Prefazione

Chi sono? / Il suono lento dell’addio / sieterna nel silenzio. Don… don… don! / L’eco si perde nel salotto buono, / perso nel tempo… Chi son io?”.
Così Giorgio Enrico Cavallo in L’ultima foglia, una silloge di oltre cento composizioni, distinte per titolo e misura
Il Poeta, dichiara il proprio credo lirico, la propria fede nella vitalità della poesia; egli denuncia il perverso, il cattivo gusto, l’arte che “per far colpo (…) esalta il difetto, il brutto, l’orrido. Mai il bello” (Dichiara l’Autore in privato).
Nell’arte in genere e nella poesia in particolare, oggi si rinviene una totale perdita di valori, un’assoluta incapacità di comprendere il dissidio fra bene e male, vita e morte, passato e presente: “L’arte è anarchica perché manca la cultura di base che sostenga ogni tipo di regola” (Ibidem).
Il Poeta si ribella, reagisce al crollo di passate certezze, ripropone il ruolo educativo della poesia: “L’ultima foglia è un ritorno all’ordine, all’arte che vuole dire qualcosa con criterio e cognizione” (Ibidem)
Il dissidio fra istanze contrapposte non è nuovo nella nostra tradizione simbolica ed artistica, spesso si ripropone, anche in modo drammatico: si pensi, per non andare troppo lontano, alle polemiche fra classicismo e romanticismo, fra cultura decadente e le forme del poi.
C’è una dialettica ricorrente fra demolizione e proposta di nuovi valori, fra temi ormai consumati e bisogno di nuove risposte, per rispondere ad istanze di gusto e a incalzanti richieste dello spirito.
Giorgio Enrico Cavallo rivive il dramma, in termini di vitalità rigenerativa e palingenetica; sente forti le voci che parlano d’arte, di poesia, di storia, di vita civile e sociale, come nei grandi della tradizione italiana e piemontese; in particolare, vive il dramma delle cose, come sono e come dovrebbero essere, la sfida tra il senso e il non senso del nostro faticoso andare.
La natura, il sapore dell’antico, la tradizione della propria terra, divengono motivi ispiratori di poesia, mito di richiamo e speranza, oltre il grigiore che il “moderno” ci presenta e risponde con fiducia al battito stanco del tempo.
Tutta la poesia, se è poesia, tende, confessa il Poeta, “verso un destino di redenzione, che si attualizza nella contemporaneità. Le brutture del mondo contemporaneo (…) trovano redenzione nella fede cristiana, che è stimolo per cambiare il mondo in meglio” (Ibidem). Quindi, “il poeta ha l’obbligo morale di trasmettere messaggi positivi, di proporre nuovi valori per i quali vale la pena di vivere. In tal senso, ispiratori diventano il passato, le proprie radici, la natura, il richiamo alla grande tradizione della poesia italiana dalle origini ai nostri giorni.
Affinità si riscontrano, nelle numerose citazioni, con Dante, con Poeti del Sei e Settecento, e, in particolare, tra i più vicini, con Guido Gozzano e Nino Costa, poeta dialettale piemontese, “limpido, essenziale nel senso di una sua adesione cordiale alle cose e ai sentimenti” (Bárberi Squarotti, in UTET, GDE, V, p. 834).
Una poesia, in Giorgio Enrico Cavallo, sempre viva, attenta e presente agli accadimenti con occhio vigile e pronto, capace di cogliere vel minima e trasferire sul rigo l’eco che sussurra fra le siepi del nostro destino; una tematica, varia e avvincente, come avviene nella poesia che il canto muove all’ombra del sole o sotto le stelle piangenti per l’umano dolore.
L’analisi del testo parte dalla prima lirica, L’ultima foglia, che apre l’intera silloge e preannuncia il tragitto che il Poeta intende percorrere. Egli si chiede chi sia con l’umiltà e senso dimesso dell’ode corazziana, in Desolazione del povero poeta sentimentale, ma anche di Cesare Pavese, in Paesi tuoi, e, più ancora, per la lieve ironia, che di tanto in tanto compare nell’andamento del verso, di Guido Gozzano, tanto caro al nostro Autore.
Ispirazione, e ritmo passeggiano lungo interminabili gallerie di ritratti, ricordi, rievocazioni care: “Il suono lento dell’addio / si’eterna nel silenzio / Don… don… don! / L’eco si perde nel salotto buono, / perso nel tempo…” (Ibidem).
Sembra rivivere scorci del mondo gozzaniano, fatto di buone cose, nella “Bellezza riposata dei solai / dove il rifiuto secolare dorme!” (La signorina Felicita).
