PREFAZIONE

In questa silloge: Improvvisi ed incerti dal 1995 al 2011, continua, in modo illuminante, il discorso poetico di Franco Riccio, iniziato con Esperienze (1950) e L’antico dolore (1961). L’originale statura della poesia di Franco Riccio e la sua arte sono evidenti, sin dagli esordi. In questa raccolta di versi che va dal 1995 al 2011, egli, più che mai, mette se stesso a nudo, rivelando lo sgomento di esistere e la pena insopportabile del vivere. In questi versi dolenti e belli, la sottesa malinconia diventa un continuo esercizio del pensiero contro la solitudine impellente dell’esserci. Un moto perpetuo d’ansia scava impietosamente nelle pieghe riposte dell’io; la tardiva elaborazione del lutto, per l’improvvisa perdita della consorte, lascia alle spalle il ricordo amaro ed il vuoto di una persona amata, al di sopra di ogni cosa. Le nebbie della ma­linconia si sciolgono con la suggestione della poesia, vero farmaco alla desolazione del poeta. In quest’ansia struggente ed appassionata, con in mente il ricordo della mo­glie Angelina, il dettato poetico si trasforma in angoscia ed il grido di disperazione è alla ricerca di un altrove, misterioso ed inconoscibile: “Il mio amore, per te, non aveva confronti: / andavo a cercarti in ogni stanza / se ap­pena ti muovevi per qualche lavoro. / Volevo sempre ve­derti per godere il tuo / innocente, franco sorriso a calmare / ogni mia preoccupazione o desiderio”. La conquista di questo stile personale, incidente, porta le tracce di una concessione dolorosa della vita e un sotterraneo sentimento d’amore propizia l’incontro con l’altro. Un “diarismo chiaroscurale” di pulsioni e ragione, natura e storia, collega il racconto delle emozioni, lungo un articolato versante elegiaco: “Poi, ogni sera, vigilavi il mio / sonno anticipato per aggiustare / le coperte che ti sembrava se, / per caso, fossi un poco scoperto. / Tutto quello che pensavi al mattino / dei giorni successivi, godevi / se, sorridente, l’accettavo.” Il dilatarsi della vita, oltre la morte, è una sfida a sé stesso, lungo le stagioni dell’esistenza.
Luci ed ombre si alternano, senza mai sopraffare del cuore: “Se, ormai, non sento più la tua voce / dall’eter­no riposo / – dove ti ha costretta la cessazione / della vi­ta – (da parecchio tempo, / distratta o rimandata) mi manca / l’imparagonabile dolcezza / delle tue parole e la paziente / attesa delle mie normali approvazioni / effettuate ai tuoi giornalieri / propositi”.
“La musa schietta” di Franco Riccio direziona il valore pregnante della parola, sorretta da uno scenario onirico ed eidetico di grande rilevanza lirica. Il canovaccio dei lacerti numerici, attiva un’incessante tensione di superamento del proprio io: “Io penso sempre alla tenerezza delle tue / risposte, suggerite da una immagine / che ci ritrae, sorridenti, sul balcone / di casa, ed il tuo improvviso distacco / che mi lascia sgomento, solo, con il mio / ineliminabile dolore”. La voce sommessa del colloquio con se stesso si trasforma in metafora esistenziale con un altro da sé, nello straziante di un io sempre in attesa di un’epifania liberatrice. Il grido angosciato della ricerca dell’altrove non si lascia attendere: “Dov’è, dov’è, dov’è, / ma lei dov’è, dov’è? / Se non è più su letto, / se non sento la sua te­nue voce / che mi chiama dalla sua stanza, / ed io mi av­vicino al letto / dove lei non c’è più”. Il filo diretto con l’aldilà è nell’epifanica visione di un oltre irraggiungibile, “perché qualcuno – invisibile – l’ha chiamata, l’ha rapita ai miei occhi e l’ha portata via, con sé, / per sempre!” La condizione psicologica di questo discorso interagisce con un tracciato amoroso quasi sempre autobiografico.
Attraverso un’indagine di scavo, si rileva il nucleo ideativo attorno al quale ruota l’infinito simmetrico della poesia di Franco Riccio: il lutto, la caducità, il proscenio domestico degli affetti, la presenza/assenza della consorte. La magia del verso consuona con la leggiadria delle immagini, fuggevoli ed efficaci, fresche e sincere come il canto puro e sobrio del poeta: “Talvolta, quando mi guardo allo specchio, / ho notato che ormai è sparita l’antica gioia, / mentre sul viso mi è calato come un sipario / dal quale mi trovo rigidamente velato”. L’innata dolcezza e la tenera elegiaca mestizia sono nella memoria di un grido: “Non serbo più rancore per i compagni / di giochi, per i feroci silenzi e per la / forza ch’essi ostentavano contro di me, / timido e svagato, sorpreso ad occhieggiare / a meditare i levigati ciottoli del torrente”.
La traccia visibile dell’infinito è nell’assoluta ricerca della parola, che diventa un segno liberatorio di un sogno che non si è mai avverato, anche quando le ambivalenze inconsce si traducono in un binomio inscindibile tra parola ed immagine.
Franco Riccio sa raccontare, in modo trasversale, il suo irrequieto modo di sentire e sa cogliere tutti i dettagli delle felicità creativa. I contenuti della sfera sono segretamente vincolati all’ondivago riflusso dell’inconsueto; la gioia di un umore imprevedibile è inMarzo, marzo, im­pre­vedibile marzo “Marzo, marzo, imprevedibile marzo, / tra nubi e schiarite, freddo e tepori, / già sentori di primavera imminente. / Se esci di casa, col sole, portati / l’ombrello, ché marzo è come un monello / dai bizzarri umori. / Le grosse gocce di pioggia che, inattese, / percuotono l’asfalto assetato, danno / un suono di liquida orchestra che, / presto, si arresta sotto densi coni / di luce, mentre i piccoli soli / – a diverbio – spuntano dalla terra / con l’oro delle mimose”. La rete delle immagini si combina con una trepidante malinconia che assurge a stile di vita, in una dualità simbiotica dell’ioe dell’altro da sé, che spesso fa sentire la sua scomoda presenza; l’attesa spasmodica è nel destino doloroso della sofferenza o nell’incanto di un desiderio improvviso di una presenza femminile, “il cuore affretta i suoi battiti”: “Intanto l’autunno lascia ca­dere / vistosi velari di nebbie, mentre / rigori notturni co­stringono tutti / a riprendere calore con i fiati”. Con l’avvicendarsi delle stagioni, il poeta è colto da un crepuscolare sentimento di melanconia: “Prorogate in ottobre le estreme / propaggini di un’estate tarda / ad estinguersi si vedono ancora / fiori rispuntare nei vasi duramente / corrosi dall’arsura”. Trasalimenti dell’io coabitano sul temperamento del mite poeta: “Mi guardo, a volte, intorno, e tutto / mi appare, d’un colpo, abituale, che / prima era stato estraneo, fuori di me: / cose a cui non posso rivolgermi, / per uno sfogo: fredde suppellettili / senz’anima, utili soltanto ad appagare / esigenze estetiche o conforto”. Il mondo poetico di Franco Riccio, in questa nuova silloge, alterna svelamento e occultamento di una realtà outre, dove il fantastico e il reale costituiscono un continuo ri­piegamento su se stesso.
Nello “spaesamento” dell’io, si avverte la verifica del credo raziocinante del poeta, che affabula e si strugge, sogna e guarda estasiato lo scenario iridescente della real­tà, sospesa tra illusioni e ragione, ebbrezza e malinconia.
I vaghi e oscuri moti dell’animo sono segni perturbatori di una segreta interiorità, che riflette la delicatezza del suo “inquieto sentire”, frastornato dalle luttuose vi­cende del vivere quotidiano. Anche il sogno di una donna, tanto desiderata, si profila all’orizzonte nella men­te del poeta: “Mi viene incontro e, con sguardo / di cobra, mi af­fascina. / Mi si avvinghia con forza / e flessuosità di liana, mentre / m’imprime sulle labbra la voracità / di una boc­ca-ventosa, calda di palpitanti / mucose inondate da dolci secrezioni”. Il bisogno irrefrenabile dell’amore comporta anche un sentimento doloroso, quando è soltanto un “dolcissimo miraggio”: “L’amore, passione universale, in ogni / tempo vagheggiato, pure talvolta ambiguo / per ar­guzie rimaste sottintese, oppure / soltanto dolcissimo mi­raggio”. La sfida è sempre contro un destino ineluttabile che non può aprire un varco per l’altrove; l’urgenza dell’essere assale il poeta e placa l’angoscia che lo attanaglia. L’assenza è “irrorata di lacrime” “tutto, oramai, si è spento sulla / sopraggiunta quiete che, come sipario, / esclude, infine, la partenza, irrorata / di lacrime”. Disinganni, attese, speranze, costellano l’universo poetico di Franco Riccio: memorie avite di una foto ingiallita ed ecco “un attimo di luce”, che sfavilla “dal riquadro della piccola cornice”, il volto della madre che “rinnova antiche consonanze / di un passato non più recuperabile”. I colori spenti dell’autunno consegnano “il fitto bagliore dei fulmini” e accendono “il cielo di luci azzurrine”, in uno scenario dal “declino dei colori estivi”. La scrittura di Franco Riccio ha una sua funzione “consolatrice”, sincera e realistica, perché mette in luce il suo vissuto e la sua dolorosa esperienza dell’esserci. L’occasione connota la scena immaginaria e fa da meccanismo di difesa, attraverso le reti associative di una riappropriazione del sé. Egli si sente un sopravvissuto che prova con voluttà l’estasi della poesia, subendo il depotenziamento del primigenio impulso vitale, sorretto da una parola “onesta”, vibrante di verità e senza intrusioni metasperimentali e contaminazioni plurilinguistiche. Il dato reale si materializza in eteree immagini, che, spesso