PREFAZIONE

La poesia di Maria Teresa Infante consiste in una ricognizione di carattere sostanzialmente psicologico delle possibilità denotative e interpretative della parola poetica. Tra i versi – molti dei quali sono dei perfetti endecasillabi, ma quasi per caso o a causa di una deriva per forza maggiore del linguaggio poetico italiano – affiorano principalmente paesaggi mentali, percorsi logici e ancora di più camminamenti impervi e analogici, arditi collegamenti e scontate rime, con inopinate assonanze e calamitate armonie. Siamo di fronte a un percorso a salti e sviamenti, allineamenti e lampi, con oscurità e accelerazioni, improvvise stasi e sospensioni. Non si sa mai cosa ci aspetta dietro l’angolo, perché dopo André Breton siamo divenuti tutti poeti senza cielo, e non si sta più leopardianamente a cantare la luna, col naso all’insù, ma viviamo nelle sinapsi del nostro cervello, negli anfratti franti della memoria imbizzarrita.
Infante ha certamente un ricordo incombente delle muse inquietanti dei surrealisti: quel vivere a fianco dell’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, quel vellicare il linguaggio nei suoi automatismi espressivi, una parola che tira l’altra, un pensiero che si arronciglia in un intrigo di significati sfuggenti, quel frottage grattage collage e assemblage del linguaggio, con le parole che s’incastrano con significati sghembi eppure rivelatori: aprono e chiudono altre prospettive, sulle scale di Escher – chi sale e chi scende, chi apre e chi chiude, chi appare e chi scompare. La dinamica versale è una partita a tennis fra la memoria che registra in modo casuale i relitti citazionali delle grandi opere provenienti dal passato e la dinamica dei sensi, la tattile sensualità delle mani che sfiorano e che toccano le cose quotidiane, accarezzano la pelle, e poi agitano fantasmi nel brodo primordiale dell’Es. Siamo sul confine della psicologia, ma anche del sogno, e della fantasia e della rimembranza casalinga, perché ovviamente c’è il nido di Pascoli e c’è la madre di Ungaretti, la mozione degli affetti, con altri confetti, in versi perfetti. Sovente il linguaggio poetico di Maria Teresa Infante intona un rapido rondò a mulinello, equidistante dal tormento / tormento / che rinnego ogni momento: si tratta di ecolalie, un rintrono di assonanze che gioca con il significato delle parole.
L’obiettivo dello studiato linguaggio poetico di Maria Teresa Infante è in primo luogo la liberazione dalle convenzioni sociali, che non si limitano a essere la terribile Trimurti Stato-Scuola-Chiesa, unica teofania dell’oppressione istituzionalizzata, ma che diventano anche le convenzioni della logica, della grammatica, della ragione in generale, perché non è affatto detto che il cielo è sempre più blu, con buona pace di Rino Gaetano e del suo eccezionale caravanserraglio di parole in libertà. Il secondo obiettivo è l’avvaloramento del sogno e lo sconfinamento nella follia: già Erasmo aveva benedetto la follia e ne aveva fatto l’elogio, ma ancora più i poeti di sponda surrealista. Il terzo obiettivo fondamentale è l’ideologia dell’amore che ha sia un piede nella sensualità del paganesimo sia un piede nell’agape misericordiosa del cristianesimo, come bene si può leggere nella poesia eponima, fra le più alte di questo bel libro, Extrema ratio, ossia l’ultima chance che ci resta da giocare. L’amore, appunto: proprio quello! Quell’amore, che è speranza di vita migliore, di liberazione, di affrancamento dalle prigioni: quell’amore che affonda nell’Utopia, il piroscafo che si inabissa nella baia di Gibilterra, in diciassette metri di profondità, a un passo dalla salvezza.
Le poesie di Maria Teresa Infante contengono principalmente costruzioni della mente e visioni di scorci della città, pezzi di corpi umani, principalmente le mani, vaghi frutti della natura, specialmente i limoni – ma non sono quelli di Montale – poi ci sono biciclette e lavandini, stelle del cielo e pasticche di valium, pigiami e sigarette Wiston Slim Blu, proverbi latini, ma di derivazione greca, de mortuis nihil nis bonum dicendum est, bisogna sempre parlare bene dei morti, maiuscole simboliste del linguaggio – il Tutto e il Niente – dove i grafemi scindono gli schemi e la conclusione è che: omnia fert aetas, il tempo porta via tutte ’e cóse, direbbero nel nostro Sud.
Grande festa dell’intelligenza poetica è la scrittura di Maria Teresa Infante, nel senso più letterale ed etimologico della parola: un vero inno alla gioia di collegare le cose fra di loro e di raccontare una storia che si colloca bene nel naufragare m’è dolce in questo mare, tenendo a mente che può anche essere un’orribile disgrazia.

Sandro Gros-Pietro

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