Prefazione
La poesia e il non sapere di sapere

Ci sono libri che risuonano e impressionano, costituiti di parole che tracimano fatti e li distraggono e distruggono per diverse configurazioni, per nuovi incantamenti. Oggetti brucianti che trasmettono scariche fisiche, o invitano a cerimoniali per cui non abbiamo più biglietti, lasciapassare innocui che ci permettono di assistere passivamente allo spettacolo che si apre davanti ad occhi usati ed abusati. Il non-romanzo di Céline Menghi Blu Cobalto è una di queste schegge impazzite, di questi oggetti alieni che scuotono e svegliano dal torpore di un ron ron romanzante che oggi sopravvive a se stesso in varie incarnazioni di leggibilità fiacca e stonante.
Ne ricaviamo una spinta, un moto a muoversi a nostra volta, a sollevare questioni di scrittura come questioni di vita o di morte; ne ricaviamo, insomma una istigazione a rispondere, a passare all’atto della scrittura. A delinquere, in ultima istanza, come è quando abbiamo a che fare con qualcosa che ci ossessiona, che scatena progressivi incatenamenti e successivi slittamenti di parole, omissioni, commissioni, spareggi di bilancio di vita. Così è successo per Edith Dzieduszycka con il suo libro Greve è la neve, pensieri nati dopo la lettura del libro di Céline Menghi, come scrive all’inizio la stessa autrice.
Il non romanzo di Céline Menghi non poteva che trovare gemmazione in un libro di poesia; non, si badi bene, del genere poesia: un libro de-genere non può dar vita ad un genere. La poesia, il poetico che qui si impone non è altro che lo spazio necessario in cui “passa fuori” la metafora: metafora globale e condizionante che forma il corpo di componimenti ininterrotti, scatenanti da una pagina all’altra in vivida se­quenza. Un poema ininterrotto, insomma, che scrive in continuità intermittente il respiro, si fraseggia nel verso, così come sobbalzava già nella pagina irta, densa di grumi, traumi, improvvisi ritorni, folate d’aria, capricci, della prosa di Blu Cobalto.
Edith Dzieduszycka, come dire, si è messa all’a­scol­to del libro di Céline Menghi, se n’è fatta attraversare totalmente come in un’ebrietà da incantesimo che, però, lungi dal pietrificarla, l’ha resa soggetta ad una effervescenza della lingua che operava in lei nel sortilegio di una musica ritrovata:

A questo fiume di parole
fiume ostinato di parole nate
per svelare
ed invece nascondono
parole nodi
pietre
inciampi
scogli
parole trappole
che risucchiano
facendo prigioniero
dietro cortecce
imperscrutabili
alti muri di cinta
invalicabili
chi precipita
oggetto
risucchiato dal gorgo

Verrebbe voglia proprio, in questo caso specifico, di parlare di un ascolto estremo che ha il carattere di una vera e propria “messa in musica” di quel libretto impossibile, arduo, perforato da spifferi, voci ed ombre, sapientemente trapuntato da Céline Menghi: a ciascuno il proprio melos drammatico. Chi ascolta bene e si fa tutt’orecchi, compone a sua volta. Edith opta in questo caso per un’aperta forma di poesia, dove i versi vengono avanti uno dopo l’altro per spin­ta precipite, accumulandosi e arditamente sommandosi insieme, una pagina dopo l’altra, ma insieme compattamente tessuti sul filo aereo di un unico respiro; “respiro” è una parola che in questo periodo di così urgente rivelazione dovuto alla pandemia che tocca proprio le vie respiratorie, acquista un valore potentemente simbolico: è la poesia, appunto, direttamente chiamata in causa a rifondare una civiltà del fiato, del respiro: il verso.
In questo Greve è la neve c’è un angelo supervisore che si fa carico di quell’ossessione curatrice che caratterizza i curanti e la trasforma in inermità, attenzione, attraversamento; annichilendo ogni troppo uma­no tentativo di esercitare la potenza su altri, tipica del rapporto fra terapeuta e paziente: questo niente in forma di puro ritmo versale è la forma della poesia. In proposito, mi sono tornati in mente i versi allegretti di quel libretto smagliante di Ottieri, personaggio-ombra che attraversa centralmente fra le tante ombre il libro Blu cobalto di Céline Menghi, L’infermiera di Pisa, che in pochi versi appunto illustra il modo mimetico che caratterizza il rapporto di potenza fra malato e terapeuta: “… Il malato è mimetico, / ha il male / che il terapeuta vuole. / No. È il terapeuta / che cura la malattia / che il malato vuole. / Tu della tua potenza su altri / hai fastidio. / Tu vuoi sentirti l’ultimo / (e ti senti il primo)”. Il fastidio della potenza su altri è l’inumano in noi, è l’antigravitazionale che la poesia porta, come una minaccia perenne.
Forse, appunto, quell’antisocratico “non sapere di sapere” di cui proprio questi versi e la poesia di Edith Dzieduszycka ci ricordano l’estimità.

Giacomo Trinci

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