Prefazione

Una poesia ricca di luci, di colori, di suoni, quella di Miriam Bonamico Chiareno, varia nel ritmo, ora concentrato e come rappreso, ora disteso e alleggerito da pause interne che ne regolano il corso. La padronanza degli strumenti espressivi, metrici innanzitutto, con l’alternanza di versi di varia misura, conferisce al suo di­scorso essenzialità e nettezza di rilievo. Il profilo della sua lirica è incisivo, senza sbavature, grazie a un gioco di corrispondenze interne e di effetti sapientemente dissimulati. Sobria l’aggettivazione, che punta all’illuminazione dall’interno di voci, di echi sopiti nel fondo della memoria, o nelle pieghe più riposte dell’anima. C’è in­fatti una forte spinta, nella sua poesia, verso l’interiorità, verso i recessi profondi dell’io, alla ricerca di un rifugio sicuro. In Pioggia d’inverno l’immagine della casa me­taforizza l’esigenza di un riparo: “Ormai siamo persi, / Bagnati, infangati. / Inutile correre. / Solo la casa ci salverà / Dallo sbando.” A essa fa da controspinta, in un sa­piente gioco di altalenanze, la tensione verso l’esterno, verso il mondo “di fuori”, la natura. Una natura lussureggiante, paesaggi immersi nella luce solare, soprattutto quelli a lei più famigliari della sua Liguria, incantano il suo sguardo, come nell’apertura, dall’atmosfera vangoghiana, di Fogli bianchi: “Il sole fiammeggia sui cam­pi. / Incendia le spighe.” La sua “sete di Paradiso” (Il mio cuore si è fermato) sembra placarsi, come in Sicilia felix nell’estasi dei sensi rapiti dallo spettacolo della natura. Il suo “paradiso” così si naturalizza in un’immedesimazione con la vita multiforme della natura. Il mito metamorfico seduce la poetessa, che avverte in sé il fremito della primavera (Miracolo di primavera). Il con­fondersi con la natura, il perdersi nell’esplosione di co­lori e nel tumulto di voci sembra garantire sicurezza al­la sua “Anima inerte / Attaccata / A sugheri di salvezza” (Poni uno scandaglio). A essa sola è riservata l’immortalità “La natura non muore mai. / Sempre risorge e mi sconvolge / Questa sua resurrezione / Solo per noi la ri­nascita / È altrove” (La natura non muore mai). Gli ultimi versi segnalano una frattura, l’impossibilità dell’immedesimazione, la ricerca di un “altrove”, di una patria dell’identità che non può trovare spazio se non “nel quieto silenzio” (è titolo di una lirica) della propria intimità. La percezione di una frattura la Bonamico la registra non solo con il mondo intero, ma all’interno di se stessa, come di un flusso di memorie sempre sul punto di interrompersi, in un’inutile e disperata resistenza al­l’erosione del tempo (“… il tempo che purtroppo / Mi consuma” in Malattia). L’immagine del “libro interrotto” metaforizza questa idea di una dimensione entropica del tempo in Morire con un libro in mano. A essa si collega il senso di provvisorietà sia delle relazioni (“Le amicizie impiegano anni / A morire. / Si trascinano ma­late e / Insicure. / Alla fine si ritirano / E sfinite muoiono.”), sia nella natura stessa (“Perderò i miei petali / Come tutti i papaveri / Del mondo” in Il papavero). La vana rincorsa del tempo, in un’impari sfida, la sensazione di essere da esso inghiottiti, l’impossibilità di fermarlo (Vivere e rivivere) è il filo conduttore della sua poesia, in linea di continuità con le precedenti raccolte, soprattutto la prima, Scorre il tempo. Ma anche il titolo della presente è emblematico, Emerocallidi (“E tu, sospesa / Con piedi nudi / Quasi d’argento, / Mi hai detto / “Questa è la bellezza / D’un sol giorno”.) La dimensione en­tropica del tempo scaturisce dal senso della precarietà dell’esistere, dalla condizione stessa di pellegrinaggio in­compiuto (“La pazienza e la rassegnazione / Di chi re­sta e guarda chi parte. / Tutti siamo naviganti, / Tutti sia­mo in attesa.” in Siamo in attesa).
Un’eco del purgatorio dantesco? Forse riletto attraverso il filtro desacralizzato de La casa dei doganieri del suo grande concittadino?
Una poesia varia di toni, in cui si alternano lo scatto fantastico di Nuvole o di È uscito un uccellino all’atmosfera gozzaniana di Nel piccolo caffè o di Luce dorata. La ben dissimulata cadenza prosaica evoca, con sobria essenzialità di tocco, un clima di intimità domestica, il grigiore di una vita consumata nel tedio, riprodotta non dal vivo, ma gozzanianamente, attraverso un quadro di Hopper in Nel piccolo caffè, proprio come “la beltà fiamminga” de La signorina Felicita. In Una luce dorata, una delle composizioni dalla più solida architettura, lo scenario realistico è come dissolto e trasfigurato dallo scatto metaforico di “Una luce dorata in fondo al tunnel” proprio nel finale della lirica.
Una poesia, quella della Bonamico, sensibile a brividi metafisici, come in Luce (“Sempre la luce m’illumini / Non per vedere, ma per essere. / Sono venuta alla luce / E andrò verso la luce”), ove la tensione verso un “ol­tre”, o semplicemente verso la pienezza dell’essere in­nerva tutta la composizione.
Ma forse la cellula originaria, la matrice della sua lirica, è nello sguardo incantato dalle meraviglie dell’essere, sprofondato nell’assorta contemplazione del suo mi­stero, nell’ansioso ascolto delle sue voci: “Le costellazioni cantano / Crepitano e sussurrano. / Pochi se ne ac­corgono. / Non ascoltano il cielo.”
È il segno inconfondibile della sua vocazione alla poesia.

Giovanni Ramella

Anno Edizione

Autore

Collana

Recensioni

Non ci sono ancora recensioni.

Scrivi per primo la recensione per “Emerocallidi”

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati