PREFAZIONE

Giunto al suo quarto libro di poesie, il poeta Gaetano Pizzuto dimostra di avere tracciato un percorso coerente e manifesto già nella formulazione stessa dei titoli. Infatti, i precedenti libri si chiamano Tra le onde della nostalgia, il primo; Il giardino delle chimere, il secondo; Echi dell’infinito, il terzo. Ad essi si aggiunge questo ultimo e validissimo, Un sogno lungo 90 lune. I titoli ci dicono quale sia l’intento dell’autore: celebrare il trionfo della poesia sulla logica e celebrare la vittoria del sogno sulla realtà. La magia della poesia riesce a realizzare esattamente queste due vittorie dell’uomo sulle leggi che regolano la realtà: inventare un ragionamento analogico, e moltiplicare le dimensioni del reale grazie al sogno. Si ottiene così una ambientazione poetica del discorso di conoscenza del mondo, che attiene a una sopra-realtà in­finitamente più ampia, ricca e fantasiosa di ciò che ci circonda.
Non va scordato che Gaetano Pizzuto, anche se piemontese per educazione abitudini e amicizie, si porta nel sangue l’imprinting della sua terra di origine, la Sicilia. Il che significa che c’è in lui quella atavica sapienza di vivere che gli deriva dall’essere figlio di una delle più antiche e splendenti civiltà del Mare Mediterraneo, cui si aggiunge la passionalità emotiva per una definizione solare della bellezza, costruita sugli incanti della natura, il gioco delle luci e dei colori, l’inafferrabilità e l’indicibilità della bellezza femminile, avvertita come potenza enigmatica di fertilità e di continua rigenerazione dell’intero universo. Tutto ciò porta Pizzuto a conclamare la sua ricerca del bello in poesia con un discorso sempre tracciato sull’orlo del reale, anzi in una continua tendenza al superamento della materialità delle cose, non già co­me via di fuga dal mondo, ma come suprema esaltazione del mondo stesso, grazie a una rielaborazione me­taforica e iconografica delle cose e delle persone, degli animali e delle piante, della natura e dei paesaggi. Nella poesia di Pizzuto, ogni cosa diviene qualcosa in più della somma complessiva delle cose, perché si realizza il ra­gionamento analogico della poesia che consiste, principalmente, in una deformazione arricchente della realtà che ci circonda.
I pilastri portanti dell’architettura poetica di Pizzuto sono il sentimento della nostalgia e della bellezza come evocazione memoriale proveniente sia dalla storia dell’umanità sia dall’esperienza personale; la vocazione alla riflessione solitaria come fonte di conoscenza pro­fonda; l’incantamento del creato come concorso di cielo mare e terra. La caratteristica principale del linguaggio poetico di Pizzuto è l’uso straordinario e prorompente della metafora, che è chiamata non solo ad abbellire e a illustrare il discorso, ma a divenirne scheletro portante e autentico strumento di espressione, autonomo e sufficiente, dell’intero costrutto argomentativo. Ne deriva che l’impianto poetico di Pizzuto è molto vicino a quello simbolistico, e ciò a causa della traslazione continua che fa il poeta circa il significato dei vocaboli, i quali so­no deviati dalla loro competenza originaria verso un’espressione figurata e simbolica. Non è simbolista, invece, la ragione argomentata del discorso, perché non c’è una fuga dal mondo reale e non si tenta alcun approdo in altri mondi visionari. Anzi, il desiderio concreto e coerente di Pizzuto è di rimanere legato alla realtà del mon­do e del tempo, ed è sempre esercitato con pertinace insistenza. Ma è come se il poeta pensasse che, per andare completamente a fondo delle cose, si renda necessario sopra-vedere ovvero dentro-vedere rispetto alla apparenza esteriore e, quindi, si renda necessario chiamare le cose con dei simboli figurati, che appaiono meno compromessi dei vocaboli usurati e appiattiti dal logorio dell’abitudine.
Circa la vocazione del poeta di stare attaccato alle cose del mondo, si veda, tra le primissime poesie del libro, quella esemplare che si chiama L’artista, ove tra l’altro si legge: Sarò colui che vive nel dolore, / nella gioia, nel ventre delle passioni. / Sarò chi accompagna l’anima nell’ombra, / nella luce, tra i risvolti del tempo. E più in avanti leggiamo Colui che trascrive i pensieri affinché / non volino nel vento… e siano poesie. Appare, dunque, evidente che questa poesia trova la sua collocazione nel “ventre delle passioni”, cioè – se vogliamo sviluppare la metafora – significa che questa poesia trova collocazione nella cruda realtà del mondo. Tuttavia, è anche vero che per esprimersi compiutamente il poeta deve essere “colui che trascrive i pensieri”, cioè – se sviluppiamo questa altra metafora – il poeta è colui che codifica il linguaggio, in modo da farne cosa diversa dall’uso comune dei vocaboli, essendo questi ultimi destinati a essere le dantesche “foglie di Sibilla”, confuse e di­sperse dal vento. Il linguaggio ordinario, pertanto, è quello della