Prefazione

Da cassetti fino a poco fa inesplorati, tra vecchie lettere e fotografie, sono emersi esili e buffi versi, scritti per scherzo dal mio babbo probabilmente nei primi anni Cinquanta, a quella che sarebbe poi diventata sua moglie. Sono la prima testimonianza a me nota della sua attività poetica e l’unica rimasta che risalga ad un tempo tanto lontano. Trascorsero vari decenni, poi, nei quali furono costruiti una casa, un giardino e una famiglia, nella convinzione forse che la vita, con un lavoro stabile e le privazioni della guerra lontane, sarebbe sta­ta a lungo serena. Gli interessi e le curiosità erano tanti: le piante, le mostre d’arte, la musica, la fotografia, an­che un po’ di poesia (in un dolce pomeriggio di fine estate, usciti da un concerto alla Gran Madre, andammo insieme ad acquistare l’Antologia di Sanguineti: era il 1978).
Fu l’improvvisa scomparsa di colei dalla quale quegli antichi versi buffi erano stati ispirati, a sollecitare una nuova frequentazione, questa volta intensa e co­stante, della poesia. La casa di colpo diventata più vuo­ta e silenziosa, il giardino addormentato nel letargo in­vernale erano lo sfondo di quel “male senza uguale” no­minato nel primo testo che io conosca di questa nuova fase, scritto per il mio compleanno nel marzo 1989, e segno, credo, di un bisogno di distillare il dolore attraverso la scrittura per superarlo. Pochi giorni do­po, la magnolia piantata per la mia nascita si copriva come sempre di fiori candidi, la forsizia diventava una macchia di luce d’oro, le violette e le margherite si ri­pre­sen­tavano puntuali tra l’erba. Il risveglio primaverile può essere repentino e la cura del giardino non tollera in­dugi: bisogna ripulire, piantare, seminare, potare…
Intanto, la casa ora risuonava più spesso del ticchettio della macchina per scrivere, mentre le letture si intensificavano: Luzi, Sereni, Caproni, cioè i poeti di poco più anziani, ma anche i pressoché coetanei, come Erba, Zanzotto, Risi, o gli haiku giapponesi. Qualche testo cominciava ad essere proposto e discusso con i nuo­vi “amici di penna” conosciuti in varie occasioni, molti all’Università della Terza Età, finché si arrivò alle prime pubblicazioni, agli apprezzamenti di critici noti, ai riconoscimenti.
La scrittura era diventata un modo per confrontarsi con gli altri, intrecciare rapporti con persone di età e condizioni diverse: dai vecchi compagni di strada, agli amici di famiglia, alle mie compagnie vecchie e nuove. Anche le incombenze quotidiane, fossero acquisti al mercato o esplorazioni nei vivai, potevano offrire mille spunti per la scrittura: un muro, un viso, scorti dall’autobus o in un negozio, una cartolina inviata da un viaggio di lavoro erano occasione per un lento lavoro di meditazione sulla parola che poteva iniziare in ogni momento, per poi approdare, nel silenzio appartato del salotto, ai primi tentativi di stesura, scanditi dal rumore breve della bic nera poggiata sul tavolino per gli intervalli di riflessione. Scrivere era adesso un mo­do per leggere il mondo, elaborarne una visione da chiarire innanzitutto a se stessi, per poi consegnarla agli altri e nel mondo trovare forse ancora uno spazio.
Ogni mese arrivava (arriva) la rivista Poesia, di Crocetti: un’apertura sulla produzione recente, spesso di altri paesi. Papà si rammaricava di non essere in gra­do di leggere gli originali, di doversi accontentare, molte volte, della traduzione, tuttavia quell’apertura sul presente era ormai indispensabile: i poeti prediletti ora erano anche più giovani di quelli della sua generazione – Magrelli, De Angelis, Krumm, Lamarque, Anedda.