Tra i Luoghi, cari al Poeta, l’occhio sembra prediligere Superga, l’Isola di San Giulio, Venezia, che si presenta “Come un’amante tra le coltri stesa, / Venezia appare per colui che sogna, / lasciando all’alba sorta la mattina // il gusto amaro di quel che non c’è più”.
Nella sezione Scorci, Il fantasma vaga per le vie di Torino, lungo: “I portici che brillano a lanterne… / L’acqua che scorre nelle doire, e ciancia… / i muri rigorosi di caserme… / Dentro la corte d’un palazzo austero / avverto una coppietta che si bacia / intabarrata nel silenzio nero.” (Il fantasma).
Colpisce, in Cortesie, l’ispirazione amorosa, il gusto della tradizione, la delicatezza del sogno, “la sinfonia / del dolce riso” che diventa elegia dell’anima: “La più bella non è tra le devote / al bacio del principe azzurro / sognato sopra i petali d’un fiore. // La più bella è colei che con le gote / soffuse di rossore, in un sussurro / timidamente scopre in te l’Amore” (La più bella).
Una lirica in armonia con la bella tradizione, di Cavalcanti, Dante, Petrarca…, varia, giocosa e persino giullaresca, capace di ridestare la fantasia sulle tracce d’un tempo lontano: “E che il signor di La Palisse, è pur vero, / per sua natura non diceva il falso. / Nella sua vita nulla di più è valso / ch’essere morto un giorno per davvero.” (Il signor di La Palisse).
I mesi dell’anno, l’umore fra promesse di gennaio e scommesse d’autunno, fra il sole che mostra i muscoli e la pioggia che purifica i sentimenti, accanto il focolare vestito di nebbia, danno il sapore alle cose come sono: “E mentre il giorno presto dà l’addio, / è bello aver vicino una ragazza; / ma non la do a voi: me la tengo io!” (Dicembre).
Il piacere della battuta pronta, scherzosa, ironica nasce da lontano, con la commedia dell’amore, con le mosse comiche di sicuro effetto, si pensi, in tal senso, a Cecco Angiolieri: “S’i’ fosse fuoco, arderei ’l mondo // s’io fosse Cecco com’i’ sono e fui, / torrei le donne giovani e leggiadre: / le zoppe e vecchie lascerei altrui.”
Siffatta ispirazione spunta qua e là nella silloge con accorta misura, ottenendo effetti assolutamente piacevoli e gratificanti: “La chiesa dei racconti del Guareschi / o delle rime semplici del Costa! / Avrei le crepe come dei rabeschi, / ma sarei sempre fermo nel mio posto, // io, macigno che regge tutti secoli” (Vorrei…).
Nell’Epitaffio, l’autoironia diventa persino elegia drammatica: “Tra i fiori bianchi e pallidi bisbigli / del cimitero, io giaccio. Ebbi molto, / ebbi ogni onore. Giaccio sepolto: / ucciso dai miei figli. // qui giaccio, ed il mio nome è solo un’eco; / eco di me, che chiamasti Occidente”.
In I relitti, l’eco biblica rievoca il conflitto perenne tra buoni e cattivi, vinti e vincitori e l’inesorabile condanna degli infidi: “Non ti voltare! Potresti diventare statua di sale!”.
Dopo una simbolica distruzione dell’arte e della società contemporanea nei dodici componimenti dei Relitti, l’ultima sezione della raccolta mira a dettare le basi di una nuova poetica, basata sul bello, sull’impegno sociale e sui valori della vita: la famiglia, le tradizioni e, naturalmente, la fede cristiana. Programmatico, in questo senso, è il sonetto Il mondo nuovo, in Benedizioni: “Non sei vinto, fratello del dolore. / Nel buio accendi il mondo di sorriso: / tutta la terra fiorirà l’amore”.
L’ispirazione dell’ultima sezione bene rientra nel coro dell’armonia petrarchesca, in particolare nella preghiera conclusiva Supplica: “Padre nostro, che in Cielo e con noi sei, / conosciuto da sempre e mal veduto. / Signore, elévo a te ciò che vorrei; / soccorri l’arte sola e senza aiuto. // Preserva, e guarda un poco a questa parte, / ove germoglia lento un nuovo fusto: / Salvaci, o Dio, se il suo fu un seme giusto.”
Giorgio Enrico Cavallo si presenta sul palcoscenico della poesia, vestito d’antico e di moderno, non perché rievochi acriticamente il passato o tenti nuove “for­me” e “soggetti”, bensì per il rispetto che porta per l’umanità, la cultura, l’ espressione e lo stile.
Una lirica tutta impegnata nella ricerca del luogo sicuro, dove trovi rifugio il nostro faticoso andare, dove si plachi “quelo spirto guerrier ch’entro” ci “rugge” (Foscolo).

Armando Santinato

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