PREFAZIONE

L’eco del primo libro di Lionella Favretto, Penserò le mie parole, è ancora vivo e presente nella mente di chi scrive: “un viaggio di scoperta, affascinante e incantatore, dei nessi sotterranei che agiscono come sinapsi immediate nel nostro cervello e che uniscono analogicamente le cose e i sentimenti apparentemente anche distanti fra di loro”.
Questo secondo libro, Correre il tempo, è una ripresa dell’avventura letteraria iniziata dalla scrittrice nel 2015. Tuttavia, è avvenuta un’evoluzione stilistica o se si preferisce un orientamento dell’obiettivo principale. Nel primo libro, infatti, il mondo esterno ave­va una presenza significativa anche se tendenzialmente sfumata e rarefatta, basti pensare agli scorci di panorami parigini, la Belleville, per ricordare che l’avventura della parola era anche rappresentazione del mondo esterno, sia pure in modalità riconducibili all’impressionismo, cioè enunciate in un’atmosfera sfuggente rispetto ai dati realistici e collimata sulla catena delle emozioni interiori. Ora, invece, la continuità enunciativa del discorso poetico è quasi totalmente esalata, nel senso che la vicenda si illumina come fosse indicata da una luce stroboscopica, che pulsa a intermittenza. Il battito, la frequenza, la ripetizione, l’allitterazione e il refrain sono divenute le caratteristiche di questo viaggio sincopato.
Come esempio possiamo riprendere alcuni sversi della poesia contrassegnata XIII

          linee intersecate
          cariche di cromie… e fuori piove
          […]
          a raccogliere i tuoi cocci
                     … e fuori piove, piove
          […]
          ad attraversare scalzi
          il vuoto della tua memoria
                     … e fuori piove
          […]
          non voglio farti vedere
          quell’arancio – colore –
          lontano
                     … e fuori piove

Le forme espressive usate dalla scrittrice rappresentano le modalità con cui solitamente gli esseri umani tentano di misurare il tempo. Ed ecco allora spiegato l’arcano del titolo, correre il tempo: una corsa che si fa solo e soltanto intorno all’interiorità dell’essere umano. L’uomo è l’unico essere vivente che ha sviluppato una serie di connotazioni diversissime fra loro, ma tutte riguardanti il tempo. Diceva Albert Einstein che il tempo è una misura delle emozioni uma­ne: “se state seduti su una panchina del parco con la donna che amate, due ore passano in un lampo, ma se vi sedete su una stufa rovente, un solo lampo vi sembra l’eternità”. Il tempo non esiste nel cosmo galattico, che è espressione di una funzione interdipendente di spazio e velocità. Ogni informazione riguardante la materia che ci circonda si perde e si annulla nella vibrazione periferica dei buchi neri, come ha dimostrato il cosmologo Stephen Hawking, dove non esiste alcun tempo teorizzabile, nessuna informazione sindacabile, esiste solo la resa della nostra totale inconsapevolezza del cosmo, non molto diversa da quella stessa resa al mistero del tempo che scontarono circa tremila anni fa i filosofi greci. Tremila anni di ininterrotto progresso scientifico non sono bastati a scalfire neppure in superficie l’insondabilità del mistero del tempo, perché esso è racchiuso nei buchi neri, dove scompare ogni informazione teorizzabile sul cosmo.
Correre intorno al tempo significa dunque correre intorno a sé stessi, esattamente come il cane corre dietro alla sua coda. Ciò è vero perché il tempo è definito solo dalle nostre emozioni umane, come diceva Einstein. Ecco, allora che il libro di Lionella Favretto diviene viaggio nella sua interiorità. Se vogliamo è un’autoanalisi. La ricerca dei ricordi cancellati o meglio nascosti sotto l’accumulo di frammenti memoriali sparsi, come le tessere di puzzle. Può succedere che si assomiglino, che si ripetano. La ripetizione, che in poetica si chiama allitterazione, in analisi è un fenomeno usato dal soggetto per imparare ad accettare la realtà delle cose e può degenerare nella coazione a ripetere, nell’assumere un comportamento ossessivo di ricordi forzati come un ingorgo a mulinello, che può essere anche doloroso. Favretto esplora su stessa questa scuola freudiana di autoanalisi attraverso la poesia riguardante l’inconscio.
Affiora sempre la presenza di una persona amata: l’Io che si racconta si orienta verso un Altro da sé, che è l’interlocutore privilegiato e che, nei viaggi della memoria, è rappresentato per una donna quasi sempre dal proprio padre, secondo lo schema classico di Freud, ripreso da Jung, cioè sommuove il cosiddetto complesso di Elettra. Ovviamente, nel caso di una scrittrice attrezzata culturalmente come Lionella Favretto, si tratta di metafore poetiche, forse di specchi che riflettono un’altra persona diversa dal genitore, ma che ne richiama il simbolo. Infine, si tratta di un cammino à rebours che descrive un viaggio nei processi di evocazione e di coscienza analitica, sviluppati attraverso il tappeto magico e affascinante dell’e­spressione poetica. La natura è osservata dalla scrittrice con una misura distanziale, tipica di una spettatrice incantata e assorta nel fascino contemplativo, ma tutto sommato leopardianamente non immersa e non partecipata nei processi di vita e morte che perennemente e caoticamente la natura rinnova nell’ambiente in cui si vive, come vediamo nella composizione XLVII.

          Attraverso i vetri esili di una finestra
          si sfoca l’immagine
          di alberi cresciuti confusi
          apparentemente immobili
          impercettibilmente saliti
          verso l’alto
          ritmicamente coperti di verde
          mobile…

e in questa visione più della mente che non paesaggistica, ecco cosa appare inopinatamente

          ti osservo, padre,
          e comprendo
          la tua tristezza.

Più chiaramente emerge nella composizione LXVI un riferimento contestualizzato alla figura del padre, descritto in chiave di musico, poeta, pittore

          La sabbia si accumula
          inesorabile
          su tutto, su tutti…
          scorgo
          quella ferrosa villa
          – non così brutta,
          ora,
          come l’hai dipinta –:
          parte una danza
          di fantasmi…
          musico, poeta, pittore,
          padre,
          mantello e occhiali tondi,
          scacchi,
          caffè,
          narratore…

Il viaggio sta per concludersi, lo si deve intendere quasi come un incontro ravvicinato di terzo tipo con una “danza di fantasmi”, e si concluderà ancora una volta in forma di allitterazione ripetuta quasi come il ritornello di una ballata, quel congedo da “bicchiere della staffa”, ripetuto cinque volte nella composizione LXVIII, con la formula “prima di andare”. Infine, la chiusura rappresenta l’azione di distacco dal viaggio nel tempo,

          seduta a guardare il nulla
          incapace di vedere
          o di non vedere
          stanca,
          stanca di cercare
          piccoli cenni di senso…

          tardive richieste?

          i vetri sono scheggiati
          deformano l’immagine
          cala il sipario…

Il secondo libro di Poesia di Lionella Favretto ha la sua lontana radice di riferimento letterario nella Recherche, però è costruito con una concezione di stile e di forme totalmente nuova, perché gli incanti sono espressioni meditate dei percorsi psicologici dell’analisi freudiana e in particolare modo marcano il meccanismo di ripetizione dei frammenti della realtà come espediente dell’inconscio per adombrare le forme del reale. Si tratta di una poetica rara e affascinante che, nella grazia garbata e addolorata della rammemorazione descritta da Favretto, ricrea un’atmosfera di armoniosa nostalgia e bellezza.

Sandro Gros-Pietro

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