PREFAZIONE

Lo spunto del bel libro di Tommaso Boni Menato, Il lupo e altre impronte, sta nel titolo di un altro bel libro, Istruzione per l’uso del lupo, dello scrittore romano Emanuele Trevi, pubblicato per la prima volta nel 1994. Trevi, studioso e romanziere, nel suo libro, se la prende con i critici, i quali oggi non farebbero più il mestiere loro deputato di “ciceroni museali” che illustrano con efficacia corsiva i valori della cultura ammirati dal grande pubblico dei fruitori dell’arte, della letteratura e della filosofia, ma al contrario si esaltano ad ascoltare se stessi e, totalmente dimentichi delle aspettative del pubblico, si dilettano in disquisizioni cervellotiche e gratuite. All’origine della questione, che messa in questi termini sembrerebbe una polemica, ci sta in realtà un tema molto grosso, che illuminò il lavoro di un filosofo come Julien Benda, e che precisamente sfociò nel libro La trahison des clercs, uscito per la prima volta nel 1927, e apparso solo in anni successivi come Il tradimento dei chierici. Questi ultimi sarebbero gli intellettuali che abdicano alla loro funzione di maestri del sapere umano e preferiscono diventare dei corteggiatori servili della politica e dei loro leader. Ripreso in anni più recenti, il tradimento dei chierici diventa invece l’atteggiamento dei “cattivi maestri”, i quali tradiscono totalmente le ragioni delle discipline che studiano e si riducono a fare altre cose che non gli studiosi, pur sempre in nome della loro presunta neutralità scientifica, sottoscrivono attività con grossolane ricadute di interesse privato, vuoi orientate alla rivolta sociale vuoi, al contrario, a favore dell’ordine costituito, però sempre camuffate sotto valori etici inesistenti. Ma tali traditori possono anche perfezionare altre forme più sopraffine di rinnegamento delle loro funzioni: cioè, possono inventare un “filosofichese della cultura”, ossia un linguaggio astratto e sofisticato, totalmente inadatto e incapace di correlarsi con la realtà e buono solo ad alimentare altre forme filosofeggianti della critica. Contro questi cattivi maestri è invocato il ritorno del lupo. Il lupo rappresenta la rottura con la ragione e il trionfo della paura. Augurarsi di potere ritornare ad avere paura del mondo e delle sue espressioni è, chiaramente, una proposta polemica e paradossale, ma serve a drammatizzare, anche in chiave ironica e sarcastica, il sentimento di noia e di fastidio che suscitano le celebrazioni incensatorie della cultura autoreferenziale moderna.
A bene guardare, dietro l’invito alla nostalgia del lupo non si nasconde affatto il timor mundi misoneistico, tipico di certe sette religiose o di certi ambienti culturali molto resistenti a ogni forma di progresso, e che si dichiarano avversi alla modernità e a gran parte delle evoluzioni sociali e tecnologiche. C’è invece quello che Jack London chiama “il richiamo della foresta”, cioè quello spirito di libertà che sfiora l’anarchia e quella logica comportamentale che sfiora l’istinto e che costituiscono il fondamento tetragono dell’antropologia su cui certamente poggia e si sviluppa l’organizzazione civile e sociale. Avere il culto del lupo, sotto questo profilo, significa volere mantenere sana e vigorosa la base antropologica su cui poggia la nostra civiltà. Per fare una metafora chiarificatrice, diciamo che esercitare e igienizzare le gengive non significa procurarsi un morso più crudele per infierire sulle prede, ma al contrario significa dotarsi di un sorriso più civile rivolto agli amici. Ma c’è di più. E il di più consiste nel fatto che il viaggio intrapreso da Tommaso Boni Menato verso la presunta ferinità istintiva e antropologica consiste in quel famoso movimento di risalimento del corso del fiume che sicuramente è stato uno dei temi più affascinanti della letteratura americana di inizio dello scorso secolo, sviluppato per la prima volta da Joseph Conrad, nei due notissimi capolavori Lord Jim e Cuore di tenebra, specie poi quest’ultimo romanzo è divenuto un classico, riverito e frequentato con ammirazione da scrittori, pittori e cineasti, tra cui il più noto a livello mondiale è stato Francis Ford Coppola con Apocalypse now del 1979. L’area culturale è, dunque, la stessa: Menato esattamente come Coppola “risale il fiume della civiltà” alla ricerca del colonnello Kurtz così come Conrad ha spedito prima Lord Jim a cercare Doramin eppoi, in Cuore di tenebra, ha mandato Marlow a cercare il commerciante d’avorio Kurzt (lo stesso nome preso a prestito da Coppola!): costoro sono i “lupi”, rappresentano il terrore e l’orrore della violenza, hanno superato tutti i confini della civiltà, sono puro istinto