INTRODUZIONE

Agnolo Firenzuola è stato uno dei più versatili poligrafi del primo Cinquecento italiano: trattatista, narratore, commediografo, traduttore, poeta.
Il padre si chiamava Bastiano Giovannini, era come il suo genitore notaio: approdato a Firenze da Firenzuola, tra Toscana ed Emilia, dov’era nato, assunse quale cognome l’appellativo del comune d’origine. Da lui e da Lucrezia Braccesi, figlia di Alessandro, segretario – sino alla morte del Savonarola (1498), di cui era sodale – della Signoria fiorentina, nacque Agnolo nel 1493, primo di cinque fratelli. Bastiano, che era il notaio di fiducia dell’ordine dei Vallombrosiani, indirizzò Agnolo a studi universitari di diritto a Siena e a Perugia, e probabilmente lo indusse ad entrare nell’ordine da lui prediletto: non a caso, dopo la laurea (1518), Agnolo fu suo procuratore a Roma presso la Curia pontificia: il papa, sei anni più tardi, lo nominò abate dei monasteri di San Benedetto in Alpe e di Santa Maria di Spoleto.
Si era, nel frattempo, innamorato di una giovane, da lui indicata sotto lo pseudonimo di Costanza Amaretta, che venne a morte nel 1525. È intorno a questa data che Agnolo è colpito da un’infezione luetica, ragione per cui (molto probabilmente) nel ’26 viene esonerato dai voti monastici.
A Roma Agnolo frequenta e stringe amicizia, talvolta salda e durevole, col milieu letterario che gravita intorno a Leone X: è sodale di Aretino, Berni, Caro, Della Casa, Giovio, Molza, Tolomei e partecipa attivamente alle riunioni dell’ambita Accademia dei Vignaiuoli.
Nel 1534 lascia Roma: probabilmente è a Firenze, nel ’38 è a Prato come abate del monastero di San Salvatore a Varano. Quello è l’anno di un nuovo amo­re per la bella Selvaggia, anche stavolta coperta dall’anonimato: ma, soprattutto, è l’avvio di un quin­quennio di grande creatività, anche se varie circostanze esterne lo travagliano: ha difficoltà finanziarie, litiga con la sorella per un’eredità contesa, forse il male di sempre lo riprende. Sta di fatto che la notte tra il 27 e il 28 giugno 1543 muore in solitudine: lo si saprà solo vari giorni più tardi.
A dispetto di una così triste fine il Firenzuola in una ventina d’anni, non senza una precisa strategia, era riuscito ad esplorare tutti i generi espressivi allora in voga. Nel 1524 col suo Discacciamento de le nuove lettere inutilmente aggiunte ne la lingua toscana ha risposto alla coeva Epistola de le nuove lettere aggiunte ne la lingua toscana del vicentino Gian Giorgio Trissino, di quindici anni più anziano di lui. Nel 1525 si è provato nella novellistica con i Ragionamenti, dedicati accortamente a Maria Caterina Cybo, duchessa di Camerino (nipote di papa Leone X) e ha tradotto nello stesso anno il romanzo L’asino d’oro di Apuleio. Del 1541 è il suo battesimo teatrale con due commedie, La Trinuzia e I Lucidi, che vanno a infoltire la serie di riuscite drammaturgiche, in cui si sono già distinti, tra il primo e il secondo decennio del secolo, Ariosto, Bibbiena e Machiavelli (il cui capolavoro, la Mandragola, è del 1518): ed infine – e siamo all’operetta qui riprodotta ed annotata – ha dato la migliore prova di sé in un genere da oltre un secolo in voga col Celso. Dialogo delle bellezze delle donne, che porta la data 1542.
È del 1433-1437, infatti, la comparsa dei Libri della famiglia di Leon Battista Alberti (1404-1472), il secondo dei quali, Sul matrimonio, ha la donna al centro. Sulla spiritualità femminile si sono distinti predicatori come Cherubino da Siena (morto a Spoleto nel 1494) con la sua Regola della vita matrimoniale e come il “terrifico” Girolamo Savonarola (1452-1498) col suo Libro della vita viduale (1491). Ma, all’alba del secolo nuovo, vi si provano anche i laici, come il “filosofo” Mario Equicola (1470-1525) col suo De mulieribus (1501). Quattro anni dopo esco­no gli Asolani del veneziano Pietro Bembo (1470-1547), uno dei