Prefazione

L’epigrafe è la misura ideale della composizione poetica di Nino Pinto. La natura poetica delle sue composizioni è rivelata dal sostanziale carattere metaforico del discorso, che tende a fornire una rappresentazione astratta e simbolica della realtà, anche utilizzando un ricorso diffuso alla tradizione storica dei miti antichi e delle divinità pagane. Tuttavia, non va trascurato il carattere filosofico dell’opera di Pinto, il quale tende a ricorrere alla ragione e all’analisi dei fatti e delle cose almeno quan­to, se non di più, egli faccia affidamento al sogno, all’evasione, all’emozione dei sentimenti e dei patimenti dell’anima, che si manifestano in modo analogico, cioè che sono svincolati dal processo di osservazione delle concause degli eventi. Ne deriva che la personalità complessa di Nino Pinto è un’espressione al plurale di poesia e di pensiero, in una lega del linguaggio che è partecipe alla descrizione del mondo non meno di quanto non sia proclive all’affabulazione del sogno, cioè al racconto interpretativo e soggettivato di un’esperienza parallela ma distinta dalla realtà.

L’orientamento della ricerca è sostanzialmente leopardiano: è un’evocazione memoriale del “possente errore” che imprigiona e che illude le menti degli uomini, i quali sono portati a sognare “le magnifiche sorti e progressive” del genere umano e non si accorgono, invece, di essere rinchiusi in una gabbia di impotenza e di disperazione. Un nero pessimismo, dunque, che in chiave moderna si esprime nei modi e nelle forme dell’esistenzialismo: una condizione di angoscia e di soffocamento, bene rappresentata, in pittura, dal grido di Edvard Munch e che ha come contraltare in letteratura gli aforismi e i sillogismi dell’amarezza di Emil Cioran, la figura gigante delle letterature europee del ventesimo secolo, il quale ebbe modo di autodefinirsi “fratello di elezione” di Giacomo Leopardi, proprio come si definisce Nino Pinto. Il pessimismo di Nino Pinto, esattamente come già accadde a Cioran, si distanzia dagli altri esistenzialisti, tipo Sartre e Camus o Simone de Beauvoir, perché non ne condivide affatto l’impegno politico a favore del­le masse, che semmai sono considerate ancora più pericolose e infide delle classi privilegiate, perché più illuse di realizzare riscatti e risarcimenti del tutto velleitari.

C’è il fascino di una cultura del rifiuto sociale, altamente elitaria o quanto meno corazzata di misantropia e votata al nascondimento di sé e all’esclusione dall’agorà politico, con tutto il rischio che questa sponda di impostazione ideologica comporta nelle conseguenze della possibile manipolazione e dell’appropriazione indebita e speculativa da parte degli agitatori delle masse popolari. Basti pensare al riguardo al fiore del male del nazismo che si è alimentato in modo non autorizzato ma efficacissimo ai danni della speculazione filosofica condotta da pensatori – e talvolta da poeti, e a quali livelli! – come Kierkegaard, Nietzsche e Heidegger. C’è da dire che il mondo contemporaneo appare assai meno influenzabile dagli istrioni politici che speculano sulla filosofia elaborata dalle grandi menti, ma non pare esente dagli istrioni politici che si ispirano ai comici e ai cabarettisti semi acculturati e spocchiosamente supponenti dei giorni d’oggi. Ne deriva che la buona cultura deve sempre rimanere in specola, ad osservare quanto può arrivare dal deserto dei tartari, come insegnava metaforicamente Dino Buzzati. E ci sembra di potere concludere che Nino Pinto sia, al riguardo, una vigile anima di vedetta, un “assente” in realtà sempre vicino e presente e amico.

Sandro Gros-Pietro

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