11,00 €
Autore: Veniero Scarselli
Editore: Genesi Editrice
Formato: libro
Collana: Le Scommesse,
Pagine: 112
Pubblicazione: 2012
ISBN/EAN: 9788874143351
Memorabile viaggio nello spazio
PREFAZIONE
Di una vera e propria avventura si tratta: evento rischioso e audace, Ascesa all’ombelico di Dio va messa fra le cose futuribili che potrebbero addivenire a qualsiasi altro mortale terrestre, purché sia poeta dotato di fantastica immaginazione e di eccellente cultura umanistica, al pari di Dante Alighieri o, in secundis, di Veniero Scarselli. Ed ecco che il poeta fiorentino ha scritto il diario della sua mirabile esperienza. Il poema si inizia con una provocatoria ripresa dell’avventura occorsa al Sommo Poeta, circa sette secoli prima: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, dunque, Veniero si trova a ‘ringaggiare’ ovvero ripetere, ma in modo totalmente alternativo, il viaggio dantesco nell’extramondano. Ci dice che egli è a passeggio per un boschetto, possiamo immaginarci sia un luogo ameno dell’Appennino toscano, magari nei viciniori di Pratovecchio ove il poeta risiede con l’adorata moglie Gemma, gli occhi colmi di visioni virgiliane di serafiche pecorelle al pascolo dalle turgide mammelle gonfie di latte, la mente ingombra dal turbinio dei valorosi pensieri che solitamente invadono l’alma dei poeti. Quand’ecco subitanea e schiacciante l’assale l’implosione costrittiva dell’Idea di Dio: questa entità nascosta e indefinibile che sovrasta immanente tutta l’opera umana e paralizza gli esseri umani, impedendo loro ogni via di fuga, essi rimangono catturati da ciò che non c’è, da ciò che non si dice e da ciò che non parla. Il poeta reagisce con irriverente ironia a questo attacco alla sua libertà di pensiero e pensa di pensare che Dio, visto che non c’è da nessuna parte, esista solo nel vuoto, che per altro è la grande dimensione del Tutto, perché il cosmo è fatto quasi esclusivamente di vuoto assoluto e la presenza della materia, fosse anche solo una particula di impercettibile polverume, è già l’eccezione straordinaria alla regola di assoluta inesistenza che accomuna tutto ciò che, sì, c’è, ma senza esserci mai stato. L’atmosfera, creata dal poeta, per ora è quella di un’ilare ironia irriverente, con elementi di insofferenza per le costrizioni ideologiche. Quand’ecco che accade la tragedia, questa volta ispirata a Jonathan Swift e ai Viaggi di Gulliver: dal grande fisico di uomo possente che è Veniero Scarselli nella vita reale, in un amen viene ridotto a uno scamuzzolo poco più grande di una pulce, che a difficoltà cammina tra i fili d’erba, divenuti svettanti come baobab. Proseguendo il cammino dentro la sua metamorfosi kafkiana, il poeta incontra il frutto edenico che probabilmente si è staccato dall’albero della conoscenza ed è ruzzolato a terra: la Grande Mela, che agli occhi del poeta-pulce è grande quanto la città di New York agli occhi di Woody Allen. Sopra la mela ci sta scritto: Anime fortunate voi che entrate, con evidente rovesciamento dell’epigrafe dantesca. In effetti, sulla buccia della mela c’è un tondo buco, adatto alle dimensioni di un poeta-pulce, che rievoca nella mente di Veniero l’ingresso di una discoteca della sua gioventù. Entrato nel tunnel, il poeta si ritrova ad avanzare nel buio pesto, dentro un cunicolo umidiccio di materia organica. Ora avvista un lumino e sente la voce di accoglienza del baco-portinaio della mela, il quale gli fa firmare il registro dei visitatori importanti. Il poeta incomincia a pensare che quella Mela, anche se imponente, sia poco più che una burletta rispetto all’Idea maiuscola che l’umanità si è fatta dell’extramondo. Ma il baco-portinaio, si rivela per essere uno scienziato filosofo e teologo di primo ordine, perché spiega con pazienza e con raffinata dottrina la teoria dell’Antimateria al poeta che ascolta con riguardo, e infine quello conclude dicendogli che lui si trova nel Cordone Ombelicale della Divina Mente Placentare e che è incamminato verso la meta della Conoscenza. Il poeta riprende un poco spaesato il suo cammino, sa che deve procedere, è spinto in avanti anche da