Premio I Murazzi per l’inedito 2015 (Dignità di stampa)
Motivazione di Giuria:

La fluente poesia sviluppata negli anni dallo scrittore lucano Michele Battaglino, sempre orientata a sottolineare l’importanza dell’impegno civile e dell’esercizio continuo dello studio e dell’affinamento dell’umano sapere, trova nel libro di poesia Tessere alla deriva una rappresentazione organizzata per tre sezioni – Partenze e ritorni, Sillogismi e Haiku – le quali forniscono la visione, come trittico d’altare, in primo luogo del mondo dello scrittore rappresentato per sentimenti e per emozioni personali e familiari, anche legate alla bellezza incomparabile della terra d’origine, a cui seguono osservazioni e riflessioni di cittadino del mondo, impegnato nello sforzo di orientare sé stesso e il prossimo a perseguire un futuro migliore, e per ultimo al balenio caleidoscopico di illuminazioni poetiche di breve intensità e vertigine, in un festoso dardeggiare d’opinioni rivolto all’orizzonte degli eventi umani.

Prefazione

Michele Battaglino sviluppa una ricchezza di studi e di attività intellettuali a vario titolo che lo rende interprete di rilievo in molti campi della cultura italiana. Accanto all’amore per la letteratura, soprattutto la poesia, sia antica sia moderna, convivono in lui la pro­sa, la storiografia, lo studio delle forme e dei tempi del­la civiltà letteraria e quindi l’impegno nella saggistica critica, con particolare attenzione anche alle espressioni in dialetto lucano. Ma in lui c’è anche il pedagogo, che ha rivolto l’intera attività lavorativa alla formazione culturale dei giovani e che ha svolto incarichi di insegnamento, partendo dai gradi iniziali per poi giungere fino ai livelli di massima re­sponsabilità gestionale, direttiva, di programmazione e progettazione delle nuove forme di insegnamento. È, tuttavia, nel campo della poesia che si può riscontrare la rappresentazione più libera e profonda della sua personalità intellettuale.
C’è una poesia che vale come una dichiarazione esplicita di poetica. Si intitola Niente crea il poeta e vale la pena di citarla per intero, giacché è una sorta di ricapitolazione perfettiva che tende a mettere in luce l’intero orizzonte degli eventi che può interessare il poeta: “Niente crea il poeta ma parole / e fatti del giorno manipolando / a fantasmi dà vita e a oggetti / personalizzati. È nell’impasto / la novità se riscaldato / da pulsioni e fremiti e valori. / Nei vocabolari e nell’uso / spulcia le voci e le mescola / le fa brillare aprendo squarci / di immagini fasci di luce / sequenze di ritmi di melodie / e sprigionando calore di sensi. / Permane nell’orecchio l’armonia / e l’aria circostante invade. / E se non riesce col buco la ciambella / resta nel bozzolo la poesia / addormentata o abortita ma / è grande lo sforzo eseguito.” Si tratta di una definizione che po­trebbe andare bene per qualsiasi concezione stilistica di poesia contemporanea, da Leopardi in avanti, per venire fino ai giorni nostri. Il primo concetto è che non c’è creazione nella poesia, per cui il poeta non è il demiurgo in contatto con Dio, capace di intravederne la vo­lontà di ordinare il cosmo a sua immagine, ma non è neppure Prometeo che riscatta dalla tenebra gli uomini e li incammina sulla strada del progresso. Tuttavia, il poeta è un buon “impastatore” di “voci” che raccoglie sia dai dotti vocabolari sia dall’uso popolare del linguaggio (anche dialettale) e che organizza insieme “i fatti del giorno” – cioè la quotidianità – e i “fantasmi” e gli “oggetti” – metafora di idee e ideologie e filosofie astratte e di azioni compiute dagli uomini – tutto ciò al fine di sprigionare il “calore dei sen­si”, ulteriore me­tafora che vorrebbe significare la gioia di vivere ovvero l’impulso al rispetto e alla conoscenza profonda dei valori della vita. E qualora poi al poeta non riesca “la ciambella col buco” – metafora popolare per intendere che la poesia scritta si riveli poco significativa – dantescamente diremo che sia un “vasel” che compie un “picciol viaggio” – sarà pur sempre encomiabile lo “sforzo eseguito”, cioè sarà comunque una questione di merito avere sviluppato “ars et labor”. Corre la mente a Montale: “la poesia forse è inutile, ma ha il pregio di non essere nociva”, o qualcosa di simile. Con questo sorriso di benevolenza rivolto ai poeti – che è anche un atteggiamento di temperanza – Michele Battaglino scrive poesie da trentacinque anni, cioè dall’uscita di Sotto il cielo di tutti, che risale al 1981, anno in cui lo scrittore aveva già compiuto e ultimato i suoi percorsi di formazione e già era divenuto un emergente docente di Italiano e Latino nei licei. Dunque, per Battaglino, il ricorso alla poesia non è stato un approdo per “fare carriera” o, per dir­la alla Salvador Dalí, per “far parlare di sé”, ma invece deriva dal gusto di ampliare e approfondire la sua indagine intorno all’uomo e al suo contegno civile e storico. Possiamo, allora, definire quella di Battaglino una poesia della riflessione e della ricapitolazione, giam­mai sac­cente, ma sempre indagatrice, talvolta an­che con stupore davanti alle sorprese che il mondo ci riserva, e sempre illuminata di speranza e animata dalla buona vo­lontà di fare qualcosa a vantaggio del già citato “ca­lore dei sensi”.
Il libro Tessere alla deriva svela nel titolo l’animus dell’opera, che vorrebbe, sì, concepire il progetto di un disegno totalizzante e capace di campire la vita e organizzarne i “fatti”, i “fantasmi” e gli “oggetti” in un mosaico come fosse la Commedia umana di Balzac ov­vero l’opera enciclopedica e simbolica di Shakespeare, ma per l’entropia che disgrega la poesia moderna, per l’assedio del caso, per l’aggressione del banale, per la malignità della violenza, per l’erosione del tem­po, per molti altri motivi e concause, ecco che il progetto subisce una sorta di degrado, e quella visione unitaria si scompone in singoli frammenti, quasi dispersi, come accadde alle celeberrime foglie di Sibilla ricordate da Dante, “che il vento dissigilla”, per cui divengono elementi apparentemente scoordinati, sebbene provenienti da quel tale discorso presumibilmente globale che erat in votis. Così il libro, per altro meraviglioso, di Michele Battaglino porta in sé la natura di opera erosa dal tempo e dagli eventi, cioè dal “mestiere di vivere”, es­sendo una sorta di diario improprio della vita quotidiana. La prima parte, che si intitola Partenze e ritorni, è quella più carica di nostalgia, perché è dedicata alla terra natia della Lucania, dalla quale Battaglino, anche se destinato a vivere principalmente in due regioni lontane, il Piemonte e la Toscana, non si è mai affettivamente distaccato, ha mantenuto sempre vigile e operativo il legame con la terra del Sud, cui dedica, tra le tante altre, anche la bella e accorata poesia Mio Sud. Ma non vanno dimenticati né sottaciuti gli interessi da archeologo del poeta, che va alla ricerca delle antichissime origini della sua terra, in cui si stanziarono popolazioni evolute di molto precedenti alla successiva civiltà di Roma. Questo gusto per l’antichità nasce dalla formazione umanistica e classica del Poeta, che si sente a suo agio non solo nel tempo contemporaneo, a partire dal suo anno di nascita per giungere fino ad oggi, ma anche nel tempo che egli ha ricostruito con gli studi e che rappresenta la sua autentica casa in cui vive, cioè l’intero mondo della sua poesia. Si tratta di una dimensione temporale sovradimensionata che risale all’antichità ellenica e che giunge fino alla civiltà cibernetica di oggi, il cui ultimo ritrovato, l’iPad, fa parte dell’armamentario della quotidianità del Poeta, anche se è un poco trascurato, per lo più rinchiuso dentro un armadio, ma tuttavia incombente co­me marchingegno quasi diabolico di informazione e di presunzione. Genzano, Bantia, il Vulture e le falene so­no indubbiamente tra le tessere più affascinanti di questa marea di memorie, movimentata da flussi e da risacche, con un andamento di vai e vieni lungo il corso de­gli anni, in cui si affollano – in base alla ricetta elaborata dal Poeta – i “fatti”, i “fantasmi” e gli “oggetti”. Bi­sognerebbe dire anche qualcosa sullo stile di Battaglino, apparentemente scevro da ricercatezze letterarie, fino al punto di apparire corsivo, ma anche sempre così controllato nella pertinenza delle costruzioni, nell’impiego parattatico delle coordinate che si incastrano con una giustezza da tipografo bodoniano nell’allineamento tra significato e significante e più di tutto nella straordinaria varietà lessicale del discorso, “impastato” con un linguaggio poetico estremamente elastico ed espressivo, in cui il ricorso al dialetto diviene una gemma di sapiente scrittura pluralistica, come ci svela nella sua poesia Il dialetto: “Spunta improvviso al po­sto giusto / dando colore e forza ai moti caldi / dell’anima e allora si accende / la bocca vibrando di rabbia e dolore / o si addolcisce di tenerezza”. Con una certa dose di rattenuta ironia, la seconda sezione del libro è stata dal Poeta nominata Sillogismi, a sottolineare, con un riferimento al mondo classico, l’importanza tutta mo­derna della ragione e, quindi, del cogito ergo sum, cioè della definizione dell’essere che si basi sulla consapevolezza di sé e del suo pensiero. Un invito, dunque, a usare la ragione, l’analisi, lo studio, il confronto, il colloquio interiore ed esteriore sui grandi temi gnoseologici che rendono splendente eppure debole – co­me dice il filosofo Gianteresio Vattimo – il pensiero del­l’uomo contemporaneo, sostanzialmente di influsso nietzschiano: la solitudine dell’uomo davanti all’indifferenza universale del cosmo, il quale è aduso a manovrare delle soglie quantitative di realtà macroscopiche e microscopiche tali da non potere essere neppure im­maginabili dalla mente umana, come sottolinea il noto astrofisico Stephen Hawking. Questa seconda sezione, così arresa al mistero del cosmo e della vita, è anche la più toccante per la vastità e lo sconcerto che suscita nel lettore. Il libro si conclude con una gioiosa vacanza di “esercizi di stile” o se si preferisce di “applicazioni sulla tastiera”, in cui il Poeta si diletta e diletta il lettore nel dare esempio della sua facilità ed efficacia nel verseggiare sul modello dell’haiku: si tratta di lievi e luminose pagine che rappresentano il festoso congedo del Poeta dal suo viaggio à rebours nei meandri della men­te e del tempo, compiuto nelle due sezioni precedenti.

Sandro Gros-Pietro

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