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Autore: Edith Dzieduszycka
Editore: Genesi Editrice
Formato: libro
Collana: Le Scommesse, 677
Pagine: 128
Pubblicazione: 2022
ISBN/EAN: 9788874149001
PREFAZIONE
Inazuma ya yami no kata yuku goi no koe
il guizzo di un fulmine
attraverso l’oscurità
grido dell’airone notturno
suzushisa ya hono mikazuki no Haguroyama
questa frescura –
vaga falce di luna
sopra al Monte Hirago
La recitazione era una collaborazione fra il lettore giapponese dei testi originali e l’eccellente traduttore (e lettore) inglese, di cui non ricordo il nome (e adesso che vivo su una lontana isola greca non posso nemmeno fare le ricerche necessarie). Pur non letterato, il lettore giapponese era profondo conoscitore di Bashō, e lo venerava come maestro. Leggeva dalla pancia: le parole uscivano come ruggito, rauca parola d’amore, grido di disperazione, stupore – senza mai l’odore di una retorica teatralità. E pensare che quest’uomo non era né poeta, né scrittore, né critico: era un uomo d’affari!
Spero dunque che anche gli originali componimenti di Lontano faro di Edith Dzieduszycka vengano letti nello stesso spirito: con l’intensità e la lentezza-velocità essenziali ad ogni lettura di poesia; pregno della consapevolezza di quel che essa può fare quando viene letta ad un pubblico attento, realmente affascinato.
furuike ya kawazu tobikomu mizu no oto
il vecchio stagno –
è saltata una rana
e il suono d’acqua
(In Makoto Ueda, Bashō and His Interpreters, Stanford University Press, 1992.)
Il commento mette in rilievo una questione tecnica e metafisica nel contempo: dove dentro ogni singola poesia sta la sua chiave? Per quanto riguarda l’haiku in genere, si dice quel punto stare al crocevia – articolazione, punto vuoto, cesura, come dir si voglia – tra frase 2 e frase 3. E spesso è proprio così. Ma il resoconto dell’allievo-discepolo suggerisce che in questo caso il punto dinamico, la ruota di fuoco, sta proprio dove non ce l’aspetteremmo – nel punto di congiunzione tra prima e seconda frase, con movimento compositivo a ritroso dalle frasi 2 e 3 alla frase 1. La prima qui indica luogo e tempo umani: poiché lo fa in modo sottaciuto (cosa c’è di tanto speciale nell’immagine ‘un vecchio stagno”?), la frase ancor più si carica di nascoste associazioni, e quindi forte energia numinosa; così porta sulle proprie ali le due frasi successive, ciascuna delle quali è chiamata a veicolare, simultaneamente, tempo e spazio (ma nel senso oltre-umano, cosmico).
Bashō era un infaticabile sperimentatore e innovatore, e scrisse anche haiku di 18, 19 sillabe (per cui la sacralità del formato 5-7-5 è, di nuovo, una rigidità poco giapponese). In questo haiku, la dinamica ingannevolmente capovolta non è per dissacrare ma soltanto scavare nel senso più interno delle cose. Al suo paragone le sottigliezze compositive dei poeti moderni occidentali dell’ultimo secolo spesso appaiono un po’ goffe ed eccessivamente enfatizzate. Solo, ad es., i Four Quartets di T.S. Eliot (ad es., da Burnt Coker: “Footfalls echo in the memory / Down the passage which we did not take / Towards the door we never opened / Into the rose-garden. My words echo / Thus, in your mind.”) fanno qualcosa di simile; anche se, andando avanti in quel poema, troviamo maggior dispendio di parole, con rischio di maggior dispersione della suggestione profonda. Ogni metodo di scrittura poetica ha la propria eccellenza: il poeta americano controlla la composizione dall’esterno, come un architetto disegna la planimetria di un edificio (in questo ispirandosi a Dante Alighieri, massimo poeta e maestro della tradizione occidentale); Bashō fa uscire l’haiku dal suo intimo in un continuum nel quale le pause e interruzioni in fase compositiva fanno parte della ininterrotta continuità di ispirazione.
III.