È trascorso ancora del tempo, ma l’interesse per il presente della poesia era ancora, sempre, costante: gli occhi indeboliti rendevano più faticosa la lettura dei quotidiani, ma non hanno mai impedito di leggere e scrivere poesia. Ora il luogo privilegiato era il soggiorno: la stanza più frequentata e luminosa, aperta sul giardino. Sullo stesso tavolo dove poco prima si era compiuto il rito dei farmaci mattutini veniva appoggiato il semplice raccoglitore di cartoncino con pochi fo­gli, rigorosamente di recupero, sui quali una scrittura sempre più minuta e meno definita componeva i versi, correggeva e riportava, in una colonna separata da un’incerta riga verticale, le eventuali varianti. Poche parole alla volta, poi lo spostarsi sulla poltrona accanto, il viso appoggiato alla mano chiusa a pugno, gli occhi socchiusi come per un lento cedere al sonno. Ma intanto le dita dell’altra mano si muovevano quasi impercettibilmente sul bracciolo: era il computo delle sillabe di un ritmo che si formava nella mente e richiedeva il ritorno lì, alla sedia, al tavolo, alla penna. E al lavoro artigianale di trascrizione del prodotto finito, prima a mano, poi con la solita vecchia Olivetti, il cui nastro talvolta si inceppava senza che le dita fattesi insicure riuscissero con la facilità di un tempo a liberarlo.
La poesia è ora, per il poeta stupito di aver tanto vissuto, quasi l’unico modo di essere nel mondo, forse è il mondo: le uscite sono più rare, i movimenti più len­ti, la vita di fuori sempre meno comprensibile. I lavori in giardino sono una pericolosa gara con le proprie for­ze cui è difficile arrendersi, anche se gli arti dolenti si piegano ancora per osservare i segnali che il mondo vegetale invia nelle sue “prove di rinascita” dopo il di­sgelo. Molti dei vecchi amici se ne sono andati, gli ac­ciacchi accompagnano talvolta con fastidio le giornate. Tuttavia, la poesia trova nutrimento anche nell’attesa di una visita medica o di un prelievo di sangue: basta os­servare il radiologo dai tratti orientali perché ne nasca qualcosa. Il frastuono di fuori è in apparenza estraneo e disturbante, ma sollecita ancora l’indagine curiosa: il frutto selvatico, il dolce natalizio, gli scarti del cassonetto diventano forse portatori di una piccola verità, in un interrogarsi interiore senza fine. La voce si fa avara di parole, qualche volta è aiutata da un gesto, ma la men­te cerca, soppesa, sceglie quelle che verranno ri­versate nei testi, per provare a muoversi “verso uno spiraglio / sconosciuto”. È lì, nella scrittura, che il vecchio poeta si muove con agio e supera le difficoltà del quotidiano, è nel misurarsi con la lingua e con il ritmo che ritrova quell’agilità che il corpo ha perduto. È nella lettura di testi sempre più recenti, e magari ardui, che mantiene il suo rapporto con il presente, nella ricerca di nuovi interlocutori cui affidare i propri scritti che rivela il desiderio ancora vivo di un dialogo e di un confronto con l’altro – fino al giovane medico del Pronto Soccorso che scruta sul monitor lo stato del cuore in difficoltà.

Ecco, marzo è tornato. Nel giorno del mio compleanno c’ero io a sorvegliare la potatura dell’acero. Le gemme della mia magnolia stanno per aprirsi, come sempre. Sotto al ramo del pino ferito dalla neve e dolorosamente amputato è fiorita una primula. Dai bulbi interrati in autunno e ricoperti di foglie secche sono spuntati i germogli dei tulipani. Tutto è pronto. Ancora una volta, “la vita è aperta / a inventare nuove prospettive”.

 

Vorrei in questa sede ringraziare tutti coloro che negli anni hanno seguito con interesse il lavoro di Michele Piovano ed esprimere la mia particolare riconoscenza nei confronti di chi ha contribuito, con sensibilità ed affetto, alla realizzazione di questa raccolta postuma: tutti gli amici che in questi mesi mi hanno accompagnata, l’editore Sandro Gros-Pietro che mi ha incoraggiata, Antonio Damanti cui devo la foto della copertina. Il mio ringraziamento più caloroso e sentito va al prof. Giorgio Bárberi Squarotti, che, dalla prefazione della prima raccolta di versi, fino ad ora, non ha mai fatto mancare il suo apprezzamento per il lavoro poetico di mio padre.
Marzo 2015

Lucia Chiara Piovano

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