15,00 €
Autore: Imperia Tognacci
Traduttrice: Angela Pansardi
Editore: Genesi Editrice
Formato: libro
Collana: Le Scommesse, 611
Pagine: 104
Pubblicazione: 2021
ISBN/EAN: 9788874148011
PREFAZIONE
Quando nei primi decenni del 1500 Ferdinando Magellano raggiunse per primo l’estrema propaggine dell’America del Sud, era usanza locale degli indigeni accendere grandi fuochi lungo le frastagliate coste, dato che certamente il legname non mancava loro. Ne derivò che quell’arcipelago fu ribattezzato Terra del Fuoco: terra posta alla fine del mondo, spettacolare trionfo della natura selvaggia, che riunisce in un solo scenario i suoi elementi più ricchi di fascino, cioè il mare, le montagne, i ghiacciai e i boschi fitti e verdeggianti. La città di Ushuaia è la capitale della porzione argentina, mentre l’altra parte dell’arcipelago appartiene al Cile. Agli inizi del Novecento, l’Argentina costruì nella città una vasta colonia penale, ove rinchiuse i criminali più pericolosi, con la convinzione che nessuno di loro sarebbe mai evaso, data la temperatura glaciale delle acque e il freddo pungente e ventoso dell’aria. Inoltre, la Terra della Fine del Mondo era abitata solo da alcuni animali terrestri, da un gran numero di uccelli, tra cui il reale condor delle Ande, ma da pochissimi esseri umani, quindi un eventuale evaso non avrebbe potuto contare su una popolazione diffusa in cui nascondersi e fare perdere le proprie tracce.
Il prigioniero di Ushuaia è un poemetto della scrittrice e studiosa romana Imperia Tognacci. L’opera ha vinto il Premio Penisola Sorrentina nel 2008. Tale prigioniero è un affine dell’Ignoto militi che riposa nel sacello marmoreo dell’Altare della Patria a Roma. Hanno in comune un irrisolvibile anonimato. La scrittrice non ha evocato una figura umana prestabilita e ben determinata; neppure ha richiamato un mito popolare o un personaggio noto della letteratura o delle leggende antiche di quelle terre, di cui gli indigeni presero possesso circa 10.000 anni a.C. In verità il prigioniero è una splendida metafora poetica: è un captivus, catturato e rinchiuso sia dagli uomini sia dalla natura, in una sorta di algido paradiso terrestre, che diviene anche un inferno dell’anima e della disperazione: una croce e una delizia, finché morte non giunga, con nessuna possibilità di fuga e di affrancamento dal destino di prigioniero che la sorte gli ha imposto. Poco importa discettare sul fatto che, nel caso dei carcerati, essi stessi furono gli artefici del loro maligno destino, poiché compirono delle singolari malvagità contro il prossimo. Ciò che trionfa nella metafora poetica è la condizione di insolvibile cattività che li ingabbia in una morsa fatale di splendida bellezza della natura e di terribile desertificazione della società. Si può facilmente intendere quale intensità poetica sia imprigionata nella metafora costruita dalla Poetessa.
Il poemetto è composto da venti medio-brevi testi poetici, di grande patos emotivo e simbolico. Le “stanze” di poesia sono precedute da una dichiarazione della Poetessa circa la fonte ispiratrice del poemetto. Si tratta di una poesia scritta da un anonimo prigioniero della colonia penale in lingua spagnola e tradotta in italiano. È la confessione di un peccatore, per l’esattezza di un assassino capace di “versare sangue umano sul [suo] cammino”: un uomo che sta seduto sul sentiero senza più avere una meta, conscio di non potere arrivare, né sperare, per cui non muove neppure un passo, ma resiste con fede fino a che il fango della storia umana lo ricoprirà e per sempre ne oscurerà memoria. La bellissima poesia iniziale del carcerato potrebbe, con la stessa equivalenza di valore, essere lo sfogo lirico di un anonimo galeotto realmente vissuto o più probabilmente potrebbe essere il falso scopo manzoniano di un fantomatico manoscritto reperito chissà dove e in realtà proveniente, per diletto di finzione, dalla fantasia creatrice della Poetessa. Il poemetto è stato ideato e scritto in italiano, ma il libro porta anche la traduzione in spagnolo, fatta da Angela Pansardi, per omaggio al luogo della Terra del Fuoco – la città di Ushuaia – e all’ignoto Prigioniero, che ha scritto la lirica ispiratrice in lingua spagnola.