Anni fa, parlando con un amico regista, Mani Kaul – egli, grande amante di haiku e sottile intuitore di come esso si apparenti al cinema (cosa già studiata da Andreij Tarkovskij) – ebbe a chiedersi in quale modo ai nostri tempi si sarebbe potuto scrivere haiku nel 21° secolo. Pensava difficile trovare oggi quella particolare intensa e distaccata osservazione che dà modo al poeta di operare una radicale decostruzione della realtà, e aprire inediti orizzonti di attesa; di cui l’haiku poi si fa veicolo in modo del tutto parallelo a come lo fa la musica elettro-acustica. L’incapacità di “animo” (quel luogo sottile fra mente e cuore che questa parola italiana rende così bene), l’incapacità di noi uomini del 21° sec. di agire partendo da quel luogo in noi, fa sì che – a parte qualche sparuto fisico di alta levatura, qualche rarissimo poeta o scrittore o artista o pensatore – risulti quasi impossibile afferrare con le parole la realtà ineffabile delle cose. Le stesse parole che usiamo ci paiono consunte, effimere, macchiate, private del loro reale spessore: e non capiamo che anche questo non è che un abbaglio dovuto al rimpianto per i valori assoluti dei due gemelli: religione cristiana – positivismo scientifico. Purtroppo, proprio oggi quando più che mai si dileguano le nostre certezze e il mondo sfugge per così dire al nostro controllo, siamo assediati dalla retorica che inneggia al falso progresso, all’uomo ‘creatura più intelligente del cosmo’, al suo glorioso futuro. Tutto appare pesante, impaludato di auto-celebrazione e non poca stoltezza. Lo sguardo sottile sulle cose appare arduo. Opinai che forse la difficoltà di scrivere haiku ai nostri tempi era anche dovuta all’avvento della fotografia, questa tecnica perfezionata nei secoli XIX e XX; che oggi il poeta deve, seppure con epocale ritardo, sforzarsi di misurare la sua arte con il fenomeno di questa immagine ‘reale’, tratta direttamente dal fisico intergioco tra luce e ombra. Lo scatto fotografico è sicuramente un tipo di haiku – basti pensare agli “attimi” fermati nel tempo delle immagini di un Cartier-Bresson.
il figlio di un contadino
nel mondare il riso, si sofferma
a guardare la luna
(Bashō)
Menzionai a M. Kaul che la fotografia e il cinema avrebbero in ogni caso dovuto portare il poeta a privilegiare nella sua scrittura un sempre maggior grado di trasparenza, velocità e senso immediato delle cose, gettando nel cestino tutti quegli artifici letterari che ancora oggi costituiscono il farraginoso repertorio del versificatore mediocre. Solo così, sembrava a me, la poesia sarebbe entrata di diritto nel 21° secolo.
IV.
Mi avvicino con delicatezza al lavoro di Edith Dzieduszycka. È un fenomeno forse inedito, e io cerco al meglio delle mie possibilità di sondarne le suggestioni, anche se sarà il tempo a dire in quale modo l’autrice sia stata capace di esprimere qualcosa di nuovo e inaspettato riguardo al nostro sentire odierno. Prendere frantumi sparsi dalle poesie di un poeta, scorporarli dal loro contesto originario perché portino con sé poco più che un bagliore, un residuo di ciò che significavano: prendere questi scampoli e ricucirli in composizioni 5-7-5 che per quanto fugaci, effimere, vivono e veicolano un inaspettato e spesso illuminante senso delle cose… altroché minimalismo! Qui siamo ben oltre. Ma prima di esplorare in quale modo, questo, diciamo che il libro è anche e soprattutto l’atto di amore di una donna verso un uomo, di una poetessa verso un poeta: un amore ideale, fantasmatico, ma non meno intensamente vissuto nelle notti buie e nei momenti di gioia o di sconforto. Perché quel poeta è in realtà l’anima dell’autrice; e rappresenta anche la disperazione di chi oggi scrive e non sa chi lo leggerà. Laddove reggono per tensione poetica, i testi di E. Dzieduszycka si lasciano alle spalle le tante altre composizioni con lo stesso modello sillabico, deboli rievocazioni di “mood”, “paesaggio”, “sentimento umano”. Qui tutto è spiazzante, problematico, disorientante, ma sempre in modo pacato, sottile: sembra aprire la porta ad un nuovo modo di poetare, molto digitale, che potrebbe benissimo essere introdotto in una chat room (e questo lo dico come un complimento): poi chiude, se ne va, risultando forse unico e irripetibile. Leggendo di pagina in pagina, l’effetto è di un accendersi-spegnersi, di segnali di vita intermittenti: che proprio per questo segnalano la comparsa misteriosa della stasi, il senso di animazione sospesa – ma al suo interno, quanto movimento. Ho spesso pensato a Gesang der Jünglinge di Karlheinz Stockhausen. (Ma anche ad un certo senso di “morte-nella-vita” che troviamo nel tardo Mahler.) Possiamo parlare ad infinitum delle suggestioni che questo esperimento inquietante ma anche fortemente lirico e pieno di un senso di abbandono, evoca nel lettore: come ho detto, ognuno di noi poi dovrà leggere e decidere per sé. Sicuramente il libro rispecchia la nostra contemporaneità: il nostro vivacchiare in tempi di immensa ricchezza e grandissima povertà, in cui le questioni sociale, ambientale e culturale sono venute a fondersi in una realtà unica che invalida in un sol colpo tutte le antiquate ricette filosofiche e sociologiche del defunto Novecento, e fa apparire all’orizzonte nuovi scenari minacciosi e inquantificabili e sempre più urgenti che il nostro sistema e il nostro modello economico sono manifestamente incapaci di affrontare. Il Nulla di oggi ha come sua controparte anche questo scrivere: mirabile e insieme ‘insignificante’. Ma tutto questo è haiku? Prima di rispondere, dico che la raccolta in ogni caso sa “citare”, riportare a mente, in vario modo rifrangere un bel po’ di poesia del passato. L’esperienza poetica europea in particolare è un po’ presente ovunque qui, molte farfalle si involano da queste erbe, il che dà loro una bella qualità prismatica.
