Prefazione

Quando si prende in mano un libro di Nino Pinto è d’uopo considerare precauzionalmente la vasta raccolta oracolare ed epigrafica, coordinata in più tomi di poesia, che caratterizza la sua produzione letteraria. Un pugno di sabbia appare poca cosa rispetto alla consistenza di un buon sasso che riempia con pienezza la mano. Ma l’immenso Sahara appare senza possibilità di confronto superiore a decine e decine di montagne delle Dolomiti, moltiplicate a dismisura e idealmente riunite nella nostra mente. La potenza assemblatrice della molecola conduce a risultanze maestose. C’è un seme molto antico, a bene vedere, nella scrittura di Pinto, il quale cerca di comporre ogni volta la monade, il pensiero puro, perfetto, indivisibile e monovalente. Questo tipo di scrittura affascinava molto gli antichi e conduceva a espressioni di carattere epigrafico ed oracolare. Gli studiosi ci assicurano che nel mondo dell’antica Roma le epigrafi erano presenti in svariati milioni di esemplari, apposte su pavimenti, muri, portali, monumenti, tombe, templi, obelischi e ogni altro genere di durevole artefatto umano. Si conta che di questo immenso patrimonio di cultura solo circa trecentomila epigrafi siano pervenute intatte a noi, la quasi totalità è andata perduta. Ma ciò che resta è bastevole a testimoniare il grado di alfabetizzazione che nell’antichità romana aveva raggiunto il popolo, cui gli artisti si rivolgevano non solo con le immagini delle statue e delle pitture, ma soprattutto con le parole composte nell’infinità di epigrafi che ovunque caratterizzavano il paesaggio urbano delle antiche città. La gente le leggeva, ne riceveva un monito, un insegnamento, un adagio, una fuga del pensiero, un sogno o al contrario un richiamo alla cruda realtà. Un immenso patrimonio di cultura, fatto di riflessione e di svaghi, di illusioni e di disincanti, palpitava sui muri degli edifici e trasmetteva al popolo il comune sentire dell’intera civiltà che in quella cultura si specchiava e si riconosceva: la città parlava di civiltà, usando la parola scolpita, semplice, limpida, netta, articolata in modo elementare ed esemplare.
A questo concetto di monade espressiva, epigrafica, oracolare, sognante eppure realistica, evasiva eppure cinicamente perforante la realtà dei fatti, si ispira Nino Pinto nel suo proporre il Controcanto poetico, che in realtà non è una provocazione, ma è una misura perfetta di stile, equilibrato tra contenuto e forma, di ciò che può essere la poesia che rinneghi l’intreccio, il plot, la vicenda, il racconto, l’argomentazione e il fasto della letteratura. È una poesia controcorrente rispetto alle tendenze attuali. Dunque, forse, qualcosa di più di un controcanto propriamente detto che sarebbe una melodia secondaria ma armoniosamente fusa con quella principale. Qui pare si tratti di una contrapposizione vera e propria di intenti e di soluzioni letterarie: la brevità al posto della prolissità, la monoespressività al posto del pluralismo, la linearità al posto dell’anfibologia, la sobrietà linguistica al posto dell’ampollosità lessicale, e via di questo passo. Ma non vi è alcuna intenzione polemica dell’autore, che in fondo si concilia perfettamente con l’infinito possibilismo espressivo realizzato dalla poesia moderna. Ed è per questo secondo motivo che il termine di controcanto – alla fine della fiera – è stato scelto con mirata oculatezza da Nino Pinto. Questo modo di fare poesia si adatta armonicamente all’esplosione frattalica degli stili della poesia moderna, e ne esemplifica rappresentativamente la ricaduta nel massimo possibile dell’essenzialità.
Il mondo poetico rappresentato da Nino Pinto in questo suo controcanto si poggia su una serie di parole chiave che assumono la valenza metaforica dei pilastri delle palafitte: è su tale tavola delle monadi che poggia l’intero villaggio di parole e di concetti che compone il libro. Le parole che maggiormente ricorrono nel libro sono inganno, amore, poesia, memoria, dèi, angeli, demoni, ferita, abitudine, caso, azzardo e molte altre ancora. Ma sovente tali elementi della tavola lessicale sono impiegati in un contraddittorio polisemantico, agganciati idealmente insieme in modo binario, come se si volesse esprimere una sola endiadi o invece un ossimoro improprio, costruito con due contrari, del tipo morte/vita, verità/menzogna, catena/libertà, illusione/disinganno, speranza/sconforto e altre situazioni a contrasto. Si configura una visione della vita intonata al pessimismo o più esattamente – direbbe Tehodor Adorno – è rappresentata una vita che non vive, e che è divenuta la condizione esistenziale condivisa da tutti gli intellettuali del disagio civile e storico, conseguente alla presa di coscienza dell’olocausto ebraico a seguito del genocidio nazista, e che, infine, è stata stigmatizzata egregiamente da Eugenio Montale nella formula schietta di una vita vissuta al 5% delle possibilità umane. La citazione di Adorno è tanto più efficace se viene riferita ai Minima moralia: meditazione sulla vita offesa, cioè alla complessa riflessione dell’autore sull’impossibilità dell’uomo moderno di elaborare un orientamento eudemonico della vita. Per Adorno si trattava, come bene si sa, di un’impossibilità storica, derivante dalla violenza e dalla disumanità della civiltà moderna. Per Pinto, invece, si tratta di una condizione antropologica originaria, che prescinde dalle condizioni deterministiche delle variabili di tempo e spazio e che è insita ab origine nell’uomo. Le riflessioni, i brocardo, gli oracoli, le sentenze etiche che Pinto va elaborando nel suo controcanto sono dunque parte compositiva di un pensiero poetante – sia detto per usare un espressione leopardiana – che si rende velo di Maya sull’enigma della creazione e sull’intero destino dell’uomo afferente all’esperienza terrena. Più che una sorta di religione orientale – verso cui Nino Pinto non sviluppa precisi raffronti e riferimenti – questa estesa riflessione pessimistica ha una radice filosofica del tutto logica e razionale, e trova il suo riferimento d’antan nell’esistenzialismo e nel nichilismo che iniziano alla fine dell’Ottocento e si protraggono, con diverse forme e correnti, pressoché per tutto il Novecento. Sono certamente autori classici di riferimento Dostoevskij, Nietzsche, Kafka per poi giungere a Sartre, Beckett, Camus.