L’atmosfera poetica del poemetto è sicuramente di marca simbolista, ma con l’accortezza che la metafora non sfiora mai il ricorso alla mitologia classica. L’indagine, invece, si muove sempre in un radicato territorio di analisi psicologica, per cui si riconosce immediatamente la datazione di modernità del discorso poetico, che è stato scritto da chi ha maturato buona coesistenza con le categorie dell’Io, dell’Es, del Super-Io. C’è una buona confidenza con la moltiplicazione a specchio della personalità dell’autore, in una pluralità di voci dialoganti dentro di sé e dentro l’opera, come ama fare Fernando Pessoa nella sua produzione di eteronimi. Basti leggere i pochi versi centrali della seconda stanza, ove si dice “Non bastate, simboli dei sogni / che dal fondo iceberg dell’inconscio / emergete per parlarmi / di altre dimensioni, / né voi, libri sparsi, / quando il tedio mi incalza / e parte della mia ombra assorbe” per capire che la Poetessa si è incarnata nel Prigioniero, ed è lei a essere seduta sul suo sentiero, anima captiva imprigionata nella Terra del Fuoco. Pochi versi dopo, sempre nella seconda stanza inizia un dialogo che accompagnerà il Lettore lungo l’intero poemetto. Volta a volta cambia la voce parlante. Talvolta si tratta dell’ortonimo della Poetessa – nel senso che sembra proprio lei a parlare. Talaltra è l’anonimo Prigioniero che inanella le sue disperate lamentazioni. Tuttavia, il dialogo può essere sostenuto anche da una voce corale di commento al discorso poetico che si sta sviluppando nell’opera, come accade nelle due notissime tragedie in versi di Manzoni. Infine, chissà quale altro eteronimo parla nel testo: una voce che vagamente spira come refolo sirenico a raccontare situazioni di finzione e dolore, come è nella tradizione di angoscia così cara alla poesia simbolista, appunto, un mal di vivere che fa a pugni con la psicologia del benessere: “Non essere arena / che all’urto dell’onda / si ritrae e si inabissa. Sii scudo di te stessa, / di meta in meta / più vicina sarai al vero”. Teniamo a mente che, come ci avverte la Poetessa in terza stanza “Nello specchio svaniscono / le forme dei corpi, il miele / della finzione su labbra di rosa, / i perimetri certi e fragili dei visi”. Quindi, noi capiamo che la nozione poetica di Terra del Fuoco è un luogo dell’anima, nel quale “Se scavi nelle acque profonde, / attenta alle correnti ambigue, / non seguirle, ti perderai / in gorghi e vortici”.
La natura è uno dei protagonisti principali del poemetto: lo è nel vento, nel ghiaccio, nell’ombra della sera, nel condor che si alza nell’azzurro, nei brividi di luce, nelle rievocazioni di aromi e fragranze di zagare e di limoni fioriti, nella voce del ghiacciaio, nella gelida bellezza polare. Poi dietro l’angolo di una nuova stanza, il Prigioniero – che ormai abbiamo capito essere un eteronimo della Poetessa – seduto accanto all’Autrice sul tronco di quale albero segato all’altezza della neve, viene vanamente interrogato: “Da quale inverno sei uscito, / e da quanto tempo mi aspetti / per porgermi la tua poesia / vergata sul foglio / macchiato di sangue?” Forse, è una sosta del Treno dei carcerati, che si inoltra nei boschi e nell’immobilità del silenzio che avvolge il paesaggio.
