PREFAZIONE

La concezione che Michele Russo ha elaborato della poesia si avvicina all’intreccio plurale del libro dello scrittore tedesco Michael End, che si intitola Die unendliche Geschichte, tradotto in italiano La storia infinita. Si tratta di una formula declinata al plurale, perché la trama è orientata ad agganciare una serie di differenti universi possibili, della storia, della fantasia, della letteratura e altro ancora. Per usare un’espressione tratta dall’astronomia, si parlerebbe di una concezione dell’universo a stringhe, che si sviluppa in una moltiplicazione dei mondi possibili, i quali tutti insieme comporrebbero il multiverso, cioè la sommatoria complessiva di ciò che c’è, cui si aggiunge ciò che non c’è, ma che potrebbe esserci altrove o potrebbe esserci stato in passato o, infine, potrà esserci in un futuro tuttora indeterminato. Michele Russo non è uno scrittore di fantascienza e non è neppure un astrofisico. Egli è decisamente un poeta, e per convincersene basterebbe leggere le considerazioni che egli argomenta sul tema della poesia, e che, per rispetto dell’autonomia interpretativa del lettore, egli ha voluto collocare in fondo al libro, come fossero un’appendice aggiuntiva, a uso di chi volesse più vedere circa l’architettura con cui è costruito il suo discorso poetico.
Si tratta di un discorso che assume due colorazioni distinte: la prima è una proiezione nella vita del poeta, la seconda è una proiezione nella storia dell’umanità. Il poeta racconta sé stesso. Anzi, non compie una vera e propria epica personale organizzata in una vicenda poematica consequenziale, ma compie, invece, un accumulo di episodi o meglio ancora di evocazioni diafane, quasi fantasmatiche, illuminate da una “nebbia” opalescente che rischiara le tenebre del passato, ma che solleva anche un’evanescenza emotiva e descrittiva dei contenuti e dei significati, i quali paiono sfumare verso l’indeterminazione delle soluzioni possibili. Dunque, il poeta si interroga sul passato della sua vita, ma non trova delle risposte, bensì trova una geometria scomposta degli enigmi e la possibilità che le risposte siano tutte ammissibili, tutte corrette ovvero tutte sbagliate. Ma corrette o sbagliate, rispetto a chi e a che cosa? Quale avrebbe dovuto essere il catechismo? il criterio del bene e del male? Alla luce di quale etica si dovrebbe rileggere la vita del poeta?
Contemporaneamente, nell’atto di evocare la propria vita, il poeta non può fare a meno di sentire come contraltare corrispettivo della sua vicenda esistenziale l’intera storia dell’umanità, dai primordi delle età preistoriche fino ai tempi della modernità, che si raggiunge con la visione cristiana della vita, cioè con il messaggio dell’amore universale, dell’uguaglianza di tutti gli uo­mini, con la concezione della libertà individuale, come libera determinazione autonoma del destino di ogni essere umano. La “modernità”, dunque, non è una data precisa all’interno della storia dell’uomo sulla Terra, ma è piuttosto uno stadio evolutivo della civiltà, in cui l’uomo realizza la necessità improcrastinabile di orientarsi verso quanto si è detto, cioè verso l’amore, la libertà, la giustizia, eccetera, e per comodità referenziale, questo grosso plot di contenuti civili e filosofici lo si fa coincidere con la buona novella del cristianesimo, però non è affatto detto che ciò sia l’unico momento rivelativo essenziale della storia dell’umanità. Nel libro funziona carsicamente un “Tu” referenziale che a volte si manifesta nei versi e più sovente corre sotterraneo al flusso del discorso, esattamente quanto fa un fiume carsico. Tale “Tu” è anch’esso declinato e coniugato al plurale, in un insieme di accezioni possibili: volta a volta è un alterego del poeta, una persona connessa alla rappresentazione autobiografica del­la vita del poeta; ma più sovente è un “Tu” collettivo, il simbolo di un’età evolutiva della civiltà umana, l’identificazione degli avi da cui tutti noi discendiamo, la storia infinita – appunto! – del nostro percorso collettivo di esperienza umana e civile – e incivile! – compiuto sul pianeta che ci ospita da tempo immemorabile. Se questo è, grossolanamente, lo schema del discorso poetico di Michele Russo, ne deriva che lo spessore delle sue argomentazioni può essere sottile come una pellicola di celluloide ovvero massiccio come una montagna: ciò dipende dalla declinazione che assume, nei vari casi possibili, quel “Tu” che si contrappone all’io-poeta. Se il tu rappresenta uno specchio dell’alterego, la sua di­mensione è speculare rispetto a quella che si è dato il poeta nella specifica poesia presa in considerazione; ma se il Tu rappresenta un’intera era della civiltà occidentale – quando non l’intera umanità! – allora la dimensione del discorso diviene ciclopica, il discorso sfuma in una evocazione mitica, in una rappresentazione per simboli, in un volo pindarico, nel quale è quasi sempre – da parte del poeta – accennata, tra ironia e dannazione, la sindrome di Icaro, cioè l’orrore e l’inutilità per la caduta dal cielo e il tuffo nell’oceano che tutto annulla e che tutto rinnova da zero.