e ferinità, sono esattamente “cuori di tenebra”, cioè la materia antropologica su cui si costruisce l’umanità. Menato compie lo stesso viaggio, ma in modo totalmente diverso, in primo luogo perché il registro che adotta è quello sarcastico e ironico, che non ferisce l’anima con tragedie lacrimose o truculente, ma che la trapassa con il laser della comicità, con l’uso dello sfottò, con l’impiego della farsa, con il sorriso bonario dell’intelligenza e dell’accettazione. Per dirla in soldoni, il lupo di Menato è un “animale iconico”, proviene dalle favole, ha tenuto compagnia a Esopo e ai fratelli Grimm, è un “lupo da biblioteca”, che ha praticato il suo mestiere di icona della paura fino dai tempi della Bibbia. Questo fatto ci chiarisce subito la principale ragione di differenza tra le risalite del fiume fatte da altri scrittori e quella proposta da Menato. Quelle precedenti sono tutte contestualizzate in un preciso momento storico. Non è così, invece, per Menato, che risale il fiume servendosi come imbarcazione del suo io-poeta, cioè del personaggio umano, in parte autobiografico e in parte oggetto della sua fantasia, che egli stesso si è ricostruito come astronave con cui viaggiare nel tempo delle civiltà umane. La temporalità dei poeti moderni è un concetto vasto e articolato che è formato da tutto ciò che essi riescono a descrivere e a vivere sulla pagina in modo autentico: può essere l’antichità greco-romana oppure l’attualità del corteo sindacale avvenuto ieri pomeriggio. Ma anche il mondo in cui vivono è dato da tutto ciò che i poeti moderni descrivono nella loro pagina di poesia: può essere il salotto di casa propria ovvero, con la stessa autenticità, può essere un lager in Polonia ovvero “realmente” possono essere condotti sul patibolo nelle vesti di re di Francia, per poi ritrovarsi, nella poesia di qualche pagina adiacente, in un’escursione evocativa sulla seggiovia di Trafoi, con la cugina Lucia, già passata a migliore vita. Questa visione poetica di identità plurale attribuisce al testo una profondità e una simultaneità di luoghi e di tempi che nessun altro viaggio “alle sorgenti del fiume” fino ad ora aveva messo sulla pagina. Il tempo del poeta è la scia luminescente delle sue letture, che si osservano allo specchio con la propria scrittura. In tale modo, nasce il colloquio citazionale del poeta con i suoi amici, autori dispersi nei diversi paesi e in tante civiltà letterarie e storiche differenti, che entrano in un dialogo di eserghi, epigrafi, citazioni, appropriazioni, omaggi, contaminazioni, fusioni, corrispondenze, contrasti con l’io-poeta che interpreta la pluralità delle voci letterarie: metaforicamente, si tratta del sussurro e dello sfioro tra la barca dell’io-poeta e le rive del fiume che il poeta sta risalendo. La poesia di un poeta moderno è, dunque, il suo repertorio di “scrittura & lettura” esercitato e posseduto con consapevolezza e con virtù, esattamente come potrebbe fare un compositore moderno, che citando gli altri compositori esprime se stesso e la sua arte. Il lungo viaggio di risalita alla ricerca dell’autenticità e dell’identità primaria delle cose e delle persone conduce il protagonista a liberarsi dell’apparenza e a vedere solo la sostanza dell’esperienza umana. Allora, come succede nelle credenze praticate nell’antico Egitto, va a finire che se si rimuove dalla mente tutto ciò che nel tempo è decaduto a disvalore e a vanità, l’anima che resta al termine del viaggio diviene più leggera di una piuma ovvero, se si preferisce dirlo in termini moderni, il peso dell’anima non raggiunge i venti grammi, e il viaggio compiuto, anziché essere letto come un passaggio attraverso la “valle delle lacrime”, diviene un percorso nella “valle di determinazione dell’anima”, come è detto nei versi di John Keats, Consider, please, the World as the Vale of making Soul, collocati in epigrafe alla poesia Fulgida stella di Menato.
La poesia di Tommaso Boni Menato possiede il fascino e il convincimento dell’opera scritta con impiego di un’alta cultura poetica, alimentata dal confronto riflessivo e comparato di tante voci di autori diversi, scelte con gusto e con sicura conoscenza degli argomenti e dei contesti di riferimento, e convocati nel testo – che finisce per assumere una risonanza di pluritestualità – a intrecciare e a sviluppare il discorso dell’io-poeta, costruito intorno a un’ipotesi di ricerca originaria dell’identità della figura umana, nei suoi valori essenziali di espressione della gioia, del dolore, dell’amicizia, dell’impegno artistico, della bellezza, del racconto poetico del mondo.

Sandro Gros-Pietro

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