comunicazione, che ogni volta esaurisce la sua funzione e la sua durata nell’espressione stessa del messaggio per cui è adoprato, del tipo “passami il sale”, “è una giornata di sole”, “ti voglio bene”, eccetera. Si tratta di parole validissime, che tuttavia durano quanto la luce di un cerino: si accendono, producono il loro messaggio, e scompaiono per sempre. Le parole del poeta, invece, non esauriscono mai la portata del loro messaggio, perché sono codificate nell’espressione profonda delle cose, a tal punto fonda, dice il poeta, da collocarsi nel “ventre delle passioni”. La formulazione del linguaggio poetico è, dunque, sempre nuova, ma è anche sempre antichissima, giacché – a differenza delle parole di uso ordinario – non se ne smarrisce mai la memoria, al punto che la fonte della poesia si confonde con la mi­tologia, ed è per questo motivo che Gaetano Pizzuto, co­me è descritto nella poesia Cercami, si rivolge alla poesia, apostrofandola con l’espressione Tu sei Pieride, ispiratrice di canti, cioè la poesia è addirittura una pre-musa, ossia un discorso che si pone a monte di tutti i discorsi possibili.
In questo mondo del poeta, che non dimentichiamolo, è l’espressione profonda e veritiera del mondo esistente, Tutto è dolcezza, tutto è carezza / e l’amore lascia orme… nell’anima. E il poeta si può definire come il pellegrino errante, che è testimone convocato ad avvalorare la bellezza del creato: Sono il nostalgico / fuorilegge d’indicibili sentimenti / e vado… dove mi porta il cuore, / batto le periferie degli ultimi / fra cari deschi di poveri focolari / e vago, laddove dimora l’amore… / ovunque esso sia. Il percorso del poeta, dunque, non è destinato alla gloria cioè alla conquista del vello d’oro, ma non è neppure speso in un fortuito razzolamento estetico per disparate mete. Al contrario, il percorso del poeta è mirato ai “cari deschi di poveri focolari”: se si traduce la metafora, significa che la funzione del poeta è quella di riscattare la bellezza nella semplicità e di celebrare la ricchezza dello spirito nella povertà dei mezzi materiali. Se vogliamo, si può riscontrare un valore etico della poesia, consistente nella difesa dei deboli, dei più sfortunati, di coloro che sono nell’ombra o che addirittura sono attanagliati dal dolore spirituale di vivere – ovvero dalla sofferenza reale di terribili malattie, come è documentato in Nebbie d’assenza e in Giardini dimenticati e anche altrove – ovvero dalla ristrettezza materiale delle possibilità. Ma non è da credere che questo messaggio di socialità e di civiltà sia l’espressione principale del discorso poetico di Pizzuto, che invece trova nel canto di meraviglia e di contemplazione rivolto alla na­tura le espressioni più trionfanti, come si legge in Ritornando, nei versi centrali: Era il tempo dei limoni acerbi / nel Maggio che affabulava corolle / d’assolate maremme, e, fra lampioni / e giochi di luce e d’ombre, i viali / s’inebriavano di tigli e malva rosa. Altrove leggiamo l’incanto panico del poeta che si sente immerso nell’officina di emozioni vitali (e mortali) che continuamente la natura produce, come è in Natura e creature, ove si legge: La libellula si libra nel bosco / e stremata si posa addentro / un tappeto di foglie, quando / un fiume di stelle scorre / tra gli argini cobalto del cielo / e costeggia l’ombra della sera / lungo greti di nuvole assorte.
Il sogno è la tematica più diffusa dentro la poetica di Pizzuto. Si tratta di un sogno rammemorato ad occhi aperti, rivolto all’incanto di vaghezza suscitato dagli amori del passato, ma ancora più sovente è il sogno de­dicato alla fede in un mondo migliore, in gran parte ri­producibile su questa terra e affidato all’opera degli “uo­mini di buona volontà”, alla loro onestà e al loro operoso impegno di costruire il benessere per alleviare le pene di chi soffre. Ma ancora di più è il sogno da realizzare pienamente nella continuazione della vita al di là della vita stessa e, quindi, in una dimensione metafisica, che la poesia può raggiungere senza perciò automaticamente trasformarsi in una preghiera o in un salmo. E con questa osservazione arriviamo a presentare la scala conclusiva più alta di valori cui tende la poesia di Pizzuto. L’ultimo gradino di elevazione di tale scala è una visione piana e confortevole dell’approdo metafisico cui tendenzialmente giunge – quasi sempre – il pensiero analogico della poesia, cioè il porto della quïete foscoliana, che non si raggiunge con la certezza confessionale e catechista nella fede religiosa, ma che è fornito da uno sbocco superiore alle grandi contese dello spirito verso un approdo supremo di pace e di accettazione dell’armonia universale del creato e delle sue creature. Queste novanta lune di Pizzuto sono il calendario del viaggio fantastico diretto verso il luogo della bellezza suprema della poesia.

Sandro Gros-Pietro

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