Tutto il libro descrive un’orbita di altissima poesia, compiuta nei diversi passaggi che il poeta istituisce nel “multiverso” della poesia, tra il suo mondo autobiografico e l’esperienza planetaria dell’intera civiltà uma­na. Alla fine, l’unico vero protagonista comune alle due “storie” che si dipanano nei versi, è il tempo, cioè quel “tot” di esperienza umana che funziona come il solo misuratore possibile del mondo, reale o immaginario che sia. Il tempo, dunque, è una misura di quantità dell’esperienza: è quel tanto di cose che ci stanno nella nostra mente, prima che si sfaldino, si erodano in polvere e sabbia, si disperdano nel vento del deserto che avanza, siano cancellate dalla morte che incalza, e che è ovunque presente, come limite di pagina, come discorso giunto al suo capo, come rottura e iato irrecuperabili. Il tempo è il grande protagonista di tutta la bellissima poesia di Michele Russo. Si tratta di una poesia tanto più preziosa ed elaborata, perché è metatestuale, cioè si avvale apertamente di testi e di discorsi contenuti in libri collocati fuori dal testo, ma che funzionano come parte integrante del medesimo. Si legga al riguardo la bellissima poesia Sul Po, ove tra l’altro cita un noto aforisma di Leonardo da Vinci, che definisce l’azione del tempo: “Un meriggio di nebbia / bagnata come pioggia / assente il cielo / l’acqua scorre lenta / e un guscio d’uovo rotto / galleggia roteando. / Sporti sul ruvido murazzo / ripassiamo i versi di Leonardo: / «L’acqua che tocchi dei fiumi / è l’ultima di quella che viene / e la prima di quella che andò»” / Immoto il tempo, amica, / siamo all’ancora / e nel vaso le agavi che secche resistono sul plinto / siamo noi, spade arrugginite di guerrieri stanchi / accampati su un argine senza nome / in perenne dolorosa / attesa.” Talvolta il simbolo usato in poesia, pur essendo chiarissimo dal punto di vista og­gettuale, è tuttavia avvolto nella nebbia dal punto di vista metaforico, come accade nella poesia enigmatica denominata L’albero – che probabilmente demanda all’albero biblico della conoscenza – da cui si origina la natura umana della nostra stirpe: “Un albero protendeva ramificate / le sue mani / sullo stagno preistorico / dei dolori umani. / Frusciavano quelle dita articolate / nella levità dell’aere euforico / e specchiandosi tremule sempre in giù / si scoprivano in fasmate entro il cielo blu; / e non credevano al dolore. / Poi venne l’autunno e caddero / una a una senza rumore. / Lo stagno le accolse livido / inglobandole con un brivido / con la fiera filosofia / dell’antica sua bulimia.”