“Non era che nella loro / eterna bellezza / la superiorità degli dèi” ed “Eterni / d’amore / e di giovenezza / gli dèi”, dice Nino Pinto per introdurci con fasto artistico nella memoria pagana della nostra civiltà: l’unica memoria della nostra più che millenaria cultura, originariamente ispirata al gioco e alla ricerca della felicità. “È solo degli dèi / la sublime indifferenza”, rimarca altrove l’autore, che mette a nudo la vocazione delle divinità pagane a prendersi gioco degli uomini e delle loro risibili miserie, “Furono gli dèi / solidali con la nostra / imperfezione”. La vita umana, in omaggio a Beckett, viene presentata come un teatro dell’assurdo, “Teatro senza forma / l’improvvisato / teatro della vita” e altrove leggiamo “Buttati sulla scena / senza canovaccio / a nostro rischio / ci tocca improvvisare” e viene ribadito “Attori in scena / senza parti scritte / a nostro rischio / ci esibiamo”. Anche l’amore non è una luce redentrice, perché “Vive di mistero / l’amore” e “Si degrada l’amore / nell’abitudine”; inoltre “È col patto / che si avvilisce l’amore”, perché “È nell’esca /d’uno sguardo / già tutto l’inganno / dell’amore” e infine “È l’amore / l’irresistibile esca / dell’inganno”, per cui ne deriva che “Infine non è l’amore / che una vergognosa / necessità”. Nel grande trionfo dell’entropia che alimenta il caos dell’universo, l’arte inventata dagli uomini si accende di luce propria, vivificata di sogni e speranze, ma ben presto si rivelano fantasmi effimeri, perché ricadono nella realtà caotica del mondo: “Non obbedisce l’arte / che a se stessa”, “È l’arte che sola / sfugge al tempo”, ma “Rimpasta l’arte / la grezza realtà”. Stessa sorte, in modo specifico, tocca alla poesia: “È la poesia / l’arma più acuminata / dell’inganno”, “Falsifica / i ricordi / la poesia”, “È la poesia / che fornisce / gli alibi / all’inganno”, “È nella menzogna / della poesia / la verità”. La vita appare un azzardo privo di una significazione e di una validità superiore, “Dopo tutto è solo / un gioco di dadi”, e prevale l’usura dell’abitudine come assuefazione di gesti e pensieri, manie contratte, vezzi e vizi, “Si vive / o piuttosto si muore / incatenati all’abitudine”. Infine, non può neppure essere di conforto la conoscenza del mondo ovvero l’esperienza acquisita nel consumo degli anni e delle generazioni, in quanto “Non serve che a rallentare / i nostri passi / il sempre più pesante / bagaglio di saggezza / che ci portiamo dietro”.
Tuttavia, non è da credere che la visione pessimistica dell’esistenza escluda il movimento vitale delle passioni, il rovello delle emozioni, il trasporto dei sogni, l’aspirazione delle realizzazioni. Non è neppure da credere che il mondo appaia come un universo grigio, senza sfumature e non animato, invece, dai mille colori dei miraggi e delle illecebre. Viene alla mente la popolare e bellissima canzone di Lucio Dalla, intitolata Quale allegria?, in cui il cantautore si chiede Quale allegria / se ti ho cercato per una vita senza trovarti / senza nemmeno avere la soddisfazione di averti / per vederti andare via, ove l’oggetto di tanta ricerca non è propriamente né una donna né un diverso amore, ma piuttosto si tratta di una sirena ulissiaca, ossia un soggetto inespresso e indeterminato della complessità dei desideri umani che alimentano le nostre passioni e che, alla fine, ci rinserrano nel più insoddisfatto solipsismo. Le parole di Nino Pinto fanno da perfetto controcanto anche alla splendida e conosciutissima canzone del musicista e cantante bolognese.
La poesia di Nino Pinto appare come un perfetto sistema rappresentativo del caos gratuito della creazione, che principia artisticamente con l’invenzione gioiosa e trionfante delle divinità pagane, dedite al culto della bellezza e della felicità cinica – nel senso etimologico dei filosofi cinici dell’antica Grecia, orientati ad elaborare una ricerca della felicità nella soddisfazione piana, lineare e gioiosa dei desideri più elementari – ma che decade attraverso la complessità sempre più contraddittoria del mondo in mille disvalori irreversibilmente votati alla negazione e al fallimento di ogni tentativo di perseguire l’allegria e la gioia di vivere. Ne viene fuori una mappa di registrazione dei percorsi esistenziali e nichilistici della cultura occidentale dell’ultimo secolo, riepilogata in un calepino di minima moralia, di brillanti aforismi, di trasognate sentenze, di mirabili intuizioni, che hanno il grande merito di funzionare come contrappunto e controcanto poetico, dal carattere allegro e disperato, pronunciato in una sorta di falsetto dialogato con le riflessioni provenienti dall’alto dei coturni tragici delle scienze umanistiche.

Sandro Gros-Pietro

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