Il regno della fantasia

La poesia di Aldo Sisto è una costante dichiarazione d’amore alla vita, uno sfogo dell’anima e della mente verso le persone e le cose, che hanno affollato ed animano il suo intenso vissuto quotidiano.
La prima parte molto ricorda da vicino classici canzonieri dell’antichità, primi fra tutti quelli di Catullo e Ovidio. La sua è una passione avida e ardente e la poesia ne è il diario fedele e segreto, soprattutto nel ricordo e nel rimpianto di quanto si è solo sfiorato e non vissuto interamente. Le alternanze dell’amore sono, in questa silloge, descritte con una sconcertante verità, nel diniego, nell’accettazione, nella mancata rivelazione. Qualche acuto interprete ha scritto che gli amori non rivelati sono i più poetici ma ha forse dimenticato di aggiungere che sono anche quelli che provocano maggiore rimorso e rimpianto. Chi cerca di cogliere tutte le fasi di un sentimento che, come un fiore, gemma e si schiude alla luce, al sole, può percorrere i transiti, teneri e struggenti, di questa silloge, il cui autore mira ad abbracciare tutte le possibili varianti dell’eros, persino quello di un amante cieco, di cui registra tutti i sensi e sentimenti, molto più acuti di un vedente.
La seconda parte è dedicata alle persone amate, che hanno lasciato il mondo, sedimentando una scia di rimpianto senza fine. La riflessione sulla morte qui si fa intima, intensa e lascia vibrare i fili più sottili di una sensibilità esemplare, estrema, quale non può che essere quella del poeta.
La terza parte si concentra sul rapporto con il divino, che viene considerato nel suo aspetto umanissimo. Il colloquio che Sisto imbastisce con Dio acquista toni di affabile confidenza, nel momento in cui egli concepisce il Signore come una creatura, senza dubbio, superiore, ma non per questo non esposta alle turbolenze del mondo. Anzi, si può dire che, proprio per la sua particolare condizione, egli è invocato ad incarnare tutta la gioia e tutto il dolore, soprattutto, quando, da padre, è costretto ad assistere alla Via Crucis del suo figlio diletto, Gesù. Ed è questa humanitas ad esaltare la inconfutabile divinitas di un Essere, che l’uomo vuole sentire vicino, per poter meglio identificare il personale itinerario umano con quello universale celeste, nella piena persuasione che l’uomo continua ad essere un fragile riflesso dell’assoluto. E la cerniera più misteriosa tra uomo e Dio resta la poesia, che, sulla scia del poeta, umanamente divino, costantemente evocato, Dante Alighieri, pro­ietta l’uomo sullo schermo dell’eterno.
La radice e la ragione profonda del titolo della raccolta poetica, che qui si introduce, è tuttavia chiarita nella quarta parte, dove il poeta sogna di volare sull’ippogrifo ariostesco, per sconfinare ad una velocità sovrumana in un universo, capace finalmente di superare i limiti condizionanti dello spazio e del tempo. Quest’ansia d’infinito è indotta però a rientrare giustamente in una visione cristiana del mondo, per non incorrere nella “fraudolenta” perdizione dantesca di Ulisse oltre le turbinose colonne d’Ercole. Sisto ricerca così un equilibrio, una misura, un’armonia, capaci di restituire alla vita tutta la sua sostanza, tutto il suo valore, anche in vista di un incontro finale con la «bella signora», che lo invita ad accontentarsi di ciò che ha fatto, di ciò che è stato, e a non cercare altrove e oltre nuove forme di esistenza. La vita non può che essere una catena d’amore, destinata a generare altre vite, che solo nell’amore potranno trovare pieno appagamento alla loro fragilità, alla loro inquietudine, nel nome di una ultimità, che il poeta teorizza e pratica come unico, possibile codice di vita.
Al centro di tutto ciò che appartiene alla natura, alla religione, che l’uomo non può violare, pena la vita stessa, resta la poesia, che permette di attraversare regioni dell’anima, spesso interdette a chi non gode di questo umano e divino privilegio. Il poeta è destinato a soffrire, ma anche a godere di più e quest’ultima condizione lo rende fortunato e felice. Sisto vuole, a tutti i costi, essere riconosciuto poeta non del verso ma della vita, perché sa che quest’ultima è più importante di ogni cosa e per questo va difesa, esaltata, goduta. Non ha, insomma, senso essere riconosciuti poeti mentre si tradisce la vita. Ecco perché il suo sguardo si affissa sui suoi simili, per capirli, ma soprattutto amarli, nella consapevolezza che nel dolore l’amore può celebrare i suoi più meritori trionfi.
Poesia morale, ma senza moralismi, può essere, alla fine, definita questa continua ricerca di una verità che si ricongiunga alla vita e alla sua sostanza più intima. Anche per questa ragione, la voce dell’autore vola alto, ricamando un linguaggio aulico, frutto delle molte letture ma, soprattutto, di un atteggiamento antico nei confronti di un tempo, che deve assolutamente cercare nella tradizione la ragione più profonda del proprio impegno nel mondo. Classicità, del resto, significa durata, coraggio di seguire le strade sicure dell’arte, che portano ad approdi vigili e sereni.

Francesco D’Episcopo

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