un’indomabile curiosità, quella stessa che animava Ulisse oltre le colonne d’Ercole. Raggiunto un secondo fioco lumino, l’attende un’accorata sorpresa, cioè l’incontro con la madre che era già morta anni prima e a cui il poeta, in vita, ha dedicato il suo libro di poesia Pavana per una madre defunta. Ed ora ecco che la madre del poeta è presente davanti agli occhi del figlio, ma è una sorta di lemure, una figura diafana o traslucida, priva delle passioni vitali del tempo mondano, tuttavia rifiorita nel fisico degli anni migliori della sua maturità di donna, ma votata a pensieri unicamente ultramondani, per cui non c’è commento tra madre e figlio sugli accadimenti della vita reale e non si avvia, come accade invece nel poema dantesco, la rilettura esplicativa dei fatti della vita reale sotto una diversa visione delle cose, quella della verità perfetta. La madre, dunque, non possiede alcuna verità perfetta riguardante le vicende del mondo, tuttavia anticipa al figlio con sicurezza una notizia certa dell’extramondo: il figlio deve proseguire celermente perché è atteso più avanti da una donna che è una figura autorevole del mondo ultraterreno. Il poeta riprende il suo percorso ed ecco che al lumino seguente gli appare il personaggio straordinario di Super-Gemma, che sarebbe la trasposizione poetica della moglie del poeta. Super-Gemma è nata con La suprema macchina elettrostatica, poema in versi sciolti pubblicato nel 2010. Essa altro non è che lo schermo letterario – il senhal, se vogliamo – impiegato da Veniero Scarselli per rappresentare la moglie all’interno delle sue opere poetiche. Tale senhal, ovviamente, illustra l’ideale femminile del poeta, in senso petrarchesco, cioè ne celebra la grazia, la dolcezza, la bellezza, la virtù e l’amore. Inoltre, nella più piena tradizione stilnovistica, l’immagine della donna rappresenta anche la visione angelica del Bene, quindi, giunge ad avere una valenza sia religiosa sia filosofica o meglio teologale. In Scarselli, Super-Gemma diviene simbolo di qualcosa di più specifico ancora, che è una caratteristica solo scarselliana: è il simbolo perfetto del pensiero poetante dello scrittore, cioè diviene la musa detentrice della poetica dello scrittore, tutta incentrata nel rapporto tra poesia e filosofia, che rappresenta il nocciolo centrale della ricerca scarselliana. Se Gemma è la reale moglie, Super-Gemma, invece, è una costruzione poetica in forma di icona, sì, dedicata alla moglie, ma che funziona da schermo dell’intera poetica d’autore. Per dirla con Gustave Flaubert che affermava sornione “Madame Bovary c’est moi”, Scarselli direbbe, con altrettanta malizia: “Super-Gemma sono io”, cioè un alter-ego di comodo, dedicato cavallerescamente alla moglie, ma funzionante come espediente dialettico per dialogizzare l’esposizione del pensiero del poeta. Ecco, allora, che dentro la Mela, si sviluppa un colloquio tra il poeta e Super-Gemma, che ricalca in un qualche modo i dialoghi tra Dante e Beatrice, ma che serve ad illustrare la “poesia-filosofia” di Veniero Scarselli, presentata sottoforma di dialogo platonico tra il poeta e sua moglie, tutti e due perfettamente in vita, e tutti e due ricoverati dentro la Mela, l’uno in viaggio verso la Grande Mente Placentare e l’altra, invece, nella finzione letteraria, già “ascesa all’ombelico di Dio” e da là discesa per fare da guida al marito. Non è il caso di dare minutamente conto della complessa visione poetica-filosofica, perché il lettore preferirà scoprirla da sé. Ciò che conta sono alcuni punti essenziali del pensiero scarselliano, e che riguardano il concetto di eternità. Anche per Scarselli, esattamente come per Leopardi, esistono più dimensioni di infinito, che sfociano in un concetto, possibilista ed enigmatico, di eternità. Esiste una prima soglia di eternità data dalla “carne che si rinnova” ovvero dalle forme di vita biologica che si disfanno nella morte e si ricostruiscono nel concepimento della carne, per cui la specie vivente conosce una prima soglia di eternità. Ma esiste l’eternità bene più complessa delle anime che, all’atto del disfacimento di ogni