Esempio di poesia modernissima, orientato a raccontare l’epos in modo cumulativo, episodico, problematico e riflessivo, è rappresentato da Confiteor, una delle poesie più alte e complesse dell’intera raccolta: “Dice: ma a chi ti ribelli? hai catene tue proprie? hai limiti innati; e la caramella che ti donano è solo caramella, tuo diritto forse (?) tradito sempre, non sei più bimbo inconscio, ma brontola di nuova fiamma un organo in te, brucia brucia, non basta tutta l’acqua della tua fontana, e ancora le tue voglie parleranno in una falsa sera incantata, in acque funestate da meduse variopinte, ingannevoli veleni di un regno che antico si pu­trefà, cambia colore voce segnali, ma sprofonda perché ci sei, perché ci sono…”.
I punti più drammatici e carichi di significati della poesia di Michele Russo sono raggiunti in poesie come Calendari e orologi, che sicuramente rappresenta uno dei testi più moderni e profondi che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni, dove quasi a conclusione di una ricerca filosofica e scientifica necessariamente im­produttiva e inconcludente, il poeta dapprima osserva che la nostra conoscenza si riduce a ben poca cosa ri­spetto alla complessità del “Pluriverso”: “Ma io guardo il cielo da tempo, io animale – antropos – / e lassù – o laggiù? – intravedo fioche luci diverse / non, non più Universo ma Pluriverso oddio! / altra Luce, (altra Fisica, altra Chimica) – / posso solo intravederle, e intuire / che niente più è vero, per noi qui; / e sì che ce lo dicevano già gli Iddii di Abramo e degli Aztechi / e i Quanti, e le subparticelle…!”. Sperimentata la totale impossibilità di credere o di non credere in qualsiasi discorso logico e razionale capace di interpretare la complessità del mondo in cui viviamo, ecco che anziché lasciarsi andare alla più cupa disperazione, il poeta si aggancia alla sua umana nozione del tempo, cioè alla quantità di esperienza che gli è stato concesso di effettuare, in cui necessariamente brillano le emozioni affettive e gli orientamenti automatici alla ricerca del Bene: “Ma, qui e ora, noi siamo ancora condannati / alle cose dure, volgari, aspre, ma familiari ormai; / qui e ora noi siamo ancora condannati / ad amare e odiare – e sognarlo per l’Aldilà un mondo nuovo; / un mondo delle Anime, da troppo tempo imprigionate nell’argilla. / Ma ora più che mai, nell’attesa fremente, / nella realtà nostra quotidiana / prevalga il cuore, unito sempre di più ad altri cuori / nell’eterna lotta per il Bene; – / perché, sì, non possiamo prescindere / da questi nostri giorni, così usuali, così tangibili, / come orologio nel taschino, che fedele mi segna le ore, / e mi seguirà nell’ultima stazione. / E torni, sempiterna costellazione di orologi!”
La poesia di Michele Russo è tra gli esempi più sicuri nitidi e profondi di cosa si possa intendere per canto geoepico, cioè quell’epos cumulativo che assomma e che correla la storia del singolo poeta con la dimensione cosmica dell’universo, in cui sperduta e solitaria, senza possibilità di interlocutori – né divini né materiali – brancola l’intera umanità confinata per sempre in un piccolissimo ed insignificante pianeta, fino al punto di riproporre un nuovo trionfo di umanesimo, che rimetta al centro dell’attenzione il palpito autentico del nostro tragico dramma di creature che anelano a essere di più di quel che sono e che bruciano la loro esistenza per sapere più di quello che sanno, in un testamento sempre rinnovato, con devota speranza di umanità e di dolore, come si legge in uno dei bellissimi e conclusivi testi, Acqua: “Ne contiene 65 litri il tonico mio corpo / acqua antica sempre nuova / donata ai miei Avi da “Eva e Adamo” / per umidi gameti fino a me / nutrita di polposi frutti di terra / uguale sempre fecondata / e passa ai nipoti / fino all’ultimo – estrema foce / per l’impatto con un fuoco rigenerante / spinta in nuclei indistruttibili / in altre sidereità / in altre forme altri globi / sempre nostre antiche gocce salutari / nostra memoria / – perché all’infinto / finché c’è acqua c’è vita / inscindibile con uomo.”

Sandro Gros-Pietro

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