leaders della cultura italiana del pri­mo Cinquecento: mentre del 1528 è un’altra opera-cardine, Il libro del Cortegiano di Baldassare Castiglione (1478-1529), le cui tre redazioni (1513-1516; 1520-1521; 1524) hanno tenuto fervidamente impegnato il suo grande autore per oltre un decennio (il terzo libro, com’è noto, è interamente dedicato alla tematica femminile). Facciamo grazia al lettore, per non tediarlo, di quanto esce dai torchi dei più diversi editori nel ventennio e più che intercorse tra i due succitati capolavori: citiamo soltanto il Libro de natura de amore (1525) anch’esso di Mario Equicola (1470-1529), il Della eccellenza e dignità delle don­ne (1525) di Galeazzo Flavio Capra (1487-1537), il Li­bro novo d’amore intitolata Nova Fenice (1526) di Caio Baldassarre Olimpo degli Alessandri (1486 ca.-1540 ca.), il De pulchro liber-De amore liber (1531) di Agostino Nifo (1470 ca.-1538), i Dialoghi d’amore (1535, postumo) di Leone Ebreo (Jehuda Abarbanel, 1460/’63-1521), La Raffaella. Dialogo della bella creanza delle donne (1539) di Alessandro Piccolomini (1508-1578), il Della dignità delle don­ne (1542) di Sperone Speroni (1500-1588).
E a questa data facciamo punto giacché, secondo i più autorevoli studiosi del Firenzuola, egli aveva in quell’anno non solo ultimato il Dialogo che qui si ripropone, ma lo aveva indirizzato alle donne pratesi (“nobili e belle”) e, implicitamente, agli eventuali nemici, a cui ricordava “il proverbio antico, che non consente che al lion morto si svelga la barba”, cioè che si infierisca su chi è stato temibile quando non può più far paura a nessuno.
Per quale motivo, a giudizio di chi scrive, il Celso si distingue (non vogliamo, troppo risolutamente, scri­vere eccelle) dai vari trattatelli appena evocati? L’ultimo, a nostra conoscenza, moderno editore del­l’opera, il compianto italianista Delmo Maestri (1928-2015), ha sottolineato come “i grandi temi della bellezza e dell’amore […] risultano calati in una mirabile familiarità”, “con una tensione verso le grazie muliebri delicata e tenera”, in “un vivo cicaleccio galante”, tradotto in un “uso quotidiano” del discorso, nella “parlata di tutti i giorni, resa limpida dal buon gusto dello scrittore”. Notazioni tutte che abbiamo a bella posta accostate e che pienamente condividiamo. A cui vorremmo aggiungere che il Celso si differenzia dalle operette coeve per la innovativa “fisicità” dei riferimenti di cui è fitto il Discorso secondo, là dove, con estrema naturalezza e al tempo stesso con quasi palpabile sensualità, si delineano le componenti del fascino muliebre: i capegli, che “vogliono essere sottili e biondi e or simili all’oro, ora al miele”; la fronte, che “ha da essere spaziosa, cioè larga, alta, candida e serena”, alla qual serenità aggiunge assai “lo splendore degli occhi”: e via precisando, con un accanimento su ogni particolare anatomico (orecchi, tempie, guance, naso, bocca, denti, lingua, mento, gola), che ha qualcosa di maniacale.
Avvezzi a credere di poter maneggiare con disinvoltura gli strumenti della psicanalisi, saremmo tentati di scrivere che Firenzuola cede ad una facoltà desiderante così esasperata perché un morbo incurabile, anzi mortale, gli vieta di tradurre il desiderio in possesso.
Ma ciò che dovrebbe presiedere ad ogni esercizio critico, cioè un ragionevole senso della misura, ci vieta di farlo. Giudichino in proposito come meglio credono i nostri lettori.

Guido Davico Bonino

Dedico questo lavoro agli amici carissimi Angelo e Stefano Jacomuzzi, Marziano Guglielminetti, Giorgio Bárberi Squarotti, tutti ormai in più spirabil aere. Le note riprendono, talvolta ampliandole, talvolta modificandole, quelle dell’edizione a cura del citato Maestri (Torino, Utet, 1977), a cui lo scrivente collaborò, come allora era consuetudine, in qualità di “apprendista”.

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