PREFAZIONE

La luminosa avventura di poesia descritta da Walter Chiappelli ha già superato i trenta anni e ha avuto un esordio con il carattere della consacrazione, perché fu Alessandro Parronchi – poeta tra i più significativi del secondo Novecento – a consigliarlo di pubblicare e a scrivergli la prefazione al secondo libro, Il dolore disarmato, uscito nel 1979 a distanza di due anni dal primo libro, Vivi. L’intesa poetica con il maestro dei suoi studi d’arte ebbe certamente una ricaduta formativa nell’animo fervido e recettivo del poeta di Pracchia, sensibile all’esperienza dei grandi interpreti della poesia italiana. Quell’ansia di assoluto e quel rapporto di corrispondenze così irrisolvibili ma insistenti tra l’infinito e il finito, che caratterizzano in modo tanto luminoso la sua poesia, li avevamo sempre trovati già nel poeta fiorentino, professore e critico d’arte di fama internazionale. Tuttavia, Chiappelli, dagli inizi, traccia una personale linea di sviluppo. Per esempio, non è mai stato un ermetico, come invece lo fu con formale fedeltà e continuità Parronchi. Ma più di tutto egli sviluppa una innovazione del linguaggio poetico che è un’esperienza fondata sulla sua personale originalità: l’accensione di nuovi nuclei espressivi cementati nell’amalgama di due vocaboli; le trasposizioni di significati per analogia dei significanti; la discontinuità del discorso poetico, realizzata con innesti di frasi l’una nell’altra ov­vero per frantumazioni o per interruzioni e sospensioni. Anche la misura del dettato sembra divenire ben presto un marchio distintivo d’autore. Infatti, il nostro predilige la forma intensa della composizione breve, quasi lapidaria, il mannello di parole che si palesa con forza icastica in quadretto simbolico ovvero nel discorso scolpito con se­lezione di vocaboli che fanno da chiave a uno sviluppo narrativo solo alluso, ma non pienamente svolto nel testo. Si tratta di soluzioni di stile, ma hanno un’importanza talmente rilevante da giungere ad influenzare la manifestazione dei contenuti.
Anche in questo ultimo libro, Soavissima pietas, gli argomenti della sua poesia toccano una grande vastità di temi che fanno riferimento sia ai ricordi del passato sia alla fantasia creatrice di una sopra-realtà orientata alla speranza e alla fede di esiti ultraterreni della vita. I ricordi del passato – ma anche quelli della memoria recente – mettono al primo posto ciò che è sempre stata la grande forza della sua poesia: l’amore verso la donna e l’eros in generale. Proprio quest’ultimo, l’eros, è uno degli aspetti più delicati e scintillanti della sua poesia. In lui, l’eros è principalmente una visione, come se il poeta disponesse di una vista a raggi infrarossi tali da rendere visibile l’irradiamento erotico che la donna effonde e diffonde intorno a sé, un’aura magnetica e riverberante, che attrae l’attenzione del poeta come la corolla del fiore attrae l’ape, che ne va a suggere il polline: “Le ragazze che stanno a testa alta / poppe sode vistose / sotto veli di luce / belle tornite cosce / agili potenti oh / quegli occhi vogliosi fissanti l’uomo / quegli occhi brucianti pieni d’ardore / ch’emanano dolcezze sconvolgenti / se l’uomo che l’ammira brama gioia / l’ebbrezza ch’è regina dell’amore / – E l’ape cede al fiore”. Non si può non citare un altro testo erotico che è stupendo per il richiamo allegorico e letterario del fiore, La rorante rosa, con il neologismo derivato dall’arcaismo rore, rugiada, per significare la rugiadosa rosa (si noti anche l’insistito ruggito di tale rosa, che arrota tre con­sonanti “erre” in sei sillabe): “Sono concentrato fuoco bramoso / che cova fino a essere / giubilante fiamma / le cosce delle floride / ragazze se toccate / con l’energia costante della grazia / che fa lievitare la rorante rosa / fragrante da cui s’irradia il piacere / meravigliosamente in tutto il sangue, / e raggia lo sguardo l’intensa estasi / la beatitudine”. Ma l’amore per la donna è anche sintesi in­separabile di spiritualità e di corporalità, un binomio che è corrispondente alla dimensione infinito e finito, che ab­biamo già visto essere centrale in questa poetica: “Nel­l’animo dell’uomo la donna è grazia / piena bramata gioia / misterioso velame / della luce d’amore / spirituale-sensuale / l’amore che in sé è tutta la creatura / vivente; è delizia e incanto quando ama / con zelo l’uomo donandogli l’ebbrezza / sfiorante la divina vertigine / della felicità. Inesplorato / è il suo essere immenso”.
