprende da sempre altro vagito”, un nuovo arrivato nello spettacolo multicolore della vita, “quasi un pianto gioioso nella culla / che ondeggia lieve al vento del futuro”. Ne deriva, allora, il ricorso ovvero l’invenzione di una sorta di etica della pace o di riconciliazione, come Tu scrivi in Esiste, “Esiste un modo per dimenticare / le offese subite e quelle inflitte”. Così, in tanta tenebra che offusca la mente dei poeti contemporanei cui Tu rifai il verso, s’apre lo scorcio di un approdo metafisico, “Davanti al mare / stai fermo, è qui l’immensità / c’è una speranza alla sorgente aurora / fa pensare”. Anche nella lettera F, Tu continui a illustrare la quotidianità dei poeti contemporanei, ma con una maggiore spinta verso la visionarietà, l’affievolimento della realtà, perché scrivi che “Solo l’apparenza è reale e vitale” ed elenchi un insieme di motti lapidari, anche volutamente svagati o di percorsi labirintici, tra carne e spirito, tra libri rivelatori e fatti ingannatori o viceversa, così è in Divagazioni e in Nevrosi. L’assedio del Poeta si concretizza e si radicalizza, non gli resta come unica chance che la sua Visione: “Rimango. Evanescenza di inchiostro / senza gialla sbavatura / statua imprigionata dentro il marmo / senza scultore alcuno. C’è una Gorgone, / capelli intrecciati di serpenti, privo di specchio / attendo l’orrenda visione che impietrì”. E così, caro Natino, Tu concludi la tua Sintassi di poeta contemporaneo, richiamandoti al primo segno: “Viva è la nostalgia del primo segno, / un cavernicolo graffia una parete / e non degrada in utili guadagni”. Nella breve, ma intensa e significativa sezione G, troviamo l’affermazione definitiva e spettacolare della visionarietà di cui più volte abbiamo detto e che a me sembra essere il Leitmotiv di questo tuo libro di Poesia: è una visionarietà che si espande a ogni epoca del tempo umano conosciuto e si dilata a ogni connotazione di spazio terreno e astronomico immaginabile dalla scienza, dalla ragione e dalla fantasia, fuse insieme in un amalgama indefinibile che, con impeto vocativo di una memoria ispirata all’umanesimo, potremmo definire autentica Poesia. L’introibo a questa vi­sio­narietà assoluta è il silenzio interiore, la necessità di im­mergersi nell’indistinto, nell’origine, nel brodo primordiale delle cose: “Ogni parola tace e porta in dono / silenzio profondissimo / perfetta cesura della vita”. Così il fenomeno della creazione appare agli occhi del Poeta contemporaneo in tutta la sua Multi strutturazione – ma ora, caro Natino, io ho capito che questo Poeta contemporaneo, cui Tu rifai il verso, altro non è che la proiezione di te dentro il patrimonio totale della Poesia: “È da pensare che la parola muoia / quando è scritta su un foglio o su un display / in un processo esaurito dove ogni immagine contiene tutte le precedenti”. Tutti i segni del passato rivivono, perché “Il conducente gira la chiave di avviamento / il motorino gira e miracolosamente / la macchina cammina”: Narciso, Laocoonte, “la statua rediviva”, e altri fantasmi. Finché si arriva al “demone bellissimo” che invita a godersi la vita, e qui nuovamente c’è un’allusione indefinita al Qohelet ovvero all’Ecclesiaste, in cui si dice che tutto approda verso il nulla e che l’unica soluzione proponibile sta nel godersi i frutti del proprio lavoro, deliziandosi insieme alla propria donna. L’allusione biblica, come invenimento segnico di un messaggio di consistenza e di identificazione per la storia degli uomini, viene ripetuto nel finale, quando si allude al primo libro della Bibbia, Genesi, precisamente al combattimento di Giacobbe contro Dio, per cui l’uomo rimase per sempre zoppo. Nella penultima sezione del libro, H, Tu estendi la visionarietà, che deforma la realtà ma che contemporaneamente ne diviene anche la più esaustiva metafora, allo sconquasso attuale del Pianeta, in cui si scatenano le forze della natura e si innalza un segno di pericolo: “[…] Gialla / s’invola una bandiera. Chi esce / ignorerà i pericoli”. E per ritrovare sé stesso, un’immagine di conforto, il “segno” capace di spezzare la monade e farci uscire dalla nostra solitudine, si cerca disperatamente l’identificazione con il “graffito”: “se si cerca / in antiche caverne, / angoscia e nostalgia / aprono abissi di memorie / dove ca­valli galoppano / su scabre pareti / ricordi prigionieri del tem­po. // Usciamo fuori / guardiamo con occhi ritrovati / gli schermi luminosi”. Alle visioni del Pianeta ferito, si aggiungono quelle dell’umanità ferita, “là dove l’oppressione si fa vita vissuta / dove regna la fame”. Caro Natino, ti occorre centuplicare l’attenzione per ascoltare tutte le voci, anche le più flebili, di questo concento visionario, per cui ricorri allo stetoscopio, strumento che non cittadinanza poetica, bensì scientifica e tanto ti basta per accoglierlo nella tua visione umanistica della Poesia: “Ascoltiamo suoni e rumori / fonendoscopi come ventose / attenti nel circostante mutismo”. L’enigma di questa creazione, che agli occhi del Poeta contemporaneo – e te lo ripeto, caro Natino, che sono i tuoi occhi! – sempre più appare come se fosse il caos biblico preesistente, fino quasi a identificarsi l’una nell’altro, non si risolve in una soluzione alle risposte, in un approdo alle ricerche: “[…] La notte / porta l’oscurità sul battito delle onde. / Ora invisibile la luna filtra raggi spettrali. / Atterrite ninfe dei boschi / si intridono di salsedine”. Si giunge così all’approdo conclusivo di questo novello abbecedario del Poeta contemporaneo, che è l’ultima lettera dell’alfabeto, cioè l’ultima risorsa dei segni disponibili per il Poeta, la lettera Z: dedicata alla bellezza! Quest’ultimo sostegno, quest’ultima fonte, possibilità e forza del Poeta contemporaneo è, dunque, la bellezza, im­piantata da Gesù nell’animo umano dei credenti attraverso il messaggio della buona novella e celebrata da Dostoevskij nel romanzo L’idiota e ripresa anche in I fratelli Karamazov, “La bellezza salverà il mondo”, ma purché sia un dono gratuito e intangibile, affrancato da ogni aspetto utilitaristico, bene di­versa, dunque, dal concetto “estetico” di bellezza contemporaneo, in quanto quest’ultimo è orientato a un fine di speculazione filosofica, di conoscimento gnoseologico, se non ad­dirittura di arricchimento, di successo e di potere sui più de­boli, quelli privi di “estetica”, per cui ecco la tua amara conclusione, caro Natino: “Non è più la bellezza / lenimento o evasione alle ferite / essa stessa è ostentata ferita / ed impietoso specchio di brutture / molteplici nel nostro limitato / orizzonte di eventi”.

Caro Natino, a conclusione di questa splendida lettura che Tu mi hai offerto, io posso soltanto ringraziarti di vivo cuore per la tua fraterna amicizia e per la gioia che mi trasmetti con la tua pertinace e luminosissima ricerca del segno da incidere nella pietra della memoria, con viva emozione e devozione

Sandro Gros-Pietro

Anno Edizione

Autore

Collana