creatura biologica, smettono la loro funzione di collante delle “grandi molecole” biologiche e si inoltrano nel cordone ombelicale per raggiungere Dio. Il percorso nel cordone può essere rallentato o accelerato a seconda di vari fattori inerenti la caratteristica della creatura appena morta. Si forma nel cosmo un invisibile putiferio di corpuscoli di materia disciolta dal collante dell’anima. Tali corpuscoli si mettono in viaggio per raggiungere l’anti-materia. Ma può verificarsi tutto e di più, per cui accadono delle interferenze ovvero degli sviamenti, in modo tale che ai vivi pare di rivedere i morti, le cui molecole sciolte dovrebbero essere destinate all’anti-materia e, invece, può succedere che vagolino per l’aere come capita a quelle tali missive epistolari di sfortunata impostazione, le quali, anziché pervenire subitamente al destinatario, peregrinano per anni nei fondali degli uffici postali. Nel prosieguo, il discorso si fa sempre più illuminante e similmente diviene più luminoso il tunnel altresì nominato Cordone Ombelicale di Dio, che dovrebbe essere percorso dalle anime che, abbandonate al loro destino di anti-materia le salme sfatte dei corpi morti, si avviano all’incontro con Dio. Si augura il poeta che ciò avvenga prestamente. E, invece no, corregge Super-Gemma: ciò non avviene mai, in quanto l’anima è ammessa soltanto a un livello di Ultima Conoscenza che è una propaggine di viciniori alla contemplazione dell’“infinita concentrazione di Essere”, la quale andrà raggiunta con un lungo percorso, che include la perdita della memoria del passato, ed altri incomodi depauperativi della magnifica messe di idee umane forgiate dalla ragione, le quali andranno tutte rinnegate, fugate e disperse, per avvicinarsi vieppiù a quel vuoto e a quel niente che è la “concentrazione dell’Essere”: una condizione inconsistente, inenarrabile, insostenibile, indicibile e probabilmente incomprensibile.
Al poeta, a questo punto, incominciano a girare gli zebedei. Passi dovere perdere la propria carcassa corporea, si sa che con gli anni il corpo degrada in una ripugnante vecchiezza; passi dovere finire in una mela bacata e invaiata, decisamente appassita, visto che quello sarebbe l’edenico frutto dell’albero della conoscenza, concepito da migliaia d’anni; passi essere costretti a infognarsi nel condotto di un verme e suggerne tutto il viscidume biologico e le altre deiezioni; passi perdere il passato o conservarne al più un diafano velo lacerato e interrotto da labili parvenze nostalgiche e da qualche fantasma di ricordanze, come capita all’amico Bonaccorso: ma che anche si imponga la totale dispersione della logica e del ragionamento umano – che avrebbe dovuto essere stato concepito “nipote a Dio” e cioè essere un ragionamento organizzato a sua immagine e somiglianza – questa agli occhi del poeta-filosofo appare realmente una truffa! Dunque, si dovrebbe morire senza ricevere una risposta alle umane domande, perché la mente si decomporrebbe prima di concepire il vero. Agli occhi del poeta questo appare un patto leonino: da un parte c’è l’uomo, che sostiene tutti i costi dell’esistenza, senza ricavarne l’utile finale; dall’altra c’è Dio, che fa sostenere tutti i costi dell’esistenza mondana all’uomo, e che mantiene solo per sé gli utili finali e paradisiaci. Non si può mica farsi gabellare in questo modo, neanche da Super-Gemma, sembra concludere il poeta-filosofo! Ed ecco, che egli torna a concepire quella soluzione già perfettamente illustrata nella Suprema macchina elettrostatica, di costruzione delle anime artificiali, realizzate dagli stessi uomini. A questo punto, con grossi benefici di inventario che il lettore vorrà gentilmente perdonare a chi scrive, si conclude l’avventura letteraria del viaggio extramondano del poeta: ingranata la marcia indietro, il viaggiatore metafisico ripercorre a scapicollo il cordone ombelicale e riesce a ritornare nella sua bene amata imperfezione umana e a riempirsi gli occhi come Leopardi di una luce umanamente infinita: “Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea / tornare ancor per uso a contemplarvi”!
