Prefazione

Agli occhi di Lina Braga non è sufficiente la realtà delle cose, benché quest’ultima susciti una ricchezza di emozioni sia di piacere sia di dolore, al variare degli eventi che riempiono la vita di opposti sentimenti vuoi di gioia vuoi di disperazione, con un arcobaleno indefinito di tinte e tonalità intermedie, contenute fra i due estremi. Anzi, è proprio il laberinto interiore delle possibilità di conoscenza dell’io, quale specchio di rifrazione del mondo esterno, che costituisce in modo preponderante la ricerca poetica, sempre condotta sotto un ascendente di natura simbolista, capace di sviluppare un sistema complesso di metafore e di analogie. Al riguardo, testo di lucida e fondamentale dichiarazione di poetica è la poesia Rugiada di luce, allegoria o espressione traslata del significato di fare poesia, ove si legge: “Sono metafore i fiori a grappolo / dal colore dei pensieri / e offrono alla fantasia / allegorici significati”. Colpisce subito il colore dei pensieri, che si accumula al segnale delle metafore e degli allegorici significati, in un’eco di memoria rimbaudiana attinente al colore delle vocali – “A nero, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali” – che alludono agli “ascosi nascimenti” – ovvero les naissances latentes – del poeta veggente di Charleville. Il viaggio del poeta, in Lina Braga, non si limita ad essere sperimentazione e ricapitolazione delle forme e dei tempi della realtà mondana, ma è sostanzialmente ascoltazione dei segnali sintomatici che provengono dal mondo interiore e che esprimono la ragione prima dei fenomeni mondani, come si interpreta dai versi successivi della già citata poesia: “Presente e viva nell’ego profondo / hai goduto di una gioia / confidata alla natura / e il seme occulto / ha germinato una poesia”. La natura, dunque, è il grande libro della scala, una sorta di DNA del creato, che contiene la formula e la mente della creazione, espressa in un’armonia perfetta di accordi che solo la poesia riesce a rappresentare nel suo linguaggio analogico, fatto di me­tafore e sinestesie: “Da un embrione è nata l’armonia, / la creatura della tua mente / e del tuo cuore, / l’espressione di accordi / in un crescendo di primavera”.
Siamo abituati a inquadrare questa tensione poetica in una visione pascoliana di poesia come conoscenza alogica, prerazionale e vagamente immaginosa. Il mondo è osservato con gli occhi colmi di stupore del fanciullo per ricavarne le somiglianze e le relazioni più ingegnose, i nessi profondi fra le cose, i sentimenti, le idee, i sogni, che poi sfumano ed esalano in un simbolismo evanescente che si vanifica in una bolla di sapone, come è perfettamente descritto nella poesia Teneramente: “Appesa a un chiodo d’argento / una rete raccoglie / felicità effimere, / sogni del mio scenario / e desideri di favole / senza fine. / Bolle di sapone, / in variegate iridescenze, / che l’aria unisce / e poi rifrange / e nel nulla disperde”. La storia ci insegna che il simbolismo è una corrente di pensiero che ha unito e colluso le diverse arti fra loro e ha fatto sorgere una società di artisti della creazione composta indissolubilmente da poeti-pittori-musicisti, uniti da uno stesso linguaggio espressivo: precisamente in questa direzione di sinestesia fra musica e parola va la poesia Tentativi per un adagio, dedicata a Tomaso Albinoni ovvero la poesia Chiaro di luna, che suona come omaggio a Beethoven. Anche la religiosità, diffusa come un alone diafano e trasparente su tutto il creato, resta inintelligibile alla ragione, come leggiamo in Amen: “Ma persa in un contesto / irraggiungibile e infinito / non trovi un’apertura / che concluda / in un abbraccio di luce / il tuo incerto andare”. Tuttavia, ciò non toglie che rimane forte l’esigenza di superamento dell’effimero che ci circonda e di orientamento dello spirito ver­so l’eterno, come leggiamo in Verità dell’eterno: “Misterioso l’eterno / dove non entra il nostro pensiero / è speranza, accettazione, / spirituale ristoro. / L’irraggiungibile ci seduce / e attorno ad esso voliamo / con