L’intero poemetto è un inno elevato al silenzio della natura che cresce e domina la scena, spettacolare e immanente, come una forza assoluta, che non ammette confronti. Nello stesso tempo, è anche un inno alla resilienza, al riscatto, alla capacità di resistere, perché “Nella pace spoglia della neve / hai toccato con un dito / l’inferno, con lo stesso dito / hai toccato il cielo”. E, dunque, la Poetessa può ben dire che “Mi percorre la solitudine / svuotante di questo / paesaggio estremo. / Lontano il rombo / martellante del traffico, / la sofferente corrente di fanali / i sibili di sirene, nella solitudine / di una sera cittadina”. Il Prigioniero è come Cristo nel deserto, ascolta le seduzioni del diavolo, ma vive in solitudine, si tempra nell’animo, si avvicina a quella verità, della quale si è parlato nella prima stanza. Vuole arrivare al “cielo della pace”, vuole lenire “l’arsura del cuore”. Allora, il Lettore intuisce che in realtà il Prigioniero sta compiendo un viaggio extramondano, che non è esattamente quello di Dante, cioè ricalcato dentro la fede cristiana e scandito nelle tre cantiche dell’aldilà – Inferno, Purgatorio e Paradiso. È, invece, un viaggio dentro l’analisi psicologica individuale; è una sorta di autoanalisi o se vogliamo una proiezione psicologica della verità cui può condurre la finzione e la metafora letteraria.
Si apre così l’ultima parte del poemetto, che è quella capace di indicare la meta che il Prigioniero sembrava avere abbondonato di perseguire. Si tratta, ovviamente, di una destinazione di Poesia e appartiene a una geografia celeste, secondo un intercalare dantesco che volta a volta, canto per canto, conduce il Fiorentino a rimirare le stelle, come metafora di luce, amore, verità e altro ancora. Nell’emisfero australe, la Stella Polare che indica la rotta di riferimento ai naviganti, è sostituita dalla Croce del Sud, cui si orienta il Prigioniero, cioè verso la quale si orienta l’identità captiva della Poetessa, per ispirarsi colà ove giunge l’estremo limite della Terra della Poesia: “Oltre il buio del pensiero / onde misteriose ci spingono, / mentre da lontano ci chiama / il tempio dell’infinito”.
Sandro Gros-Pietro
PREFACIO
Cuando en las primeras décadas de 1500 Ferdinando Magallanes alcanzó primero el extremo retoño de América del Sur, era costumbre local de los pueblos indígenas encender grandes hogueras a lo largo de las costas escarpadas, teniendo en cuenta que por cierto la madera no les faltaba. De ello resultó que el archipiélago fue llamado Tierra del Fuego: tierra situada en el fin del mundo, espectacular triunfo de la naturaleza salvaje, que reúne en un solo escenario sus elementos más llenos de encanto, como el mar, las montañas, los glaciares y los bosques espesos y frondosos. La ciudad de Ushuaia es la capital de la porción argentina, mientras la otra parte del archipiélago pertenece al Chile. A principios del siglo XX, Argentina construyó en la ciudad una vasta colonia penal, donde encerró a los criminales más peligrosos, con la convicción de que ninguno de ellos habría escapado, dada la temperatura glacial de las aguas y el frío cortante y ventoso del aire. Además, la Tierra del Fin del Mundo era habitada solo por algunos animales terrestres, por un gran número de aves, incluyendo el real cóndor de los Andes, pero por muy pocos seres humanos, por lo tanto, cualquier fugitivo no podría contar con una población difusa y numerosa en la que esconderse y hacer desaparecer sus rastros.
