Una rosa gialla

Fu Maria Luisa Spaziani a raccomandarmi per prima la poesia di Lucia Montauro, e in particolare una raccolta, In assenza del venditore di more, nella quale era confluita anche un’antologia dei tre libri precedenti. Proprio nell’introduzione a quella raccolta (era il 1994), la Spaziani presentava l’autrice come «una voce che sicuramente ha qualcosa da dire, non raccontabile né riassumibile ma ricca di una perentoria dolcezza, di persuasività, di musica subliminare». Con il suo infallibile intuito, Maria Luisa aveva colto nel segno, soprattutto con quella precisazione – «musica subliminare» – con cui definiva non tanto il verso, quanto l’andamento complessivo, mi verrebbe da dire l’atmosfera onirica e sensuale di una poesia in cui i contenuti si sciolgono naturalmente in suono, si fanno suono, se è vero, come è vero, che tutta la poesia di Lucia Montauro è come una grande arpa eolia, in cui a vibrare è la vastità sonora del mondo.
Chi legga, senza la transizione degli altri undici libri di mezzo, la prima e l’ultima raccolta della Montauro, avrà la sensazione che nulla sia cambiato nella visione poetica dell’autrice: né la storia privata, né quella pubblica hanno avuto il potere di modificare il suo sguardo sul mondo, la natura della sua lingua. Questa fedeltà ha qualcosa di originario, di aurorale, che precede ogni decisione e ogni scelta, e di cui già parlano i titoli delle singole raccolte: Poesie varie, Tra pensiero e labbra, Tra due lontananze, In assenza del venditore di more, Il fluido dell’alga, Le costole del sonno, L’ebbrezza transitoria, L’insonnia della psiche, Le vaghe forme dell’incanto, I miei sette mari, Diario peloritano, Mediterraneo cangiante perlage, L’enigma dei pensieri nascosti. Tralasciando il titolo della plaquette d’esordio (pubblicazione-premio di un concorso di poesia, non ancora un libro vero), la ripresa (nei titoli della seconda e della terza raccolta) della preposizione tra definisce immediatamente il territorio tutto immaginoso in cui le poesie vanno a collocarsi: «tra pensiero e labbra / di conchiglia lontana dal suo mare», precisa il componimento eponimo del libro. Il poeta si sente insomma come una conchiglia strappata al suo mare, costretta a vivere in una sorta di esilio dell’anima: e basterebbe questo a designare l’orizzonte letterario e culturale di tutta questa poesia, a cavallo tra simbolismo di fine Ottocento e tutta la grande trama del postsimbolismo novecentesco.
La dimensione marina evocata dalla figura della conchiglia si ripete d’altronde nei titoli di tre delle raccolte successive (Il fluido dell’alga, I miei sette mari, Mediterraneo cangiante perlage), come se l’elemento acquatico fosse la dimensione stessa del poetico, alla quale andrà ricondotta anche la materia dichiaratamente onirica di due altri titoli (Le costole del sonno, L’insonnia della psiche): e molta della produzione della Montauro sembra concepita nella sostanza molle e fantastica di un sogno notturno, o in quella, più sfumata, di una rêverie dai contorni vaghi e indefiniti.
È in una poesia di Le vaghe forme dell’incanto che emerge nella sua compiutezza la natura ipnotica e purificatrice del sonno e dei sogni. La poesia si intitola La luna, la sfinge: «Trame nel mistero del sogno; / l’ansia che si consegna / all’àncora semisommersa / dove, come edera, si attacca l’alga. / Tutto avviene nei falò del sonno / dove rincorrendo l’essenza / che vorresti / vivi la breve quiete. / An­che la luna spesso / occulta il suo sorriso / come la sfinge // occhi sibillini fissi / sui deserti di ogni tempo». Si noterà, anche qui, come gli emblemi della vita marina si leghino a quelli dell’esperienza onirica. Bruciando nella materia del sonno-sogno, la vita ci immette in un mondo di essenze: tutto è «mistero», «sfinge», «occhi sibillini», anche la parola ha questo potere di sollecitare un altro sguardo, di muovere l’anima «oltre» la scorza del visibile, facendo affiorare segni di una vita profonda, sepolta in noi o sotto il velame delle cose. L’intero mondo poetico di Lucia Montauro sembra in fondo vibrare di questa aspirazione all’eterno, consumarsi nell’immane combattimento tra l’anima che vorrebbe «librarsi nell’aria / ad altezza di aquile» (Eolo, in L’enigma dei pensieri nascosti) e il sentimento del nulla che continuamente ne insidia lo slancio. Nel suo ultimo libro, pubblicato postumo, l’autrice è ben conscia di questa battaglia, che è anche, nella sua idea, la battaglia stessa dell’arte: si tratta di nutrire «d’oro i pensieri / tessendo veli-custodi / di attimi rari» (Attimi rari), pur «senza risposte ideali» (Passaggi), e ben sapendo che «non basta / nutrirsi d’ambrosia» (Rovello), ma nella convinzione che «La vita non è vita / senza la brama dell’impossibile / senza la tentazione di tradurre / il cifrario segreto delle stelle», come già leggevamo in un componimento (Cifrario delle stelle) de Le costole del sonno.
L’orizzonte di queste poesie è tutto naturale, come se il poeta intuisse che la verità ultima delle cose è nella percezione sensibile di un mondo privo di uomini, spogliato di ogni peso storico e sociale. Nondimeno, perché quella percezione agisca e qualcosa, epifanicamente, accada, occorre che il poeta la affidi alla forza sorgiva di una parola. In una delle ultime poesie (La sensazione più varia) di L’enigma dei pensieri nascosti, la vita si manifesta «con profumo di terra», camminandoci accanto come un’ombra, una proiezione del nostro corpo: ma ancora più importante sarà quel suo vagheggiare e cercare «tra virgole e punti», cercando cioè la forma che la riveli, il verso-alveo nel quale riversarsi.