Ma, appunto: tutto questo è haiku? Sarebbe stato possibile riferirsi a questi testi con un altro nome?
Intanto, diciamo che anche i testi di Bashō sono pieni di riferimenti al waka, così come a tutto l’arco della millenaria poesia cinese. Si inseriscono perfettamente nella tradizione letteraria del mondo sino-giapponese, non abitano un qualche mondo dematerializzato e spiritualeggiante, un empireo senza riferimenti terrestri.
Ciò malgrado, per forma e dinamica, l’haiku è davvero diverso dalle tradizionali forme poetiche del vecchio mondo: lü-shih, ghazal, sonetto. È un essere libero da pastoie, conchiuso, centripeto, un nucleo atomico carico di energia che volge verso una sua centralità inesprimibile. Ciò fa sì che a livello esistenziale, esso sappia portare l’uomo sulla strada disidentificata, verso quel centro vuoto detto Tao (che nell’uomo si può anche chiamare ‘stato pre-cogitativo’). Cosa anima la natura delle cose? L’haiku mormora in risposta, nessuna agenzia ‘esterna’, nessun creatore, nessun dio: la natura anima e origina sé stessa. Roccia, nuvola, greppo erboso. Il senso profondo di tutto “questo” cui diamo un nome è non avere nome, essere immagini svolazzanti al vento. E allora come faremo a dire senza dire? Il punto più vicino a questo è, di nuovo, l’haiku. Il quale infatti tende a negare ogni costruzione artistica, filosofica o tecnico-scientifica, riportando tutto a un grado zero; eppure vicinissimo alle intuizioni degli scienziati e degli artisti più alti, prima che queste vengano piegate in prodotti tecnologici e diventino volontà di iperpotenza. Ecco la folgorante futurità dell’haiku.
V.
Cosa di questo troviamo nei testi di Lontano faro? Per quanto riguarda la dinamica, qui vediamo più spesso pezzi costruiti come sequenza di tre frasi, tre immagini di seguito, dove il criterio strutturale nei suoi momenti migliori somiglia più alla libera eventfulness dell’aleatorietà, e basata su una forza centrifuga – ecco perché ho parlato di musica elettro-acustica. Il formato sillabico 5-7-5 ad un tempo getta un velo sulla struttura interna diversa dall’haiku, e le dà ali, libertà: e qui è l’interessante! In questo modo, l’autrice può lasciare che nei suoi fili di composizioni-perle instabilmente coesistano senso di vita e senso di morte: in ugual misura: dando loro una forza implosiva che al lettore giunge un attimo dopo come contraccolpo, come molla d’un tratto rilasciata. Ciò sicuramente è haiku, anche se cercato per vie diverse. Ma poi che importa? Questa comparazione io lo faccio soltanto per indicare come i testi qui riescono ad essere vicinissimi e nel contempo estranei all’esperienza poetica dell’haiku; sempre lontani, sempre suo specchio fedele.
giungo alla foce
una voce che canta
mare infinito
faro lontano
rivivo la mia infanzia
fuga del tempo
luce che aleggia
ascolto il mio respiro
notte d’estate
Il movimento non è quasi mai univoco, lineare: il senso ha un andamento a ritroso, altre volte serpeggiante, passando da una frase a quella successiva e poi tornando alla prima; altre volte saltando dalla prima alla terza, mentre già ha sfiorato qualche altra parte. È la poesia della indefinibilità:
onda del Lete
quel che vedo nel lago
certi ricordi
pareti bianche
lasciar andare i sogni
porte sul vago
notte materna
ara su cui orare
a mani giunte
Nell’ultimo pezzo vediamo che la prima frase, pur non essendo decisiva, ha un peso enorme, incombe in maniera decisiva sulla composizione, mentre la terza è quasi sottaciuta.
notte stellata
dell’estasi culmine
ore irreali
Questi due ultimi pezzi mi ricordano di Yves Bonnefoy i primi versi della poesia “Du haut du monde”, in Ce qui fut sans lumière:
Je sors,
Il y a des milliers de pierres dans le ciel,
J’entends
De toute part le bruit de la nuit en crue.
Est-il vrai, mes amis,
Qu’aucune étoile ne bouge?
pensare frasi
intrecciare ghirlande
colori e suoni
fioche presenze
indeciso rumore
lontane feste
baia tranquilla
il pallore del grigio
luce diffusa
urlo inespresso
la scarsa luce fredda
vita distante
fiumi infernali
vivere mi spaventa
respiro forte
luce scomparsa
orrore di sepolcro
immenso buio
l’onda si frange
dove mai sono stato
come una lama
(Cfr. con il secondo di questi ultimi tre haiku il distico da me tradotto di Mirza Ghalib – nato a Delhi 1797 e morto nella stessa città nel 1867: anche noi ricordiamo lo splendore di sontuose e policrome feste / meri arabeschi ormai che sbiadiscono nella nicchia dell’oblìo).
Steven Grieco Rathgeb
Settembre 2018
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