Lettera dell’editore

Caro Angelo Airò Farulla, desidero rivolgerle un sentito apprezzamento per il libro che mi ha inviato in lettura, Mia cattiva sfera, che ha catturato la mia attenzione e anche la mia ammirazione: l’ho letto con il piacere di constatare la serietà e l’impegno del suo lavoro poetico.
Si tratta di un’opera complessa che possiede la moltitudine della scrittura creativa, in uno spettacolo di relativismo conoscitivo, che passa dall’interpretazione visionaria, alla confessione, al canto lirico, al racconto in prosa e ad altro ancora, a riprova di quanto ricchi siano l’intonazione, la forma, i modi, le tempeste e i chiarori espressivi del linguaggio umano.
La lingua di base è certamente l’italiano, ma non mancano le inclusioni in latino, in inglese, in Esperanto (“colui che spera”), la lingua universale sviluppata da Zamenhof, e altro ancora.
Va detto che è un’opera complessa, in termini di densità letteraria nonché di fantasia creativa. Per certi aspetti, il suo libro di Poesia appare promuovere un movimento vertiginoso, perché quasi confida nella presunzione di essere pianamente confidenziale nei confronti del Lettore, mentre invece si mantiene pervaso da un enigma di mistero e di smarrimento.
Mi piacerebbe che Lei mi spiegasse meglio i suoi percorsi di iniziazione ai “misteri elusini” della sua poetica.
Conti di avere davanti a sé l’apprendista stregone descritto da Goethe, ma non nei panni dello scienziato pazzo e neppure del plagiatore maldestro; piuttosto, nelle vesti del lettore incantato, desideroso di apprendere l’origine e lo scopo del suo “canto”.
Se lei ha voglia di darmi qualche lume in più, mi farà piacere.

Sandro Gros-Pietro

Lettera all’editore

Caro Sandro Gros-Pietro,

nel risponderLe riguardo alle origini e al fine del mio “canto”, devo premettere che il sottoscritto non ha certo la presunzione di dominare da cima a fondo intenti ed esiti del proprio operare. Per dirla con Huysmans, “non sono stato mai né un uomo di ferrei propositi né un autore che fa quel che vuole.” Rebus sic stantibus, è rischioso, per me, scrivere di quanto già scritto, ovvero far valere le ragioni di un testo, anche perché io non so mai quando scherzo e quando dico sul serio, se dormo o se son desto, ma sono in ogni caso debitore dei miei debiti, così che tenterò lo stesso di segnare alcune fonti o sorgenti di questo mio lavoro, come fossi un rabdomante alla ricerca dell’acqua.
Inizierò facendo un po’ di archeologia del libro. In origine, il titolo doveva essere Ixora Crocata, allusione a una pianta dello stesso tipo, citata nel testo, che si materializzò il 4 agosto 1880 nel corso di una seduta spiritica condotta dalla medium Elizabeth D’Espérance. Questo perché le basi “tecniche”, se così si può dire, sulle quali si compone questa mia raccolta, sono ispirate da certi risultati propri allo Spiritismo, come da quanto accade, per esempio, nelle sessioni di scrittura automatica. Così, la lingua non è mai davvero compiuta, e mai potrebbe esserlo, perché cosciente e incosciente al tempo stesso, falsa e sincera, portatrice inconsapevole, se pur volontaria, di echi e reliquie, ovvero di resti, di cose lasciate, abbandonate, dimenticate, sepolte. Se a volte l’aspetto del verso può essere impreciso, o apparire anche trascurato, ciò è per un suo naturale sconfinare nella prosa, dalla quale si stacca e alla quale, forse, non vorrebbe tornare; si potrebbe dire che questa è poesia forse solo perché la frase di tanto in tanto va a capo, imitando l’aspetto del verso. Poesia, quindi, di superficie, che viene an­che da fuori; intesa talvolta come imitazione senza mo­dello. È forse anche opera di libera ricostruzione. Si pensi alle disjecta membra di alcuni marmi antichi, quali quelli dei frontoni del tempio di Zeus a Olimpia, riallacciate attraverso il vuoto in un’impronta, in un simulacro del simulacro che fu.
Le lingue utilizzate, poi, sono molteplici, come nella xenoglossia. Nella sezione Tular Rasnal, per esempio, si scrive in un inglese talvolta vagamente arcaico e in latino, con una chiosa in etrusco, e si fa questo volendo raccontare la fine della civiltà etrusca attraverso lingue vincenti e lingue vinte, sopravvissute e estinte. Così il latino fu lingua di dominio e di sotterramento per la civiltà etrusca, e l’inglese in parte lo è stato per il mondo latino. In questo caso, si tratta anche di una lingua di traduzione e travaso: basandomi sulla versione in italiano concessami anni fa dal professor Massimo Pittau, il testo etrusco del Liber Linteus Zagrabiensis è volto in latino, inseguendo le consonanze prefiguratrici del sacrificio cristiano presenti nel rito rasenio, con una cadenza orecchiante il Canone Romano. Altra operazione simile è l’utilizzo del leopardiano Cantico del gallo silvestre come stampo per un capriccio (Canto alla Beschia). E poi ci sono alcuni brani in esperanto, nella sezione Probe eines neuen, geistlichen Gesangbuchs – canti dalla pestilenza, una sezione anche a uso liturgico, se si vuole, sul modello dei Canti spirituali di Novalis.
Per il resto, molti sono i ruscelli che discendono dal monte, e molte le cose che trascinano a valle; così co­me molti son gli imprestati gioielli che ho voluto mettere sul capo di questo mio rospo. Aggiungerò sol­tanto che il carattere delle epifanie spiritiche è ancora un modello con il quale confrontare certe inclinazioni del mio scrivere in generale, e la sua stessa forma o espressione, ovvero la tendenza ricorrente a unire domini apparentemente distanti e opposti, come spirito e materia, natura e artificio, vita e morte, fisico e metafisico ecc. La scrittura è, per me, forma o protoforma che si modella nell’informe, coscienza che scolpisce ed è scolpita dall’incoscienza, richiamo elementare, attività che basta a se stessa, come la Natura che, secondo quanto scrive Thoreau, “non pone domande e non dà risposte a quelle che facciamo noi mortali”. Troppo facile, allora, per me, esser poeta in questo mondo.

Angelo Airò Farulla

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