Postfazione

Fu un poeta, particolarmente caro a chi scrive, Alfonso Gatto, a sottolineare che i poeti, quando criticano i propri simili, cioè i poeti, arrivano prima dei critici, riprendendo un’acuta osservazione di Roberto Longhi, grande critico d’arte.
Bene, dunque, ha fatto la Tognacci, acclarata poetessa, alla quale lo scrivente ha dedicato una densa e intensa monografia, a occuparsi di un compagno di viaggio e di avventura poetica, anche se non conosciuto personalmente, Vincenzo Rossi, molisano di nascita, come chi scrive, scrittore prolifico, al quale Cerro al Volturno, suo paese natale, ha voluto dedicare una piazza in un pomeriggio culturale, animato dalle relazioni di Antonio Crecchia e sempre di chi scrive.
Bisogna, inoltre, riconoscere alla Tognacci il merito umano, prima che culturale, di occuparsi di un poeta, schivo, appartato, immerso totalmente nel suo lavoro e non distratto dalle sirene, sempre più allettanti, del facile successo editoriale, come basterebbero a dimostrare i suoi molti libri non in vendita, che egli donava con rara generosità alle persone che amava e rispettava, compreso il sottoscritto.
La Tognacci ripercorre, con intelligenza e sensibilità, il cammino poetico del Rossi, richiamando la doverosa attenzione sulla sua vita di pastore-poeta, conoscitore quindi diretto e profondo delle immagini, delle voci di una natura, nella quale egli sempre amò perdersi, contro le fallaci cementazioni della città, che egli sempre rifiutò, perché non corrispondenti alle corde più autentiche della sua mente, del suo cuore.
Di qui una disamina, quella della Tognacci, attenta soprattutto a cogliere e ad elaborare, per il poeta, nuovi ismi, che non hanno nulla a che vedere con quelli proclamati da una letteratura, a volte, falsa e bugiarda. La Natura domina sempre la loro innovativa invenzione e consente all’autrice di specificare e distinguere alcune, ipotetiche, facili convergenze, come, emblematica, quella con Pascoli, di cui è stata una amorosa cultrice, pur nel rilievo di fondamentali differenze.
Vincenzo Rossi rappresenta un caso tutto a sé e, senza voler ripetere gli ismi che la Tognacci elabora, la sua vicenda esistenziale è tutta concentrata nel trovare convergenze, corrispondenze, direbbe Baudelaire, con il mondo degli animali, delle piante, dei fiumi, compreso il dio Volturno, in una simbiosi bioetica, che appare al poeta l’unica capace di svelare il grande mistero dell’universo, che nella morte, alla fine, sembra trovare il suo più terribile contrappunto.
Poeta dialettico, dunque, Vincenzo Rossi, sospeso tra mente e cuore, al quale principalmente si rivolge per accrescere o sedare la sua naturale inquietudine creativa e critica, riuscendo a conciliare la dimensione filosofica ed estetica con quella più propriamente creativa.
Un giusto spazio viene poi dedicato al Rossi traduttore, finissimo nel cogliere gli spasimi e gli exultet dei suoi poeti più amati, colti sempre in quegli aspetti più corrispondenti alla sua natura e cultura.
Quanti poeti, come Rossi, rintanati nelle loro caverne socratiche, ci sono e attendono di essere scovati, scoperti, per essere sottoposti ad analisi, capaci di comprenderli nel novero dei poeti nazionali. È stato questo uno degli imperativi categorici che chi scrive si è imposto, nella fede incrollabile e, se è consentita l’immodestia, insieme eroica, in una letteratura libera e felice, ma soprattutto onesta intellettualmente, che non escluda, in ogni campo, chi merita, ma che, invece, al contrario, regali i giusti riconoscimenti soprattutto a chi non li chiede.

Francesco D’Episcopo

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