PRESENTAZIONE

Quando si diventa nonni, il tempo si contrae, ed è come se la vita di colpo facesse testacoda, riportandoci all’inizio dell’avventura su questa Terra. Non è che si ritorni bambini, ma l’infanzia e i suoi allegati ci perseguitano un po’ più spesso negli angoli misteriosi della nostra mente, e basta una fotografia per scatenare ondate di sentimenti e nostalgia.
Quel bambino sono io e non sono io, ci ripetiamo, allora ero così ma poi, e avanti con i confronti, gli affetti perduti, i giochi preferiti, i primi amici del cuore, i filarini ingenui dei dieci anni. Le biciclette scassate e le ginocchia come una tela di Pollock. La mamma e il papà giovani, le loro ramanzine e le note del maestro, la vacanza in campagna, al mare o in montagna, l’estate che finisce e il 1° ottobre ancora la scuola, più grandi di un anno, in fila ordinata con il grembiule nero e il fiocco azzurro.
Adelfo, allora Maurizino, era una teppa, ma di simpatia contagiosa. Inventava. Giochi, gare all’ultimo metro, balle grandi come case da propinare al primo della classe, spacciava una bici da femmina (le bambine non erano donne, ma femmine) per una da corsa (chissà come giustificava la “retina” para gonna sulla ruota posteriore), e ingaggiava furibonde battaglie risorgimentali con i soldatini addirittura in classe, sgomentando compagni e maestri.
Il suo testacoda della vita è tutto in queste pagine, in cui il futuro Adelfo Maurizio Forni, manager di successo e ora scrittore al quarto libro in tre anni, mostra intelligenza pronta e spirito critico, inventiva e senso organizzativo, tutte doti che si sarebbero accresciute con l’età, assieme al senso dell’amicizia, già assai sviluppato allora.
Era un monello il Maurizino, ma con classe, e lo si vede da una fotografia delle elementari, in cui il nostro è l’unico a indossare un elegante papillon ben stretto al colletto bianco, preludio al futuro sfoggio di mirabolanti gilet, pochette, giacche alla cacciatora, camicie e scarpe inglesi lord Brummel style.
Un altro particolare della fotografia “pun­­ge”, come direbbe Roland Barthes: la scritta “IVA” incisa sulla parte anteriore del banco. Senz’altro non si tratta della maledizione fiscale per i poveri freelance (allora c’erano Ige e denuncia Vanoni a togliere il sonno), probabilmente una “femmina” fatale passata di lì e rimasta nell’immaginario dei maschietti a imperitura memoria, o forse l’amichetta del cuore del Maurizino prima della Mariella, soccorritrice di ciclisti carambolati per terra causa rottura dei freni in discesa.
Scorrendo i racconti, viene da chiedersi se il libro sia soltanto a uso e consumo dei bambini di oggi, e non invece anche un “premio di consolazione” per i sessanta-settantenni scolari negli anni del dopoguerra e del boom economico, un com’eravamo che non è un possibile come siamo, perché i decenni di oggi i palloni li acquistano su Amazon già firmati da Cristiano Ronaldo e i contadini che li bucano sono spariti da lustri, le fidanzatine le trovano su Facebook o su Instagram. Del grembiule si sono perse le tracce, forse non lo indossa più nemmeno la casalinga di Voghera, i soldatini sono mostri ammazzasette nella playstation, e i bambini non gareggiano più sui marciapiedi ma tornano a casa da scuola blindati in suv grandi come mausolei, con al volante madri iper cellularizzate.
Però… la poesia salverà il mondo, almeno così si dice, e il libro di Adelfo ne contiene una dose abbondante, perché la vita di allora era una rima ogni giorno diversa: là fuori c’era un universo vero, imprevedibile e fantastico, da toccare con mano e plasmare a piacimento, e graffi e sbucciature erano trofei formidabili come la Coppa dei Campioni.
Chissà se i piccoli lettori di oggi comprenderanno l’insegnamento di questo diario, le quiete “morali” alla fine dei racconti con il monito di mamma e papà o del maestro. Di certo molti genitori potrebbero farne tesoro e saccheggiarne i contenuti, vista la sempre maggior latitanza di educazione a ogni età e latitudine e la volontà attuale di fare dei bambini degli adulti in miniatura, già pieni di obblighi e doveri a partire dall’asilo.
Noi (chi scrive scala dieci anni al Maurizino, ma la sostanza era la stessa) correvamo dietro le lucertole, costruivamo capanne di foglie nel bosco, mangiavamo le more graffiandoci con i rovi, costruivamo ciclopiche piste per le biglie tra la ghiaia dei vialetti dei giardini, ingaggiavamo battaglie con i fichi acerbi usati come micidiali pallottole. Ci sporcavamo con la terra. E giocavamo a pallone per la stra­da, usando i cancelli come porte, e le rose ci erano nemiche, forando due palloni Rifle su tre. Piangevamo, la mamma ci sgridava, e il cartolaio gongolava, ne aveva ordinato uno stock. L’indomani già c’era un’altra formazio­ne in campo. Ma a scuola si studiava, e non si assalivano gli insegnanti.
Il volto di birbante del Maurizino, da cui sprizza intelligenza e curiosità, è quello di tan­ti bambini di allora, pieni di sogni e di chime­re, di ingenuità e passione, certi del porto sicuro di casa, ma con la voglia di vagabondare nel mondo, magari sulle ali di una canzone di successo, orecchiata alla radio in un lontano Festival di Sanremo. Quelle ali, Maurizino Adelfo non le ha perse mai.

Mario Chiodetti
Varese, 13 agosto 2019

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Francesca Anastasi