Chi scrive ha già avuto modo di commentare in più di un’occasione la grandezza poetica di Veniero Scarselli, che appartiene al ristretto numero dei grandi creatori di poesia, cioè di coloro che autenticamente arricchiscono il mondo delle idee a disposizione dell’uomo futuro e non si limitano a dare conto ai posteri dei minimi fatti della loro vita quotidiana: cioè le letture compiute e gli amori consumati! Scarselli, come pochi altri scrittori, ingrandisce e arricchisce il mondo delle idee a disposizione dei posteri, aggiungendo qualcosa di molto scintillante, che prima non c’è mai stato. Il viaggio metafisico di Scarselli è il primo serio e drammatico viaggio ultraterreno ad essere condotto non solo in uno stile cosiddetto “basso”, ma con una concezione e con una soluzione decisamente comica. Se è vero che Dante riserva all’inferno lo stile comico per poi affinarlo via a via che si sale verso il paradiso, quest’ultimo è interamente concepito in alto stile coturnato, tragico, apocalittico e, comunque, celestiale, quanto di più lontano si possa immaginare dall’umanità del quotidiano e del mondano. Ma sono in alto stile anche i viaggi extramondani dell’Ulisse di Omero, dell’Orfeo di Ovidio e dell’Enea di Virgilio. Non è in alto stile, invece, questa Ascesa all’ombelico di Dio, che già nel titolo propone la comicità di un’ascensione che si ferma giusto al ventre dell’autorità interpellata. Ma è la sostanziale ironia del racconto che rende unico questo viaggio metafisico: il rimpicciolimento lillipuziano del poeta convocato al cospetto dell’extramondano; la Mela caduta dall’albero della conoscenza, bacata dal verme – ha una parentela con il serpe biblico? – che scava il condotto che porta alla Grande Mente Placentare; le irriverenti considerazioni che aggallano un poco dovunque nel testo sul comportamento del Dio nascosto; il finale quasi claunesco del viaggiatore metafisico che, dopo avere omaggiato la sua guida celeste e averne fatto affiorare agli occhi un velo di lacrime nostalgiche, si scapicolla verso l’uscita come un portoghese sorpreso senza biglietto a una prima teatrale. Veniero Scarselli è un grandissimo maestro dell’ironia di alta fattura, cioè di quella ironia che non è costruita con la comicità delle torte in faccia, ma con l’arguzia che mette a nudo la vanità delle idee e del comportamento umani, sempre troppo magniloquenti, contraddittori, imprecisi o goffi per dare conto efficace della complessità del mondo. L’ironia più sottile e raffinata di cui dà chiara prova Scarselli è quella tale soglia di concepimento della Ultima Conoscenza, che non può essere la conoscenza loica dell’umana ragione, ma che può essere l’inconoscibile in sé e per sé – la conoscenza inconoscibile non è niente male come ossimoro ironico – ovvero potrebbe essere quella tale conoscenza della seduzione e non della persuasione, così vicina e così cara alle idee poetiche e filosofiche di Friedrich Nietzsche, autore nei confronti del quale la poetica di Scarselli ha sicuramente ingaggiato un rapporto relazionale – non si sa fino a che punto consapevole e voluto – di amore e di contrasto.
Sandro Gros-Pietro
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