Le immagini che affiorano nella memoria del vissuto ovviamente non riguardano solo l’eros, ma anche i tanti ricordi di vita, tra i quali assumono particolare im­portanza quelli tratti dagli anni ormai remoti della prima fanciullezza, gli abbracci materni, il sapore del pane fragrante tolto dal forno e servito sul desco. Si rivestono di infinita dolcezza e di una luce di melanconica rievocazione le poesie dedicate alle amicizie scomparse del poeta, ai volti un tempo familiari e ora sbiaditi nel limbo dei ricordi, ma che grazie alla forza vivificante del verso sono ri­chiamati in vita, sia pure solo nell’onesta finzione del ver­so, a testimoniare la loro presenza nel cuore e nella me­moria del poeta, la loro inossidabile attualità, come è nel caso della compaesana Iris Marchigiani: “su quelle pietre i piedi dell’amica / hanno tracciato impronte d’amore / e quell’amore vive ancora dentro me / più forte della morte; com’è santo / e irrinunciabile il bene dell’età / prima, reciproco dono”. La dimensione più alta degli affetti, co­me si è già detto, è contenuta nell’evocazione delle due fi­gure genitoriali, forse, con una preminenza d’intensità ri­feribile all’immagine del padre, perché diviene anche sim­bolo del proprio io esteso nel tempo, in quanto in lui si identifica il figlio, nel succedersi delle storie brevi delle vite umane che attraverso la rigenerazione rendono viva e presente la figura paterna, Il padre a una mia domanda: “Non importa che i figli siano presenti / al funerale, no, / ma devono venire / a stringermi la mano / ad ogni compleanno; / forse è il mio sogno? al funerale certo / saranno in lacrime al mio compleanno / – onda che potrebbe essere l’ultima – / se niente risa filiali e abbracci dolci / tutto per il padre sarà tristezza / e il dolce l’amarezza”.
La natura è un argomento sempre presente nella me­moria del poeta. Protagonisti principali della natura so­no gli alberi, come dire che la flora vince sulla fauna, perché rappresenta la piattaforma primaria su cui si sviluppa lo spettacolo della vita biologica: “Alberi sempre verdi austeri e saldi / e alberi assai fragili / palpitano bellezza / che presto ingrigia e cade” e altrove leggiamo in Alberi e speranze: “Così verticalmente tesi al cielo / ci fanno alzare gli occhi / tendere l’udito gli alberi / stormenti nel celeste / l’odorose speranze / della santa terra […]”. In generale la natura è un trionfo di immagini luminose, splendenti, solatie, abbacinanti di barbagli anche nei paesaggi invernali, innevati e algidi, ma altrettanto inondati di luce. Ci sono fiori aulenti e colorati, uccelli cinguettanti fra gli alberi, pesci guizzanti nelle acque limpide, animali liberi di manifestare la gioia di essere partecipi della creazione. Sullo spettacolo della creazione trionfano le due luci della stessa fonte d’energia, il sole e la luna, le quali trovano un corrispettivo relativo nei due profondi stati umorali opposti che occupano l’abisso dell’anima di ogni uomo, mentre lontano nel firmamento, appese alla volta celeste, le “stel­le rutilanti” stanno a favoleggiare nella mente del poe­ta l’incanto dell’immenso. Si è parlato del continuo con­fronto tra finito e infinito, che trova espressione anche nel tema della natura, così profondamente legato all’immagine della morte, come fase necessaria e ricorrente del­la vita. La morte è avvertita come presenza operosa all’interno della vita e nel corpo stesso del poeta, che lentamente si trasforma in età evolutive di apparente decadenza ma anche di continua rinascita spirituale e corporale. La vita, dunque, è un’officina sempre in funzione, un la­boratorio che non si interrompe mai di progettare, nel fi­nito e nel deperibile, il suo infinito discorso di rinascita: “Mi penso tra cent’anni: sarò cosa? / ineluttabilmente / non questa carne e mente / qualcosa d’altro sarò / forse la più alta foglia / verde dell’albero paradisiaco / chissà, in­travista spesso da bambino / quando crescevo nutrito dal­la linfa / di mia madre gioia gemmante in me / e di mio padre foresta di luce: / forse la foglia verde”.
