Prefazione

C’è un altrove nella poesia di Natino Lucente che è immerso nel centro dell’hic et nunc. Sembra un paradosso, anzi lo è: l’affondamento a capofitto nella realtà permette di astrarsi dalla medesima e di vivere in un sopramondo che è una fantastica iperrealtà. Si parva licet componere magnis, potremmo adombrare una convergenza tra la poetica del libro All’altro lato è una città raccolta e l’astrofisica del multiuniverso, elaborata da Stephen Hawking: se immaginiamo di tuffarci in un buco nero – sostiene l’illustre studioso – ne saremmo risucchiati in modo irreparabile da potere essere proiettati senza ritorno in un altro universo dimensionato in modo totalmente al­ternativo. Però nessuno potrà mai confermarci se tale ipotesi sia una verità ovvero una falsità, perché quel tal viaggiatore-astronauta che raggiungesse un buco nero nello spazio-tempo diverrebbe emulo di Ulisse che compì “il folle volo” e che disparve in toto dalla storia del mondo conosciuto. Dove sia finito il Laerziade nessuno lo sa. Natino Lucente, per sua fortuna, non corre un rischio così definitivo e terrificante: attraverso il tappeto magico della poesia egli può vivere, grazie al verbo poetico che si rende vita vissuta, l’esperienza conoscitiva della superrealtà. Già nell’Incipit di questo bellissimo libro, viene indicato il mondo a quattro dimensioni: la terra, il mare, il cielo e l’uomo. La Terra è il pianeta, con la sua lunga storia di oltre quattro miliardi d’anni; il mare è il laboratorio della vita, con la sua sperimentata storia di circa un miliardo d’anni, a datare dall’elaborazione delle prime alghe da cui discenderanno poi tutte le altre forme di vita; il cielo è l’immensità dell’universo conosciuto, con la sua enigmatica vicenda di oltre 14 miliardi di anni di esistenza. L’uomo, infine, è l’ultimo arrivato, pochi milioni d’anni, ma anche ha la specialità di essere pericolosissimo a sé stesso, con la sua presuntuosa vicenda di “parole, soltanto parole”. Ciò significa avere già dato le dimensioni dell’umanità: un fiato di voce, tanto debole e labile, da essere nulla in confronto all’universo con cui si raffronta, pertanto, parrebbe che parva non licet componere magnis. La complessità e l’alta tragedia di tutta la storia dell’uomo sembrerebbe una “raccolta indifferenziata” di deiezioni prive di peso e di significato se raffrontate al superlativo progetto della creazione che è squadernato nell’universo a noi noto di terra-mare-cielo, le tre possenti categorie che si ergono ad enigma insondabile del perché della conoscenza. “Raccolta indifferenziata”, sia detto come nota ri­velativa e confidenziale da parte del prefatore, era il titolo originario annotato in minuscolo sul testo, così come giunse sulla scrivania del sottoscritto – mi correggo, sullo schermo del pc. E quel titolo demandava, in tutta la sua irridente carica antifrastica, alla supponenza del genere umano che si ritiene collocato al centro dell’universo, co­me creatura prediletta dal Creatore, mentre è pacifico, ed è già stato illustrato da tempo dagli scienziati, che la durata della vita umana sulla Terra sarà lungamente inferiore a quella degli insetti e in particolare degli scarafaggi. Più di tutto, sarà minimale la durata del pianeta Terra e dello stesso Sole se confrontata alla durata sconfinata dell’universo che conosciamo. E in tale universo, ormai è notizia suffragata dalla scienza, c’è la ragionevole probabilità che esista un gran numero di altri pianeti simili al nostro, su cui è probabile sia ospitata una dimensione di vita a noi non nota e per ora inimmaginabile. Quand’anche riuscissimo a compiere il maggiore risultato possibile sul nostro pianeta, al massimo dei massimi riusciremmo a decretare la nostra fine. E che cosa finirebbe con la fine dell’umanità? Lo dice il poeta Natino Lucente: finirebbero le “pa­ro­le, soltanto parole”, un fiato debolissimo e subito di­sperso, come un insignificante refolo d’aria.
Eppure, contrapposto al cielo, All’altro lato è una città raccolta / in una conca di esalanti miasmi. L’umanità ha la sua personale civitas che si contrappone al mondo della natura e a tutto il creato. Ma ecco che il poeta dichiara i suoi intenti: “Mi farò uccello e in volo / riguarderò il mare e la città / e sceglierò il cielo / come mia dimensione”. Il poeta immagina la sua vita reale come una favola dell’età dell’oro, come è stupendamente descritto in Danza: “Sulla barca il pescatore / carezza un’orata dorata fra reti sgualcite. / A prua una sirena mostra il seno scolpito / è solo una procace provocante polena, / ed un giovane mozzo / versa acqua di mare sui pesci / che restano ammucchiati ed inerti. / […] / C’è un senso di fine sul mare / e i pescatori con la testa per aria / sono avvolti da una fascia di sole / irreali sopra il buio del mare profondo”.
La poesia di Natino Lucente è un esempio magistrale e modernissimo di “geoepica”, cioè articolato in una coniugazione paratattica tra la storia dell’intero creato, da una parte, colta nella dimensione di quasi eternità e di immobilità, e dall’altra parte contrapposta alla vibrante fragilità e caducità della storia umana, sempre effimera e gratuita, ma così stupendamente colorata di gioie e di tragedie. Storie quotidiane di amori, di donne attese al calare della sera, di promesse pronunciate e poi dissolte nel vento, di ritrovi con amici, angoli di città, panorami cittadini, garbugli della mente, intrecci filosofici, speculazioni destinali: la poesia è una mappatura a rete dell’orizzonte degli eventi umani, sempre così prammatici, concreti, reali, anche se sdrucciolevoli e incerti nella loro de­fi­nizione precaria. La realtà spicciola e quotidiana della vita è il riverbero continuo di suoni, parole, accadimenti, fatti minuscoli, destini anonimi che rilucono nei versi e li illuminano del sapore autentico della vita. Ma proprio questo calarsi così deciso e senza riserve nell’esperienza quotidiana, senza limiti di frontiera, tra passato remoto, presente e futuro, è proprio ciò che fa compiere al poeta il folle volo di dissetarsi alla conoscenza infinita e indeterminata della terra-mare-cielo, cioè di quella categoria poetica che da sempre agita il tempo dell’eternità, dell’immobilità e dell’altrove. Ai fatti della vita, “parole, soltanto parole”, si contrappongono gli equilibri immobili del creato colto nella sua straordinaria bellezza di enigma ipnotizzante e irrisolvibile.
La poesia di Natino Lucente è tra gli esempi più lucidi e vivificanti della costruzione moderna della parola poetica, che è composto con il fango della strada (My way, l’ha definita Frank Sinatra) e si innalza nello splendore del cielo.

Sandro Gros-Pietro

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