si sfocano, perché sopraffatte dall’elaborazione del lutto. È questa la prima radice della sua ispirazione, che attiva il deragliamento dello sguardo, dall’io profondo alla realtà, esterna, abbellita da un paesaggio ricco di colori, di atmosfere, su cui si poggia inebriato lo sguardo del lettore. Il poeta è costretto a vivere, perché è spinto dall’irrequieta ricerca della propria identità. Per esorcizzare il timore della morte, egli si affida all’innaturale felicità della scena onirica; è il segnale dell’attesa fiduciosa in un oltreinconoscibile: “Mi rivolgo a questo fiume che, / con le torbide sue acque, / stempera il colore dei prati. / In quella mi contamino, in attesa / del sole che, prosciugando, ridia / volto alla speranza”. Ma senza speranza, quindi, restano le sofferenze per la Suprema indifferenza, / poiché anche l’umanità fa uso / smodato del ‘libero arbitrio’. L’Ente Su­premo si è rivelato “noncurante” per tutto quello che “pa­tisce” l’umanità di violenze, cattiverie ed enormi even­ti luttuosi. Con gli occhi della mente, ricorre la sua infanzia sui contrafforti della Sila, la bella piazza e l’acqua pura attinta dalla nonna, sui caldi giorni dell’estate. Un sentimento di liberazione parte dall’opprimente malessere che confluisce in una leggera, quando incalzano i fantasmi della notte o il “fragore ed il leggero / sciabordio sono eventi naturali / – tra pausa e tranquillità – / come accade anche nel decorso / della vita umana, tra dolori / e gioie”.
“Dietro la spessa barriera / di vapore, vigila / la mamma e ti sorride”. Amore e Morte sono consegnati alle riflessioni trasfiguratici della presenza femminile, che turba l’animo del poeta, perché la bellezza lo seduce e lo fa librare in uno spazio illimitato, circoscrivendo l’esuberanza delle proprie sensazioni, sul versante accidentato della memoria: è un segno mai interrotto, che propizia l’estasi del puro canto lirico e la menzogna dl un inesistente oltre. L’universo dell’immaginario capovolge la realtà psichica, segue con puntuale attenzione l’avvicendarsi delle stagioni, l’alternarsi dei giorni sempre uguali, aspettando la luce della primavera, l’apparire del sole, lo sbocciare dei fiori, i volti femminili “testimoni di amori, in­conclusi, sono riservati al dolce ricordo del tempo. La ma­no invisibile delle scuse fatali della Morte, si abbattono inesorabilmente sulla vita, che lascia un sapore amaro al poeta, che l’attende come liberazione.
All’improvviso appare la speranza “finalmente”, “ma senza l’estremo / delle montagne che ne hanno / limitata l’estensione, questa / mattina nel cielo è comparso / l’azzurro”. Visioni, e ricordi lo lasciano perplesso, mentre “è sempre il sole ad avere / il sopravvento, malgrado / le naturali insidie della stagione / appena comparsa, mentre il grido / di un fiore estivo sta per spegnersi”. La metafora della vita è tutta nel paesaggio della sua mente, che accarezza sogni fatui, immagini idealizzanti dell’essere. Una vita prorompente ed inquieta, si alterna all’ineluttabile pulsione di morte. L’incantamento, al riparo dalle disarmonie del presente, offre al poeta la giusta tensione per la vertigine dell’amore, giustificando il cosciente di­sagio della dolorosa esistenza umana. L’approdo della scrittura di Franco Riccio è in questo serrato sul significato dell’esserci. L’acquietamento interiore parte dalla forza espressiva della parola, proposta nella sua nudità es­senziale e sorgiva. La forza d’urto è proprio qui, in un verso che privilegia l’interiorizzazione, dominata dalla me­­tafora dell’esistenza e dall’alternarsi di luci e di ombre di questo oscuro viaggio della vita, nel tempo “ritrovato” della poesia. In questa nuova silloge, c’è la stessa dirompente dinamica di un laico razionalismo e di un “diarismo” tutto particolare che Paolo Ruffilli aveva già notato nel Canzoniere (2003). Il sentimento del tempo è, per Franco Riccio, fuori della vita; “egli dà voce al silenzio in­teriore ed apre un varco alle intermittenze del cuore”, quan­do la molesta voce dell’inconscio lo tormenta e lo perseguita senza remissione. Sottolineerei quanto scrive, egregiamente, Antonio Spagnuolo, su Franco Riccio: “L’inquietudine e la speranza, il dolore e la gioia, le occasioni e le illusioni si alternano in queste liriche con un rit­mo incalzante, sempre limpido e musicale, per un tocco esistenziale che sottende e trascende il tempo”. Franco Riccio coglie le vibrazioni nel quotidiano domestico, re­gistra le voci, i sussulti, il dolore di sempre, l’ansia dell’attesa e la genuina esigenza di trasformare il mondo e gli eventi, sul ritmo incalzante del verso, pervaso da una dolente leggiadria e dai toni lievi e musicali.

Carlo Di Lieto

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