PREFAZIONE

La poesia di Nino Pinto si dipana da tempo in forma di filo d’Arianna che s’inoltra nel labirinto della mente dell’autore. Si tratta di un sottile refe di robustissima fattura, a dispetto dell’esilità delle dimensioni. È uno stame capillare, che s’intreccia e si condensa fino a configurare il vasto disegno di un mosaico ricco di umana vicenda. La rappresentazione per lo più è monocromatica, come accade nei cotoni grezzi le cui decorazioni sono a rilievo, ma anche incolori, cioè hanno la stessa tinta naturale della fibra. Il monocromatismo del Suonatore di ghironda è un plumbeo grigiore che demanda all’atmosfera di pessimismo in cui si sviluppa la poetica di Pinto, che ci parla di “disorientamento” o di “crisi”. Il suo è il disadattamento dell’intellettuale, condannato a vivere in un mondo degradato in cui sono decaduti i valori di riferimento dell’arte e della filosofia, non più orientati verso la ricerca della bellezza e della verità. Il degrado si trasforma in asfissia e angoscia e mette in atto un’involuzione negativa che fa decantare ogni relazione sociale in una sorta di veleno senza antidoto. Non ci sono più prospettive né speranze, anzi diviene Amara gioia / anche la rinuncia / alla speranza. La primitiva condizione di disagio dell’intellettuale da cui tutto ha tratto origine si radicalizza in una sorte tragicamente avversa, e lo scrittore viene catturato in una prigione di dolore e di immobilismo, da cui non può uscire: Per quanto cerchi / non sai trovare la formula /che apra quella porta / murata nella roccia.
Il lungo percorso poetico di Nino Pinto è sempre stato fortificato e sorretto da un uso sapiente di metafore. Già nel titolo di questo ultimo libro si an­nida la metafora dell’artista girovago, spaesato e disilluso di tutto. La ghironda è lo strumento musicale a manovella, dal suono gentile e adamantino, di concezione medievale e di tradizione popolare, che rendeva semplice e accessibile l’armonia della musica anche a chi non avesse avuto grande educazione artistica: una declinazione di arte povera, ma autentica, agganciata al vissuto e alla realtà, carica degli odori di umanità e di sogno che i cantastorie del tempo passato si portavano addosso, in un effluvio di nostalgia e di evasione. Il poeta fa della ghironda una metafora del suo canto, altrettanto semplice e originale, volutamente contraddistinto dall’uso di vocaboli attinenti alla realtà materiale del vivere quotidiano, ma anche reso fremente e trasognato, quasi evasivo e simbolico, dal ricorso ad altre metafore che sono, invece, di pura tradizione letteraria, e che appaiono orientate a un orfismo metamorfico: In una selva intricata / dove pronte all’assalto / stanno le fiere / e celati si torcono i serpenti / ti ritrovasti / e non sai come. Il danno patito dal poeta è enorme. Il totale della tragedia comporta la perdita di ogni orientamento, e diviene causa di distruzione di ogni precedente accumulo di sapienza: Un furioso incendio / ha distrutto le antiche carte / che custodivano / il tesoro di sapienza / cui giorno dopo giorno attendevi / e che più non sei in grado / di rifare. Anche la natura diviene fonte inaridita e perduta del bene passato: Gli ulivi che già il vento illuminava / impietriti nella loro pena / stanno ora fissi / nella tua mente.
Una delle metafore più potenti che ricorre con continuità in tutta la poesia di Nino Pinto è quella dell’isola bella o più semplicemente dell’isola, che sta a rappresentare l’età felice della fanciullezza, durante la quale, con concezione pascoliana del mondo, le cose appaiono illuminate da una visione armonica di candore e di bellezza, orientate verso il bene e verso il trionfo dei sogni di pace e di felicità che riscaldano il cuore dei fanciulli. In Pinto, la me­tafora dell’isola viene anche impiegata per significare la patria delle arti, il luogo utopico in cui trasferirsi, in base al mito del viaggio all’isola di Citera, per orientare la propria esistenza unicamente alla contemplazione e alla difesa della bellezza. Ebbene, anche l’isola va perduta, nella grande catastrofe della vita che il poeta subisce: Il riso di natura / largamente profuso / qual era allora / nella tua isola / è per te un ghigno / adesso di lontano. Più in là leggiamo, sullo stesso piano accorato di perdita dei valori della compianta età dell’oro, una equivalente rammemorazione, ma questa volta celebrata con il ricorso a uno dei più forti simboli tipici del bestiario inventato dai poeti, l’alcione: Al grido degli alcioni / si univa la voce del mare / in quell’isola bella / che più non è / la tua isola.
Ad orientare il poeta verso il rinsavimento da tanta dolorosa perdita di luce e di vita interviene una novella Beatrice dantesca, reale o immaginaria, ma comunque angelo inviato dal cielo a testimoniare in terra il patto di alleanza a vantaggio di chi soffre: Angelica custode del tuo genio / una fanciulla già complice d’amore / trasumanata vive a te d’accanto. E si ammolcisce l’acredine verso il mondo, nel segno d’amore che la donna suscita e stilnovisticamente reca con sé, si riaccendono i fondali di luce dell’orizzonte: Dopo tutto era un pallido rosa / il tuo ottimismo, / ma non per questo accetti / il nero che ti vuole ottenebrare: / forse quel rosa pallido / può ancora bastare. E si compone così un’equazione di corrispettivi relativi e di riferimenti letterari che ha una sua grande storia nel Novecento italiano e che si sviluppa intorno all’ipotesi di congiungimento e di relazione esistente tra gli stati emotivi e gli stati creativi, fino a sfociare nel binomio di finzione e dolore, apertamente proposto ed esplorato da Giorgio Bárberi Squarotti nella sua opera poetica, e che qui ritrova un eco di richiamo: Ma tutto questo / infine non è serio: / anche la tua pena / non è che un gioco / di giocatori / che tu non conosci. Il richiamo a Stephane Mallarmé e alla fede nella persistenza della creatività rispetto al calcolo (Un coup de dés, jamais n’abolira l’hazard) si rende esplicitamente manifesto nella pagina a seguire, quando leggiamo: E forse la tua pena / è un colpo di dadi / mal riuscito.
Nino Pinto, come ci suggerisce in forma interrogativa nel suo esergo, compie il voto di cercare nelle parole l’unica salvezza a cui ancorarsi: nel messaggio pronunciato o anche solo pensato di costruzione di un sogno che sia prospettiva cui orientarsi.

Sandro Gros-Pietro

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