PREFAZIONE

La poesia di Roberto Stefano Moro risplende di nitore espressivo e stabilisce relazioni mediate tra situazioni lontane, apparentemente inconciliabili. Me­glio di un saggio filosofico e in modo più intuitivo di una teoria astrofisica, questi Versi per amore esplorano la realtà come una complessità di spazio-tempo interdipendente, strettamente correlata alla nostra situazione umana di creature votate a nominare per amore l’architettura dell’universo. E ne deriva che l’abisso di ingegneria biogenetica che separa l’archaea dal corpo umano diviene non più dello sfioro cutaneo di un brivido sulla pelle: una sensazione di appartenenza e di attrazione. Si stabilisce una relazione fra noi e ciò che è interfaccia della creazione ossia il motore dell’universo: il poeta ci dice che si tratta di “versi per amore”, e in questa di­zione ci pare di udire l’eco di Dante, e di quel tale amore che muove il sole e le altre stelle.
Roberto Stefano Moro si muove in modo rigoroso e netto sempre all’interno della realtà. Egli ap­prende da una perfetta conoscenza delle conquiste dell’astrofisica moderna che la realtà è grigia, materica, dispersiva e dispersa, in un universo che è il vuoto pressoché assoluto di spazio e di tempo. Per cui gli odori, i suoni, i colori, i pesi e le misure, il caldo e il freddo, l’alto e il basso, il prima e il dopo, la vita e la morte sono degli specchi che rifrangono unicamente le condizioni della nostra cultura, ma che non hanno alcun riscontro autonomo nella materia creata, cioè in quello che c’è fuori da noi. Per cui muoversi dentro la realtà, non può significare altro che muoversi all’interno della nostra cultura umana e della nostra capacità di stabilire relazioni sempre più vaste, più efficaci, più totalizzanti fra tutte le cose che noi abbiamo imparato a nominare e che fanno parte dell’architettura dell’universo che abbiamo co­struito come paradigma umano di relazione stese fra di noi e fra ciò che noi crediamo che esista nel creato, cioè la dimensione di spazio e di tempo il cui enigma ancora ci sfugge totalmente, esattamente co­me ci sfuggiva all’origine della nostra civiltà. Come in una visione prospettiva, diviene fondamentale stabilire il punto di fuga, da cui originano le linee di lettura del paesaggio che ci circonda. E il punto di fuga della realtà non sta mai nelle cose osservate, che di per sé non esistono se non in modo grigio, disperso e dispersivo, ma sta nella postura assunta all’interno della cultura umana, che legge tutto ciò che esiste o, meglio, legge tutto ciò che noi siamo portati a credere che esista, in quanto specchio della realtà che noi abbiamo prefigurato: il nostro passato, presente e fu­turo e ogni altra cosa data per pensabile.
Ne deriva che il verso per amore – che di per sé altro non è se non che un’espressione metaforica della parola poesia – è un movimento di relazione fra le cose e le persone, cioè una sinapsi di collegamenti istituiti fra tutto ciò che compone la nostra realtà: dicasi, la nostra architettura del mondo. La poesia è l’epica – il racconto infinito e glorioso – dei collegamenti fra le cose e le persone del mondo reale: ne è la storia consacrata ed eterna, che, in realtà, si consuma con la lentezza con cui si consuma il mondo, in una irrefrenabile dispersione entropica. Così la poesia diviene diario della memoria delle relazioni uma­ne fra oggetti e soggetti, ma diviene anche manuale esplicativo che svela il sotterraneo funzionamento di tali relazioni. La poesia è contemporaneamente hardware e software dell’operare umano nel processo di consapevolezza del mondo reale, con l’avvertenza che per mondo reale non si potrà mai intendere lo specchio della realtà, cioè la manifestazione epifanica del mondo, ma occorrerà sempre rifarsi al­la modalità di relazione con cui l’uomo ha costruito la sua architettura della realtà, quest’ultima essendo di per sé una entità di spazio-tempo a perdere dell’universo. Il poeta deve essere consapevole di vivere sul niente del nulla: egli è totalmente impossibilitato a vedere ciò che esiste, se non che attraverso la sua del tutto arbitraria architettura della realtà. Il processo di conoscenza del reale è la misurazione della no­stra cultura e la poesia ne è l’incanto estetico. Anzi, usiamo senz’altro la parola forte, che ha affascinato Dante in origine e che fa tremare i polsi a Roberto Stefano Moro: la poesia è l’atto d’amore della real­tà, cioè della nostra cultura, cioè del nostro modo di relazionarci con il mondo in cui supponiamo di essere contenuti. Il palindromo ama – per applicare la metafora di Primo Levi – ne è la chiave a stella, che funziona in ogni direzione, avanti e indietro, grande e piccina, ecc.
Credo che non vi sia un’applicazione più corretta e più competente di quella che già da anni ho definito come geoepica, cioè la visione della poesia come storia infinita delle relazioni dell’uomo con gli oggetti e i soggetti, cioè principalmente storia infinita delle relazioni tra il pianeta Uomo e il pianeta Terra. Particolare significato, in questo viaggio di sa­pienza dentro la conoscenza, assume l’eros in quanto declinazione delle relazioni attrattive di incontro e confronto fra diversità consimili che si magnetizzano fra loro. E il mistero si rende più fitto o forse più debole agli orli di confine del sapere umano, cioè in quelle situazioni di dislessia o di difetto delle funzioni di progetto del pensiero in cui si mettono più a nudo le condizioni di forza e di debolezza del nostro sistema amoroso rivolto al mondo reale, l’unica cosa che noi crediamo davvero di possedere, perché l’abbiamo del tutto inventata.

Sandro Gros-Pietro

Anno Edizione

Autore

Collana

Recensioni

Non ci sono ancora recensioni.

Scrivi per primo la recensione per “Versi per amore”

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati