Prefazione

Le poesie di Carla Killander Cariboni sono un percorso di interpretazione e di commento dei modi di vivere, una traccia della vita in versi, che ci ricorda l’argomentare poetico di Giovanni Giudici, ma anche un insieme di spunti velatamente autobiografici, come se fosse un richiamare alla memoria il mestiere di vivere, di Cesare Pavese. Non si deve intendere che Pavese e Giudici sia­no assunti come autori di riferimento dalla Killander Cariboni, poetessa culturalmente e letterariamente mol­­to attrezzata: è una Poeta che ama la scrittura descrittiva e denotativa, organizzata in quartine, incatenate dal­le rime, con versi per lo più liberi o comunque di dimensioni differenti, per cui si ritrovano settenari, novenari, endecasillabi e altro ancora, a riprova dell’ampio registro di possibilità metriche adottato. La Poeta Killander Cariboni sembra volutamente evitare l’endecasillabo – come già era nei proponimenti di Eugenio Montale – e mantenersi ribelle rispetto al fascino della tradizione letteraria italiana, per cui attua soluzioni sostitutive o alternative.
Va detto che la Poeta è originaria di Torino, anche se oggi vive in Svezia, e noi siamo portati a supporre che nel suo DNA poetico ci debba essere qualche seme gozzaniano, qualche ricordo della Villa Il Meleto di Agliè, dicasi una via del rifugio, verso una tradizione che fa rima dicotomica con ribellione.
In verità, la Poeta andrebbe collocata nel filone della Poesia cosiddetta “antinovecentista”, cioè quella che prende piede con Umberto Saba e poi si sviluppa con gli autori già citati e che arriva fino a Giovanni Raboni: ciò che conta sono le cose concrete del mondo, quelle che Maurizio Cucchi ama definire le “robe dense”, il che significa raccontare come vanno le cose della realtà e tralasciare la lirica dei sentimenti, evitare le emozioni struggenti, i patemi nostalgici.
Ancora di più, significa andare contro l’ermetismo, il simbolismo, la metafora polivalente e fumosa, ma agganciarsi strettamente alla logica dei rapporti, alla consequenzialità dei meccanismi razionali di causa ed effetto, a quella splendida e impagabile stagione del realismo e del neorealismo che ha reso celebre l’Italia della letteratura e del cinema in un ponte ideologico che unisce la fine Ottocento con il Novecento.
Resta il fatto che nell’indossare il trench coat con martingala e il cappello con la veletta – fuori di metafora, si intenda vestire il verso con la metrica della tradizione che grosso modo finisce con Gozzano – c’è negli intenti di Carla Killander Cariboni non solo un desiderio di risveglio e di rinnovo delle tradizioni, ma ancora di più un ammiccamento ironico e un poco sbarazzino.

Sandro Gros-Pietro

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