Nota introduttiva

Non è facile, in qualità di figlia dell’autore, dire qualcosa sul fatto di dare alla luce questo lavoro a più di venticinque anni dalla morte del medesimo. Alcuni anni fa l’ho inviato al Premio Archivio Diari e, pur non venendo il libro selezionato per la premiazione, alcune pagine scelte vennero inserite nell’antologia La bicicletta, edita nel 2009 dalla Fondazione stessa. La cosa non sembrava conclusa. La scrivente era ben a conoscenza dell’importanza che avevano rivestito la scrittura e la riscrittura di questo libro, intraprese all’atto del pensionamento, per un uomo che fin da giovane si era cimentato con la scrittura: poesie, racconti per ragazzi, un testo per il teatro. Il cimento di questo libro era un altro: si trattava di scrivere un romanzo autobiografico, che desse ragione di tutta una complessità di temi che attraversano l’uomo e la donna, il rapporto tra l’uomo, la morale e la società che la codifica e la interpreta, il rapporto tra pulsioni e coscienza. Temi che avevano influito sulla vita dell’autore-protagonista più della guerra e del suo essere ateo e comunista. Cosa, quest’ultima, che nel libro non emerge, mentre in vari momenti prende rilievo la riflessione sul proprio essere “controcorrente”, al punto di dichiarare di provare “una specie di orgoglio per il fatto di essere un uomo che ha idee, giudizi e comportamenti del tutto personali, per lo più difformi e talvolta in aperto contrasto con quelli correnti”.
Così ci ho rimesso le mani e, nell’atto della trascrizione al computer, si è fatta chiara la necessità di limare e ripulire la stesura da alcune insistenze e ripetizioni che non solo appesantivano il racconto, ma lo distoglievano dall’intensità che manifestava quando dette insistenze venivano sgombrate. Si delineava un giovane “dotato di spirito romantico” che si esaltava a sognare il momento del congiungimento con la donna come “irripetibile e sublime”. Un giovane che già dalla scuola nutriva l’amore per la letteratura e che il lavoro, la guerra, gli avvenimenti della vita avevano condotto a mettere in secondo piano tale passione. Un giovane che, attraverso le lettere che scriveva durante il servizio militare, coltivava il mito di “una donna ideale”, mito che conserverà tutta la vita cristallizzato in Flora. Flora resterà l’unica donna in grado di incarnare questo mito, forse perché con essa il congiungimento non potrà compiersi. Un giovane che non rinuncerà a credere che l’amore sia dato dalla “necessità irresistibile di abbracciare, baciare, accarezzare, esprimere l’amore con gesti, parole, atteggiamenti” fino a “possedere” la donna amata; che non può accettare che l’amore sia soltanto il “volersi bene” di cui parla Clara, la donna che prenderà in moglie: “stare insieme, farsi compagnia, aiutarsi reciprocamente”.
Questo uomo non può rinunciare al sogno che l’amore sia perfetta e assoluta unione di vita e di sensi, e continua a dibattersi tra l’istinto, che si manifesterà nella sua dimensione “bestiale”, e il nutrire tenerezza e pietà, comprensione e dedizione. La dimensione bestiale affiora quanto più si fa accanito il dibattersi di pulsioni e spinte incontrollabili: una ricerca dell’estasi e una capacità di sognare che rasentano l’“allucinazione”, al punto che non è possibile distinguere se si tratti del mantenersi e rinnovarsi della speranza e dell’illusione, oppure se siano davvero inalienabili la battaglia e la gara-sfida per la “vittoria” e quindi per la “conquista” del “frutto proibito”. Mentre tenerezza e pietà emergono a mano a mano che emergerà quanto incidano l’educazione e le opinioni comuni, condivise dalla società, a plasmare il carattere e il comportamento di Clara, e non solo di lei. Al tempo stesso proprio queste opinioni condivise lo porteranno ad appropriarsene, quando le arti della carezza, della parola e del gioco sensuale e insieme romantico si riveleranno perdenti. Tali opinioni allora andranno a supportare il fatto di esercitare il diritto di possedere la moglie, non partecipe, passiva, che non può sfuggire.
Se l’autore esplicita che per la prima parte della sua vita, fino alla nascita della prima figlia, il “filo conduttore fu essenzialmente quello del sesso”, tutto sembra convergere in quel ricordare Flora e farne riapparire alla memoria l’immagine, per esclamare: “Forse esiste ancora su questa terra una donna capace di estinguere la mia gran sete d’amore”. Illusione, ideale, mito, fantasticheria, suggestione che continueranno a scontrarsi con quella sorta di “choc psicologico” che affligge Clara per quanto riguarda il corpo e la sessualità. A tutto questo conflitto, si affianca la figura di Clara, il suo essere ben capace di mandare avanti la famiglia, eseguendo lavori e faccende sì che, “sia io che le figlie, pendevamo interamente dalle sue mani”.
È importante lasciare al lettore di percorrere e scoprire l’intreccio del racconto. Da parte mia, in quanto figlia, mi sembra importante rilevare che molti di questi conflitti, domande, miraggi e fantasmi sono stati percepiti e sembrano proseguire ad agitarsi nelle donne e negli uomini ancora oggi. Insieme sono state percepite l’aspirazione e la tensione all’assoluto, la passione intellettuale e letteraria. Dare a tanta distanza di tempo alla stampa questo libro è il modo di salutare il padre, e di mettere il punto a una storia di vita complessa e sofferta. È il modo di riconoscere che c’è una continuità nelle tematiche che si sono dovute affrontare, ma anche nelle ispirazioni e tensioni alla vita e all’oltre. Il vento dell’amore per la letteratura e la scrittura ha circolato, e questo è un omaggio al suo talento.

