Tra i neologismi fioriti in anni recenti, quello del “femminicidio” ha avuto un tale successo, da oscurare quell’altro inventato dall’avvocato ebreo Raphael Lemkin, nel 1944, di “genocidio”. Per femminicidio, con riferimento alle radici latine fecundus, da cui deriva femmina, e occido, da cui deriva uccidere, si intende “uccisione della femmina”. Il femminicidio, se avesse avuto natali letterari, sicuramente sarebbe stato un “donnicidio”. Anzi, Gabriele d’Annunzio, come minimo, lo avrebbe battezzato “dominicidio”, dal latino domina. In tempi di televisione generalista e di giornalismo da barricata, la moneta cattiva ha scacciato quella buona, per cui l’uccisione di una donna si chiama femminicidio, e qualsiasi altra espressione farebbe subito ridere i polli. Le origini della nostra cultura per metà risalgono alla mitologia greco-romana e per l’altra metà alla Bibbia. La prima uccisione gratuita di un uomo è stata il sacrificio biblico di Isacco, con intervento dell’angelo sulla dead line. Invece, la prima uccisione gratuita di una donna è stata quella mitologica di Ifigenia, che si è propensi a ritenere si sia realmente verificata, anche se non mancano versioni salvifiche all’ultimo istante (bene ha fatto Franca Olivo Fusco a non includerla nell’elenco, perché c’è un’insufficienza di prove sul finale del mito). La storia, umana, dunque, è costellata di autentici femminicidi. L’autore è quasi sempre l’uomo, al punto che si dice, “se l’uomo perde la testa, la donna perde la vita”. E questo è veramente un gran brutto affare, totalmente incivile. Ricorda quell’altro detto attribuito a Miguel Cervantes: “quando il popolo si ribella al re, per prima cosa si ammazza il prete”. Alla donna, anche nella celebrazione della letteratura, è rimasto questo indesiderabile ruolo di vittima sacrificale del tutto innocente che viene immolata con un intento purgativo ed espiativo, per liberarsi dalle altrui dannazioni, nelle quali la donna non c’entra un fico secco. Iago è perfidamente invidioso di Otello, e che fa? Organizza il più crudele dei tranelli per fare cadere in errore Otello e indurlo a credere che la buona Desdemona sia disonesta in amore: la donna perderà la vita e Otello perderà sia la testa sia la vita. Questo ca­novaccio shakespeariano purtroppo si è ripetuto in passato infinite volte e si ripete ancora oggi in modo assolutamente intollerabile. La logica che se l’uomo perde la testa la donna perde la vita non può più essere considerato come una legge della fisica, tipo la gravità o l’acqua che bolle a cento gradi, per cui bisogna conviverci e non si può fare altrimenti. La cultura insegna che tale principio è sbagliato. Bene ha fatto Franca Olivo Fusco a enumerare i “cento casi” della lirica e altri ancora, perché si vede chiaramente come in ognuno di essi avvenga il trionfo dell’ingiustizia, della falsità e del male. La cultura non manca di avere fatto il suo mestiere e di avere condannato in tutti i modi possibili il femminicidio come un reato tra i più vili e degradanti che l’uomo possa commettere. Ciò non toglie che i femminicidi continuino a essere una diffusa realtà che si manifesta trasversalmente in tutti i ceti sociali, dai più benestanti a quelli più deboli, a riprova che la lezione non è ancora entrata nella mente e nel cuore degli uomini. Ben venga questo libro di ricostruzione della memoria letteraria scritto da Franca Olivo Fusco, che è utilissimo per dare una solenne ripassata agli scandali maschilisti celebrati dalla cultura.

Sandro Gros-Pietro

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