In una poesia di Tra pensiero e labbra (Virgole e punti), la coincidenza fra parola e oggetto è ancora più pronunciata: «Infine si elidono da sole / metafore di gigli e di papaveri / di questo di quel cielo / ma un’ombra di profumo resta / per lo slancio ancora / a superare siepi e muri / di virgole di punti». È di nuovo un profumo, qui, a sollecitare lo slancio poetico, dove la stessa coppia «di virgole di punti» si dà qui nella forma di «siepi e muri». Questo travasarsi di elemento naturale e verbale era d’altronde già evidente fin dall’incipit del componimen­to, dove non sono gigli e papaveri ad accamparsi, ma «metafore di gigli e di papaveri», che si elidono nei loro cieli linguistici, e di cui resta «un’ombra di profumo». Se la natura si travasa nella materia della lingua, tutta improntata di sacra naturalità sarà allo stesso modo la lingua della poesia.
In un altro componimento di Le vaghe forme dell’incanto, «idiomi universali», ovvero il linguaggio della natura (quel linguaggio che, sia pure enigmaticamente, è inscritto nella nostra anima) appaiono «scritti tra punti e virgole», si manifestano cioè nell’alveo del verso, riconducendoci a una dimensione ancestrale e ipnotica della vita. E non sarà un caso l’esergo luziano su cui il libro si apriva: «Quante ombrose dimore hai già sfiorato, / anima mia, senza trovare asilo: / dal sogno rifluivi alla memoria, / da memoria tornavi a essere un sogno». L’insistenza su immagini che tornano, identiche, a distanza di anni, trasmigrando da una raccolta all’altra, indicano la fedeltà e la continuità di una poesia in cui ogni verso si dà come una variazione musicale dei precedenti.
Il pensiero costante del mare e dell’elemento acquatico riporta il lettore alle origini siciliane di Lucia Montauro, sottese in tutte le raccolte, ma che si espandono nel perimetro di un intero libro con il Diario peloritano del 2016, che andrà letto non solo in senso elegiaco, come un ritorno alla terra della propria infanzia, ma anche, e forse soprattutto, come un ritorno alla terra della poesia (e l’epigrafe goethiana lo conferma). Non sorprenderà, allora, che una di queste poesie, L’isola, trasmigri fin qui dalla plaquette dell’esordio: è il segno di una fedeltà e di un attaccamento ai propri miti, e anche la dimostrazione che la poesia di Lucia Montauro si sviluppa come un carmen continuum, restando in fondo indifferente al disegno di un singolo libro: unico è il libro, come unica l’ispirazione che lo determina nel corso di almeno trent’anni.
Il motivo dell’isola, che già si impone nella prima poesia del Diario, andrà d’altronde letto anche nel suo valore metaforico ed estetico: isola è la poesia, nella concezione dell’autrice, e cioè uno spazio conchiuso, difeso dalle onde del mare, sovrastato dalla luce di un grande cielo mediterraneo, esposto all’influsso dei venti, alla potenza ammaliante dei suoi profumi. Gli elementi naturalistici, qui, varranno soprattutto nella loro dimensione di archetipi e di simboli.
La poesia che più di ogni altra rivela il significato profondo della raccolta è Prima che: «Qui riscopro l’esta­te / e le palme dei mattini chiari / che fanno leggeri i passi / ed i pensieri. / Qui dove il sole / si alterna alle sere stellate / nel saliscendi dalle colline / al mare / decifrando geroglifici di orme / trovo l’identità perduta / ed è beatitudine di vino astrale / a creare apparenze di giorni eterni / prima che tutto svanisca ancora / ed io torni lontana / come a morire». Ponendo l’accento su quel «prima che», il titolo dice come il pensiero poetico della Montauro non si abbandoni mai integralmente alla dimensione dell’ebbrezza, che è sempre (come insegnava il titolo del 2011) provvisoria: nondimeno, quella «beatitudine di vino astrale» non è meno reale del sentimento di morte. Si noti anche l’accostamento antitetico del quartultimo verso: «apparenze di giorni eterni»: benché volta al canto, al disvelamento, alla felicità, la poesia non può celare, nel suo fondo, quel sentimento della fine, quella fatale malinconia, su cui spesso vanno a spegnersi i componimenti del libro.
Resta il fatto che l’ultima poesia scritta da Lucia Montauro (Lungimiranza, in L’enigma dei pensieri nascosti) è ancora tutta nel segno dell’isola amata, e dunque della poesia: la marcata iterazione dell’incipit («Isola, isola») è un dato linguistico in sé commovente, perché si condensa in esso il senso di tutta una poesia e di tutta un’esistenza: quell’iterazione è insieme un vocativo e una parola di pienezza, un sogno di poesia in cui la fine si salda, miracolosamente, al suo principio.
«Forse è risposta / una rosa gialla / sbocciata chissà come, / non chiamata», aveva scritto l’autrice nella chiu­sa di uno dei suoi libri più felici, Il fluido dell’alga: questo volume, nella sua interezza, è in fondo racchiuso in quell’immagine di solarità e di profumo, è davvero «una rosa gialla», sbocciata chissà come nel gran giardino del mondo.

Giancarlo Pontiggia

Anno Edizione

Autore

Collana