ali evanescenti”. L’amore resta, stilnovisticamente parlando, il mezzo di traslazione più efficace per elevare le emozioni dello spirito verso i gradini più alti della scala puntata verso il cielo, che è la poesia, come leggiamo in Voglia di mani: “Questo tu mi dài, / ma il mio canto, / serenata di onde e di stelle, / forse non esprime / il desiderio che ho di te”, dove la seconda persona che aleggia nei versi – il desiderio che ho di te – è un senhal stilnovistico in cui si fondono e confondono sia la figura umana dell’amato sia un’aspirazione a transumanare verso una dimensione di amore sovrumano. Quest’ultimo aspetto affiora ancora più esplicitamente nella poesia Ascoltami, in cui l’umano e il divino si sciolgono in un solo incanto: “Come gocce trasparenti di vento / scivolano sulla mia pelle / le tue dita / ed io, / minimo essere vivo, / mi unisco a te / nell’eternità dello spirito”. Sempre ispirata a una nozione di amore ideale, tratto dalla realtà, ma sfociato in un valore che sopravanza il mondo reale è anche la poesia Parole azzurre, ove si legge: “Insieme / abbiamo divelto / pareti effimere / e cavalcato / un destriero d’argento / al di là dell’orizzonte”.
Ma la realtà, nel plesso insolubile e aggrovigliato di tensioni, esigenze, speranze, gioie, delusioni, dolori e incanti, preme nei versi con la forza apodittica dell’ovvietà e dell’assoluta preminenza che la realtà dei fatti si prende su qualsiasi interpretazione simbolica della vita, come leggiamo in Memorie e celate speranze: “Tracce sulla pelle e sull’anima / svelano palpiti vissuti / e tormenti inferti dal destino. / Si aprono o si chiudono / le parentesi del tempo / senza fare rumore / nell’intercalare arcobaleni festosi / in grigi residui di cenere”. Appartengono così alla realtà del mondo le numerose poesie ancorate a una precisa geografia dei luoghi e a una cronologia dei tempi, anche in chiave autobiografica, e che privilegiano decisamente una direzione rivolta ad oriente, verso la Grecia e la Turchia, atteggiamento che allude alle antiche origini della nostra civiltà e, forse, dell’umanità intera, proveniente dall’estremo oriente, ma poi formatasi in modo specifico sulle sponde del medio oriente e della Grecia. La mozione degli affetti verso le figlie Tiziana e Raffaella è il simbolo più luminoso di quanto profondo sia il legame di significati e di emozioni per le cose reali del mondo, destinate a coronarsi in un’aura di nostalgia e di bellezza, sino al calare di armoniosi silenzi nell’anima, e sino a intravedere sorgere l’alba dell’ultimo giorno, che sempre più si avvicina per ogni essere umano. Prefigurare la morte e sconfiggerla in un’impossibile partita a scacchi che impedisca l’annichilimento totale della vita è, forse, il compito più alto e più arduo della poesia; compito al quale Lina Braga non si sottrae in quanto compone un mannello denso e profondo di testi che sviluppano l’argomento, con meditata serenità di accenti, nel dolore mesto e trattenuto per la perdita dell’amica Rosanna (cui è dedicata la poesia Perché te ne devi andare?) e di molte altre situazioni di riflessione sul tema della morte, affrontato con animo arreso all’evidenza dei fatti che ci testimoniano la nostra caducità, ma anche con lo spirito rivolto “alla luce dell’infinito” che “illumina ora / i tuoi passi evanescenti / e musiche sommesse / ti accompagnano / sulle celesti vie / dell’immenso”. Il congedo finale del libro è racchiuso, tuttavia, in un inno alla continuazione della vita, dedicato agli adolescenti che si affacciano briosi e scalpitanti sul palcoscenico ove si recita a soggetto il grande teatro della vita. E in questo finale, in fondo così improntato a un intento educativo ed etico, si scorge ancora un’eco di poetica pascoliana, tale che non vada perduto, pure nella dissolvenza verso il nulla della scrittura, una dimensione di saggezza atavica della poesia che sappia riscattare e valorizzare l’utilità del semplice e il conforto irrinunciabile del nido familiare.

Sandro Gros-Pietro

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