Mara Fabbri

 

Più che un romanzo con l’intreccio di una trama, questo bel libro è una confessione nonché una sorta di autoanalisi che l’autore conduce intorno al suo desiderio di amore in “carne e spirito” perennemente manifestato nei confronti della propria moglie, la quale, invece, distingue le due condizioni: quella della carne, come qualcosa di bestiale, e quella dello spirito, come una forma eletta del sentire umano, e pertanto si sente vocata solo alla seconda forma di amore, pur essendo madre di due figlie. Ma nel romanzo prende corpo e sostanza anche la collocazione storica dei protagonisti, immersi nel loro tempo di combattuto confronto tra tradizione e innovazione: spicca la loro formazione culturale, bene diversificata, tra l’altro, tra Eugenio e la moglie Carla. Si ricostruisce così il quadro di un come eravamo che assume una rappresentanza simbolica delle condizioni del coniugio tipico tra marito-moglie negli anni intorno alla seconda metà dello scorso secolo in Italia. Ed emerge anche la frizione tra una cultura imperante tendenzialmente cattolica e castigata fino al bigottismo, e una cultura laica e progressista, ispirata, almeno negli intenti ideologici, alla piena realizzazione roussoniana delle libertà naturali dell’uomo. Si aggiunga, infine, una pratica di scrittura di tipo auto-confessionale, che è quanto di più moderno e di più contemporaneo oggi la narrativa stia proponendo ai lettori, specie nella confessione delle cosiddette “voglie segrete”, che oggi giorno sono divenute oggetto primario e privilegiato di pubblico racconto, per cui la vicenda di Eugenio con Flora, in alternativa alla “gabbia” del legame coniugale, attribuisce un sapore di mondanità contemporanea all’intreccio della vicenda romanzesca. L’ultimo, ma tutt’altro che meno importante, elemento della vicenda è costituito dalla straordinaria curatura del libro, svolta dalla figlia devota dell’autore, Mara, che dal padre derivò anche il magistero della scrittura riuscendo a imporsi all’attenzione dell’editoria e dei critici più sensibili, per cui le toccò in sorte – come spesso accade in questi casi – di sopravanzare il suo stesso mentore.

Sandro Gros-Pietro

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