PREFAZIONE

La Sconosciuta: alter ego o molto di più?

 

In testa all’opera di narrativa (solo per esigenze classificatorie) della nuova fatica letteraria della Infante, si legge una dedica molto peculiare: All’amore nobile / puro / ignorante, / inconsapevole / che esistano / anime da lasciare andare.
Bene: l’esergo esprime e sintetizza – senza svelarli ovviamente – i contenuti fondanti de La Sconosciuta (questo l’appropriato titolo dell’opera in questione).
Non di meno, bensì intensificando il proprio pensiero, l’Autrice – in premessa – ci racconta in che modo le si è rivelata l’ignota e misteriosa figura: era in attesa… del treno ad alta velocità […] Per ingannare i minuti, cominciai a immaginare chi fossero o quali storie quei cappotti (all’apparenza tutti uguali) si trascinassero addosso […] Poi giunsero ‘loro’ […] Lei, una pochette amaranto in una mano […] Lui una ventiquattr’ore che lo appesantiva da un lato […] Capii che era giunto il momento dei saluti e avrei dovuto girare lo sguardo per discrezione. Non lo feci, nonostante mi sentissi un’intrusa. […] Quando il treno partì […] La vidi dirigersi verso me […] Sedette al mio fianco […] Restai in ascolto del suo patimento. Stava soffrendo. Lo percepivo chiaramente […] L’altoparlante annunciò l’arrivo del Milano-Lecce […] Lei restò. Sempre immobile. […] Avrei voluto voltarmi […] Ognuna di noi due avrebbe ripreso la sua strada. Finì così… iniziò così. Nacque in me La Sconosciuta.
Il romanzo (torno a ripetermi: tale solo per definizione) si snoda attraverso alternanze di pagine – ora dedicate a “Lei”, ora a “Lui” – ma, non come si sarebbe propensi a credere, in forma dialogante (e dunque con un discorso diretto) bensì per via interposta, in terza persona.
Il fatto stesso di non essere diviso in capitoli (come solitamente accade) è già testimonianza di originalità sul piano formale che, tuttavia, incide vieppiù sulle tematiche affrontate. Mi sento di sostenere che quest’opera così doveva ge­nerarsi e svilupparsi, e in nessun altro modo avrebbe raggiunto esiti tanto profondi, significanti ed espressivi.
Come dianzi affermato, la narrazione è impersonale, ma non nel senso di scialbo anonimato ché la Scrittrice si cala talmente nei due protagonisti da perdere la propria identità ed assumere degli stessi non soltanto la tipicità ma l’intero insieme dei temperamenti e delle naturali facoltà psichiche di entrambi.
Certo, stiamo disquisendo di una donna, per cui è ovvio che le riesca, forse, più congeniale vestire i panni di Lei. E, tuttavia, non si notano discrepanze né dissonanze quan­do ad essere ‘esaminato’ è Lui. Anche nell’uomo la Nostra s’immedesima eccellentemente dimostrando sicure capacità di scavo interiore dell’animo umano.
Non è compito del prefatore riferirsi troppo spesso alla tra­ma: ciò, sia per lo scontato svelamento, ma anche per lasciare al lettore la possibilità di concentrarsi su quanto più gli aggrada.
Ragione, questa, per la quale non citerò spesso. Ciononostante vi sono, nel testo, passaggi che sarebbe un vero peccato tralasciare: intense descrizioni di stati psicologici e, non di rado, stralci di prosa poetica, se non di autentica poesia, di poesia tout court.
Lasciate, perciò, allo scrivente la facoltà e il piacere di riportarne certuni di assoluta bellezza:
Avanzò verso l’uscita (della stazione) con passo malfermo […] Qualcuno, avrebbe trovato nessuno dietro la porta chiusa. Qualcuno, avrebbe trovato un cane scodinzolante in attesa […] Qualcuno, bambini festosi con un tigrotto di peluche […] o, in lacrime con una bambola spettinata stretta al petto e le mani sporche di marmellata che non avevano mai avuto bisogno di rubare. Altri, forse, solo uno sguardo immoto […] Lei avrebbe trovato l’Altra. E cenere nel camino.
E l’apice, che si raggiunge – sempre rifacendosi alla figura retorica della anadiplòsi – con questi, che non esito un istante a definire due versi: Lui era partito, senza andar via. / Lei era rimasta, partendo con lui. – Si incamminò verso sé stessa / L’unica meta che potesse accogliere il suo dolore”, verso la stanza in cui i sussurri divenivano litanie sul sagrato di un letto sfatto e le preghiere non si innalzavano ai Santi.
