PREFAZIONE

 

Il titolo della silloge si può considerare sintesi minimale del contenuto, infatti “carne e spirito” si alternano progressivamente nel testo come sequenze apparentemente antitetiche nel sema, ma di fatto se non sinonimiche, sicuramente convergenti nel fine ultimo che persegue l’autore: il possesso del bello e perciò dell’assoluto, di Dio.
La parola “aretè” nel greco antico indicava il bello e il buono, infatti ciò che è bello non può non essere buono, né ciò che è buono può non essere per la sua stessa essenza bello.
Dunque il poeta è alla ricerca dell’aretè che nella terrestrità trova la sua espressione nel “calòs” femmineo, nell’ambito della spiritualità si pone come ricerca di Dio.
La bellezza è anatomicamente gustata e goduta, ma l’eros presto trascende il carnale per divenire termine di paragone di valori: “… Il tuo seno / ci è ancora più caro della speranza… Tu sei la musica, l’amore, e la poesia. Tu sei la fiaba, / il mito, / la leggenda.” (in Le tue cosce inebrianti).
Certo, non siamo di fronte alla donna-angelo di Dante e degli Stilnovisti, né di fronte alla Cinzia di Montale, comunque per Accorsi, come per i suddetti poeti, la donna è salvezza, è colei che fa trascendere il terreno e le sofferenze per raggiungere mete altrimenti non perseguibili: “Oh stupenda, / agile bellezza! Il giovane / che saprà conquistarti / avrà per premio / la felicità… ”
La salvezza che la donna offre, o meglio che il suo corpo offre, è però tutta terrena e trova nell’hic et nunc il suo inizio, il suo scopo e la sua fine.
Il poeta è consapevole di tale finitezza, pertanto non si contenta e cerca con angoscia l’immortale, che lo induce contemporaneamente a trascendere, ad andare oltre, verso la ricerca di Dio, a cui vorrebbe attingere quale imperitura salvezza, quale unica fonte di quell’aretèche il poeta non solo vorrebbe personalmente vivere, ma vorrebbe che l’intera umanità vivesse.
Ma Dio è lontano, appare e dispare, spesso è desiderio e non possesso, meta da perseguire, ma difficile da raggiungere.
Tanto male il poeta sente insito in sé, tanto nell’umanità corrotta: “… Abbi pietà di noi, Signore, perché siamo deboli, / perché amiamo noi stessi più di Te, / perché siamo schiavi delle nostre voglie…” (in Non ti amiamo) e questo male rende l’uno e l’altra incapaci di amare Dio.
Tale incapacità, tuttavia non si traduce in rassegnazione e, se talvolta pare contentarsi del terrestre calòs, più spesso questo si pone come risultato ultimo di un processo diairetico che tende platonicamente all’idea assoluta del bello, cioè a Dio in cui trova compimento quell’aretè di cui prima si diceva: “Il gabbiano e le sue ali tese / alla mercé del vento. / Che le nostre volontà siano come le sue ali. / Alla mercé di Te, Dio.” (in Come le sue ali).
La silloge è divisa in varie sezioni, introdotte da versi-chiave che fungono da frontespizio; la loro eterogenea alternanza semantica, rivela l’oscillare esistenziale del poeta diviso tra cielo e terra, in una costante ricerca che nella mercé divina trova il suo approdo, ma non la soluzione.
Il linguaggio semplice, direi quotidiano, ma non osceno, nonostante la frequente tematica erotica, rende i versi fruibili ad ogni tipo di lettore. Inoltre, il procedere spesso anaforico del discorso, la calibrata disposizione delle parole, sia grammaticalmente che graficamente, aumenta la pregnanza semantica dei versi che in tal modo rendono appieno l’ispirazione che li ha originati.

Francesca Luzzio

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