El prisionero de Ushuaia es un poema de la poetisa y estudiosa romana Imperia Tognacci. La ópera ganó el Premio Penisola Sorrentina en 2008. Este prisionero es un afín del Soldado Desconocido que descansa en la capilla marmórea del Altar de la Patria en Roma. Tienen en común un irresoluble anonimato. La escritora no ha evocado una figura humana preestablecida y bien determinada; ni siquiera ha mencionado un mito popular o un personaje conocido de la literatura o de las leyendas antiguas de aquellas tierras, de las cuales los indígenas tomaron posesión aproximadamente 10.000 años a.C. En verdad el prisionero es una espléndida metáfora poética: es un captivus, capturado y encerrado tanto por los hombres como por la naturaleza, en una especie de álgido paraíso terrestre, que también se convierte en un infierno del alma y de la desesperación: una cruz y una delicia, hasta que la muerte llegue, con ninguna posibilidad de escapar y liberarse del destino de prisionero que la suerte le impuso. Poco importa juzgar sobre el hecho de que, en el caso de los presos, ellos mismos fueron los artífices de su maligno destino, ya que hicieron singulares maldades contra el prójimo. Lo que triunfa en la metáfora poética es la condición de insolvente cautividad que los enjaula en una garra fatal de hermosa belleza de la naturaleza y de terrible desertificación de la sociedad. Se puede fácilmente entender la intensidad poética que está encarcelada en la metáfora construida por la Escritora.
El poema se compone de veinte medio-breves textos poéticos, de gran pathos emocional y simbólico. Las “estancias” de poesía son precedidas por una declaración de la Poetisa sobre la fuente ispiradora del poema. Se trata de una poesía escrita por un anónimo prisionero de la colonia penal en español y traducida al italiano. Es la confesión de un pecador, para ser exactos de un asesino capaz de “derramar sangre humana sobre [su] camino”: un hombre que está sentado en el sendero sin tener un destino, consciente de no poder llegar, ni esperar, así que no mueve ni un paso, sino que resiste con fe hasta que el barro de la historia humana lo cubrirá y oscurecerá para siempre su memoria. La hermosa poesía inicial del encarcelado podría, con la misma equivalencia de valor, ser el aliento lírico de un anónimo convicto realmente vivido o más probablemente podría ser el falso propósito manzoniano de un manuscrito imaginario encontrado quién sabe donde y en realidad proveniente, por diversión de ficción, de la fantasía creadora de la Poetisa. El poema fue ideado y escrito en italiano, pero el libro lleva también la traducción al español, realizada por Angela Pansardi, como homenaje al lugar de la Tierra del Fuego – la ciudad de Ushuaia – y al Prisionero desconocido, que escribió la lírica inspiradora en español.
La atmósfera poética del poema es sin duda de derivación simbolista, pero con la prudencia que la metáfora nunca roza el recurso a la mitología clásica. La investigación, en cambio, se mueve siempre en un arraigado territorio de análisis psicológico, por lo cual se reconoce inmediatamente la datación de modernidad del discurso poético, que fue escrito por quien ha maturado buena coexistencia con las categorías del Ello, Yo y Superyó. Hay una buena confianza con la multiplicación espejo de la personalidad de la autora, en una pluralidad de voces dialogantes dentro de sí y dentro de la obra, como le gusta hacer a Fernando Pessoa en su producción de heterónimos. Lean los pocos versos centrales de la segunda estancia, donde se dice “No sois suficientes, símbolos de los sueños / que desde el profundo iceberg del subconsciente / afloráis para hablarme / de otras dimensiones, / ni ustedes, libros dispersos, / cuando el tedio me presiona / y parte de mi sombra absorbe” para comprender que la Poetisa se ha encarnado en el Prisionero, y ella es la que está sentada en su camino, alma cautiva encarcelada en la Tierra del Fuego. Pocos versos después, siempre en la segunda estancia empieza un diálogo que acompañará al Lector por todo el poema. De vez en cuando cambia la voz hablante. Algunas veces se trata del ortonimo de la Poetisa – en el sentido de que parece ser ella misma la que habla. Otras veces es el anónimo Prisionero que entreteje sus lamentaciones desesperadas. Sin embargo, el diálogo también puede ser sostenido por una voz coral de comentario al discurso poético que se está desarrollando en la obra, como ocurre en las dos famosas tragedias en versos de Alessandro Manzoni. Por último, quién sabe qué otro heterónimo habla en el texto: una voz que vagamente sopla como ráfaga de sirenas y cuenta situaciones de ficción y dolor, según la tradición de angustia tan querida por la poesía simbolista, exactamente, un mal de vivir que golpea con la psicología del bienestar: “No seas arena / que al chique de la onda / se retrae y se hunde. Seas escudo de tí misma, / de meta en meta / màs cerca serás de la verdad”. Tengamos en cuenta que, como nos advierte la Poetisa en la tercera estancia “En el espejo desaparecen / las formas de los cuerpos, el miel / de la ficción en los labios de rosa, / los perímetros seguros y frágiles de las caras”. Entonces, averiguamos que la noción poética de Tierra del Fuego es un lugar del alma, donde “Si escavas en las aguas profundas, / ten cuidado con las corrientes ambiguas, / no las sigas, te vas a perder / en remolinos y vórtices”.