Poc’anzi abbiamo parlato dei due versanti contrapposti nella tematica di Chiappelli, la memoria e la fantasia, e abbiamo elencato alcuni argomenti ricorrenti nell’ambito della memoria. Ma altrettanta ampiezza e articolazione assume il dominio della fantasia, che, come è già stato accennato, è rivolto a sondare la sopra-realtà del mon­do, nel tentativo di riuscire a farsi una ragione dei grandi enigmi irrisolvibili dell’universo. Nel poeta non vacilla mai la fede in un esito appagante e superiore della vita terrena. Ma l’inquieto cercare i segni e la presenza dell’operare dell’uomo nella realtà inonda l’animo di dub­bi e domande tormentose. Forse, dovremmo parlare dei tanti squilibri dell’universo umano: perché le guerre? perché tanto odio, violenza, olocausto dei deboli, sacrificio degli innocenti? perché tanti errori e orrori, in presenza di una creazione così splendente di luce, d’amore, di bellezza? Per tutto il libro, l’autore tende il filo rosso di tale enigma, che rimane comunque insoluto. Ma il disegno di una sopra-realtà viene offerto nella formula che è già richiamata nel titolo stesso di questo libro, la soavissima pietas. È la dolce comprensione dell’errore umano. Ciò che raggiunge l’acme dell’accettazione della vita, per il poeta – e forse per tutti gli uomini che sappiano elevarsi fino a tale espressione d’amore – è riuscire a essere devoti – cioè avere pietà e sviluppare amore – anche nei confronti della cecità dell’uomo e dei suoi errori. Se si riflette bene su questa tesi, si intuisce che essa rappresenta una situazione teorica talmente impervia da non essere praticabile nella realtà. Perciò si parla anche di una sopra-realtà, perché l’attuazione della soavissima pietas è mancata anche a Gesù, quando punisce il fico perché ha mancato di produrre i frutti, ma ha germogliato solo foglie. In realtà, la parabola del fico, citata e cantata da Chiappelli nella poesia Cristo e il fico, serve a Gesù per dimostrare che chi ha fede riesce a realizzare miracoli come fare seccare immediatamente le piante inutili o scagliare i monti che sono d’ostacolo dentro al mare, solo usando la forza della fede. Similmente, ci dice Chiappelli, che il miracolo più difficile da fare consiste nell’accettazione profonda, ragionata e devota di tutta la nostra natura, illuminata o oscurata, nel libero arbitrio di orientamento verso la lu­ce o di smarrimento nell’errore del fico, che sciupa i germogli in un atto infruttifero.
Per concludere vi è una splendida poesia che riunisce insieme in un cammeo simbolico tutti gli elementi di­stintivi della poetica di Chiappelli e che non a caso si intitola La parola poetica: “Dio mia madre mio padre m’hanno creato / col seme della poesia / forse, l’amico dice / sei poeta in crescita, / e m’accende la gioia… / E penso: quant’è faticoso creare / dentro il cuore la parola poetica / poi farla fremere sul casto foglio / come il soffio ineffabile la rosa, / con voce ferma intonare l’apologia / della sacra creazione”.

Sandro Gros-Pietro

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