E, di nuovo, l’apice, magnifico nella sua indiscutibile pro­sa poetica: E il letto sfatto era l’Eden da attraversare quando l’amore si sveste d’ogni peccato e non conosce confessionale. Così fino al picco più alto, con il quale chiude ‘il paragra­fo’: L’amore prosciugandola l’aveva resa abbiente.
Così – di epifania in epifania – il romanzo/poesia costruisce la sua trama fino alla conclusione che, per ovvi motivi, celerò. È mio proponimento, tuttavia, seguirlo ancora un po’: a balzi, saltellando da un’illuminazione all’altra, appunto, per farvi partecipi non solo della singolarità dell’opera ma di uno svolgimento che vi prenderà per mano e vi condurrà alla scoperta dell’Altro che voi stessi siete, che ne siate consapevoli o no.
Ognuno di noi ha il proprio alter ego, ciascuno è bifronte (cfr. Giano: la primordiale divinità pagana di cui restano tutt’oggi innumerevoli testimonianze). Attenzione, però, a non cadere nel tranello che lo vuole come primitivo e anacronistico, perché considerarlo tale ci allontanerà dal narrato. Al contrario, è importantissimo ritrovarcisi, cosicché si abbia una completa e più veritiera definizione di sé stessi.
Nessuno può dirci chi siamo se non l’apparente Sconosciuto/a che vive parallelamente la nostra vita.
In un’altra delle tante e poetiche illuminazioni, la Nostra – concisamente – scrive: Quando per non perdersi, ci si cerca. Quando la vita gioca a moscacieca col destino – a un’ora da noi – e sbrindella impavida, angoli di paradiso.
È tutto lì, se desideriamo non smarrirci nella giungla intricata, dove noi stessi abbiamo deciso di andare a ficcarci, dobbiamo inevitabilmente incontrarci con l’altro noi. Ogni ora, in ogni giorno, lui ci dà appuntamento, che troppo spesso disertiamo. Il confronto – a volte anche aspro e contraddittorio – non dev’essere disatteso se non si vuole buttare alle ortiche la nostra esistenza.
Il lacerto, testé riportato, mi fornisce lo spunto per un’altra riflessione: contiene – il medesimo – l’eponima, seppur non identica, dicitura che ritroverete in testa a ciascuno dei ‘paragrafi’ (non trovo definizione migliore per definirli) che compongono lo scritto. Sto parlando di quel giocare a moscacieca col destino – a un’ora da noi; già perché A un’ora dal destino è in cima a ogni pagina che si dedica a Lei o a Lui.
Un’ulteriore epifania: Portò il suo corpo a letto, la lingerie residua sul tappeto.
Si potrebbe obiettare: “dov’è l’illuminazione?”. Intanto – quando comunemente si dice: vado a letto – non si specifica o si dà per sottinteso che si tratta di sé; qui no, qui si chiarisce non soltanto l’implicito ma si va oltre: è Lei che porta il corpo, libero da ogni superfluità, a coricarsi, come si farebbe con un bambino cui poco prima si è raccontata una favola.
Una fiaba per adulti – diciamo così – che fa addormentare e nello stesso tempo risvegliare il desiderio e il ricordo dell’amore ancora aggrappat(o) alle spalle di lui, come le sue gambe ai suoi fianchi e la sua bocca all’ultimo boccone della torta Sacher, divorata sulle sue labbra […].
C’è un eros di una finezza, di una gradevolezza, di una pulizia più uniche che rare: così innocente da indurci a credere che il paradiso esista realmente; ma qui, terrestre appunto.
È sfogliando queste pagine che avvertirete davvero tutti gli aromi e le essenze che un vento di mare trasporta fino a voi.
È giunto il momento di concludere: lo farò con un’ultima citazione, quella della poesia che segue, di una carezza lasciata sui capelli, sui riccioli ribelli:
Anche adesso riusciva a sentirne la morbidezza della seta.
Amava prenderli tra le labbra
giocarne i colori, i sapori
annegare in loro, sprofondare
scendere giù e riempirsi di lei
ancora più giù, di ogni sua parte
pregustarne le anse, gli slarghi
l’aroma dei limoni che nascono a dicembre
l’effervescenza del mosto che si fa vino
tra le zolle di terra scura
in attesa del suo morbido diluviare.
Vi auguro buona lettura ma soprattutto di scoprire, al termine della stessa, che non siete più sconosciuti a voi stessi perché non più ipocriti nei riguardi della vita.
Ho iniziato con una dedica della Infante e termino con una frase di Umberto Galimberti, dall’Autrice voluta in calce all’opera:
“L’amore eterno esiste, se non si è mai sazi di quell’amore, se rimane inappagato.”

Sandro Angelucci
16 luglio 2022