La naturaleza es uno de los protagonistas principales del poema: está en el viento, en el hielo, en la sombra de la noche, en el cóndor que se levanta en el azul, en los escalofríos de luz, en las evocaciones de aromas y fragrancias de azahares y de limoneros floridos, en la voz del glaciar, en la gélida belleza polar. Luego, detrás de la esquina de una nueva estancia, el Prisionero – que ya hemos establecido ser un heterónimo de la Poetisa – sentado cerca de la Autora en el tronco del árbol asserrado a la altura de la nieve, es vanamente interrogado: “¿De qué invierno has salido, / y desde cuándo me esperas / para ofrecerme tu poesía / vergada en la hoja / manchada de sangre?” Tal vez, es una parada del Tren de los presos, que se adentra en los bosques y en la inmovilidad del silencio que envuelve el paisaje.
Todo el poema es un himno elevado al silencio de la naturaleza que crece y domina la escena, espectacular e inmanente, como una fuerza absoluta, que no admite comparaciones. Al mismo tiempo, es también un himno a la resiliencia, al rescate, a la capacidad de resistir, porque “En la paz despoja de la nieve / has tocado con un dedo / el infierno, con el mismo dedo / has tocado el cielo”. Y, por lo tanto, la Poetisa puede bien decir que “Me recorre la soledad / vaciante de este / paisaje extremo. / Lejos el ruido / palpitante del tráfico, / la sufriente corriente de los faros / los silbidos de sirenas, en la soledad / de una noche ciudadana”. El Prisionero es como Jesús en el desierto, escucha las seducciones del diablo, pero vive en soledad, se endurece en el alma, se acerca a la verdad, de la que hemos hablado en la primera estancia. Quiere llegar al “cielo de la paz”, quiere aliviar “el ardor del corazón”. Entonces, el Lector intuye que en realidad el Prisionero está haciendo un viaje ultramundano, que no es exactamente lo de Dante, es decir recalcado dentro de la fe cristiana y marcado en los tres cánticas del más allá – Infierno, Purgatorio y Paraíso. Es, en cambio, un viaje dentro del análisis psicológico individual; es una especie de autoanálisis o si queremos una proyección psicológica de la verdad a la que puede conducir la ficción y la metáfora literaria.
Se abre así la última parte del poema, que es la capaz de indicar el destino que el Prisionero parecía haber dejado de perseguir. Se trata, obviamente, de una meta de Poesía y pertenece a una geografía celestial, según el decir dantesco que de vez en cuando, canto tras canto, conduce el Florentino a rimirar las estrellas, como metáfora de luz, amor, verdad y mucho más. En el hemisferio austral, la Estrella Polar que indica la ruta de referencia a los navegantes, es reemplazada por la Cruz del Sur, hacia la cual se orienta el Prisionero, es decir la identidad cautiva de la Poetisa, para inspirarse allí donde llega el extremo límite de la Tierra de la Poesía: “Más allá de la obscuridad del pensamiento / olas misteriosas nos impulsan, / mientras desde lejos nos llama / el templo del infinito”.
Sandro Gros-Pietro
(traduzione di Angela Pansardi)
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